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lunedì 30 aprile 2012

Benedetto XVI: Ognuno di noi è frutto dell'amore di Dio.

Regina Coeli di Papa Benedetto XVI - 29 Aprile 2012

BENEDETTO XVI

REGINA CÆLI

Domenica, 29 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

Si è da poco conclusa, nella Basilica di San Pietro, la celebrazione eucaristica nella quale ho ordinato nove nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. Rendiamo grazie a Dio per questo dono, segno del suo amore fedele e provvidente per la Chiesa! Stringiamoci spiritualmente intorno a questi sacerdoti novelli e preghiamo perché accolgano pienamente la grazia del Sacramento che li ha conformati a Gesù Cristo Sacerdote e Pastore. E preghiamo perché tutti i giovani siano attenti alla voce di Dio che interiormente parla al loro cuore e li chiama a distaccarsi da tutto per servire Lui. A questo scopo è dedicata l’odierna Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. In effetti, il Signore chiama sempre, ma tante volte noi non ascoltiamo. Siamo distratti da molte cose, da altre voci più superficiali; e poi abbiamo paura di ascoltare la voce del Signore, perché pensiamo che possa toglierci la nostra libertà. In realtà, ognuno di noi è frutto dell’amore: certamente, l’amore dei genitori, ma, più profondamente, l’amore di Dio. Dice la Bibbia: se anche tua madre non ti volesse, io ti voglio, perché ti conosco e ti amo (cfr Is 49,15). Nel momento in cui mi rendo conto di questo, la mia vita cambia: diventa una risposta a questo amore, più grande di ogni altro, e così si realizza pienamente la mia libertà.

I giovani che oggi ho consacrato sacerdoti non sono differenti dagli altri giovani, ma sono stati toccati profondamente dalla bellezza dell’amore di Dio, e non hanno potuto fare a meno di rispondere con tutta la loro vita. Come hanno incontrato l’amore di Dio? L’hanno incontrato in Gesù Cristo: nel suo Vangelo, nell’Eucaristia e nella comunità della Chiesa. Nella Chiesa si scopre che la vita di ogni uomo è una storia d’amore. Ce lo mostra chiaramente la Sacra Scrittura, e ce lo conferma la testimonianza dei santi. Esemplare è l’espressione di sant’Agostino, che nelle sue Confessioni si rivolge a Dio e dice: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Tu eri dentro di me, e io fuori … Eri con me, e io non ero con te … Ma mi hai chiamato, e il tuo grido ha vinto la mia sordità» (X, 27.38).

Cari amici, preghiamo per la Chiesa, per ogni comunità locale, perché sia come un giardino irrigato in cui possano germogliare e maturare tutti i semi di vocazione che Dio sparge in abbondanza. Preghiamo perché dappertutto si coltivi questo giardino, nella gioia di sentirsi tutti chiamati, nella varietà dei doni. In particolare, le famiglie siano il primo ambiente in cui si “respira” l’amore di Dio, che dà forza interiore anche in mezzo alle difficoltà e le prove della vita. Chi vive in famiglia l’esperienza dell’amore di Dio, riceve un dono inestimabile, che porta frutto a suo tempo. Ci ottenga tutto questo la Beata Vergine Maria, modello di accoglienza libera e obbediente alla divina chiamata, Madre di ogni vocazione nella Chiesa.

Dopo il Regina Caeli

Cari fratelli e sorelle!

Un saluto speciale rivolgo ai pellegrini riuniti nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, dove stamani è stato proclamato Beato Giuseppe Toniolo. Vissuto tra il XIX e il XX secolo, fu sposo e padre di sette figli, professore universitario ed educatore dei giovani, economista e sociologo, appassionato servitore della comunione nella Chiesa. Attuò gli insegnamenti dell’Enciclica Rerum novarum del Papa Leone XIII; promosse l’Azione Cattolica, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, le Settimane Sociali dei cattolici italiani e un Istituto di diritto internazionale della pace. Il suo messaggio è di grande attualità, specialmente in questo tempo: il Beato Toniolo indica la via del primato della persona umana e della solidarietà. Egli scriveva: «Al di sopra degli stessi legittimi beni ed interessi delle singole nazioni e degli Stati, vi è una nota inscindibile che tutti li coordina ad unità, vale a dire il dovere della solidarietà umana».

Sempre oggi a Coutances, in Francia, è stato beatificato anche il sacerdote Pierre-Adrien Toulorge, dell’Ordine Premostratense, vissuto nella seconda metà del secolo XVIII. Rendiamo grazie a Dio per questo luminoso “martire della verità”.

Saluto i partecipanti all’Incontro europeo degli studenti universitari, organizzato dalla Diocesi di Roma nel primo anniversario della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II. Cari giovani, proseguite con fiducia nel cammino della nuova evangelizzazione nelle Università. Domani sera mi unirò spiritualmente a voi, per la Veglia che avrà luogo a Tor Vergata, presso la grande Croce della Giornata Mondiale della Gioventù del 2000. Grazie della vostra presenza!

domenica 29 aprile 2012

Video Vangelo: IV Domenica di Pasqua

Immagine antica e sempre nuova

4^ Domenica Di Pasqua
(Gv 10,11-18) 


Domenica del Buon Pastore. Continuiamo a riflettere su Gesù risorto e sul fatto che anche dopo morto, si fa sempre vivo. Oggi la liturgia ci presenta un’immagine antica e sempre nuova, quella del buon pastore che dà la vita per le pecore. La dà per poi riprenderla di nuovo. Solo Lui ha questo potere: riprendere la sua vita o meglio riprendere a vivere dopo che era già morto. Incredibile!

• Un caso sovrumano…

Lui non è uscito da questa terra come ne usciremo tutti noi! Come usciremo noi da questa vita? Morti! Per passare da questa all’altra vita, bisogna per forza uscirne morti. Gesù invece ne è uscito vivo dopo che era già morto, defunto e sepolto. Di che far saltare tutte le nostre categorie umane. Infatti Gesù è un “caso” sovrumano: impossibile farlo rientrare nei nostri schemi. Meglio: Gesù è un “caso” divino: è per questo che ha potuto salire al cielo vivo e non morto. Bel rompicapo per un ufficiale dell’anagrafe! Quell’Uomo morto il 7 aprile, il 9 aprile è di nuovo vivo! Infatti, come ci conferma la ricerca storica, Gesù sarebbe morto il 7 aprile dell’anno 30, ma l’ultima data di Gesù sulla terra, non è per niente quella, ce n’è un’altra: c’è il 9 aprile che butta tutto per aria, non solo la pietra del sepolcro, ma anche tutte le nostre concezioni umane.

• …che manda in tilt tutto il sistema

Invece, per ognuno di noi, l’ultima, suprema data, sarà quella della morte. Entrati nel… monolocale del sepolcro, da lì non ne usciremo più: quella sarà, non la prima o la seconda casa, ma l’ultima e definitiva abitazione in cui prenderemo residenza. E nessuno potrà più farci sloggiare da lì. Quindi il “caso” Gesù sarebbe anche un bel rompicapo non solo per l’anagrafe, ma pure per i vari istituti di previdenza sociale, assicurazioni sulla vita ecc. Se volessimo fare la trasposizione ai giorni nostri, un uomo morto il 7 aprile, non ha più diritto alla pensione; se poi il 9 è di nuovo vivo, che si fa?… Paragone applicabile ai tempi moderni, che mi pare efficace per farci afferrare l’enorme mistero di Gesù di Nazareth. Capitasse oggi una cosa simile, manderebbe in tilt tutto il sistema. Su che registro registrare UNO che, morto e sepolto il 7 aprile, il 9 aprile è di nuovo vivo?

• Caro Gesù…

Eccovi una bella preghiera a Gesù buon pastore che non ragiona per niente come gli altri pastori.
“Caro Gesù, sei un pastore strano: strano perché tu offri la vita per le pecore. Dov’è mai scritto tutto questo? Un pastore vale infinitamente di più di tutti i greggi del mondo e tu dici che il buon pastore offre la vita per loro. E’ fuori di ogni buon senso e di ogni calcolo delle probabilità. Se veramente il pastore dà la vita, le pecore che rimangono senza pastore si smarriscono e diventano preda dei lupi.
Allora non è meglio essere prudenti e lasciar sbranare qualche pecora salvando sé stesso? E’ questione di buon senso. Senza voler giudicare, ci pare o Gesù che, non la tua radicalità, ma il sentire comune sia diventato il criterio e il pensiero della vita di molti. Si sente infatti spesso dire “puoi continuare a fare il bene, senza diventare prete” dice il padre al figlio che si sente chiamato a donare tutto sé stesso all’avventura del Vangelo. “Chi me lo fa fare ad andare contro corrente e anche mettermi contro, predicando il Vangelo. Un po’ di buon senso. L’ignoranza è l’ottavo sacramento. Neppure Gesù ha salvato tutti quelli che ha incontrato. Chi me lo fa fare?… Buon senso ci vuole!” Gesù buon pastore, liberaci da questo “buon senso” umano e donaci pastori che prendano te come modello. Concedici pastori di comunità ecclesiali che con te offrano la vita per il loro gregge. Allora le vocazioni non mancheranno perché tutti vedranno che la vita vale se la si dona; che la vocazione è un dono d’amore ricevuto e ricambiato. Amen!” (Don Giuseppe Sacino).

Wilma Chasseur

giovedì 26 aprile 2012

Benedetto XVI: preghiera fonte di ogni azione

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 25 Aprile 2012

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 25 aprile 2012

Il primato della preghiera e della Parola di Dio (At 6, 1-7)

Cari fratelli e sorelle,

nella scorsa catechesi, ho mostrato che la Chiesa, fin dagli inizi del suo cammino, si è trovata a dover affrontare situazioni impreviste, nuove questioni ed emergenze a cui ha cercato di dare risposta alla luce della fede, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo. Oggi vorrei soffermarmi a riflettere su un’altra di queste situazioni, su un problema serio che la prima comunità cristiana di Gerusalemme ha dovuto fronteggiare e risolvere, come ci narra san Luca nel capitolo sesto degli Atti degli Apostoli, circa la pastorale della carità verso le persone sole e bisognose di assistenza e aiuto. La questione non è secondaria per la Chiesa e rischiava in quel momento di creare divisioni all’interno della Chiesa; il numero dei discepoli, infatti, andava aumentando, ma quelli di lingua greca iniziavano a lamentarsi contro quelli di lingua ebraica perché le loro vedove venivano trascurate nella distribuzione quotidiana (cfr At 6,1). Di fronte a questa urgenza che riguardava un aspetto fondamentale nella vita della comunità, cioè la carità verso i deboli, i poveri, gli indifesi, e la giustizia, gli Apostoli convocano l’intero gruppo dei discepoli. In questo momento di emergenza pastorale risalta il discernimento compiuto dagli Apostoli. Essi si trovano di fronte all’esigenza primaria di annunciare la Parola di Dio secondo il mandato del Signore, ma - anche se è questa l'esigenza primaria della Chiesa - considerano con altrettanta serietà il dovere della carità e della giustizia, cioè il dovere di assistere le vedove, i poveri, di provvedere con amore alle situazioni di bisogno in cui si vengono a trovare i fratelli e le sorelle, per rispondere al comando di Gesù: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi (cfr Gv 15,12.17). Quindi le due realtà che devono vivere nella Chiesa - l'annuncio della Parola, il primato di Dio, e la carità concreta, la giustizia -, stanno creando difficoltà e si deve trovare una soluzione, perché ambedue possano avere il loro posto, la loro relazione necessaria. La riflessione degli Apostoli è molto chiara, dicono, come abbiamo sentito: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,2-4).

Due cose appaiono: primo, esiste da quel momento nella Chiesa, un ministero della carità. La Chiesa non deve solo annunciare la Parola, ma anche realizzare la Parola, che è carità e verità. E, secondo punto, questi uomini non solo devono godere di buona reputazione, ma devono essere uomini pieni di Spirito Santo e di sapienza, cioè non possono essere solo organizzatori che sanno «fare», ma devono «fare» nello spirito della fede con la luce di Dio, nella sapienza nel cuore, e quindi anche la loro funzione - benché soprattutto pratica - è tuttavia una funzione spirituale. La carità e la giustizia non sono solo azioni sociali, ma sono azioni spirituali realizzate nella luce dello Spirito Santo. Quindi possiamo dire che questa questa situazione viene affrontata con grande responsabilità da parte degli Apostoli, che prendono questa decisione: vengono scelti sette uomini; gli Apostoli pregano per chiedere la forza dello Spirito Santo; e poi impongono loro le mani perché si dedichino in modo particolare a questa diaconia della carità. Così, nella vita della Chiesa, nei primi passi che essa compie, si riflette, in un certo modo, quanto era avvenuto durante la vita pubblica di Gesù, in casa di Marta e Maria a Betania. Marta era tutta presa dal servizio dell’ospitalità da offrire a Gesù e ai suoi discepoli; Maria, invece, si dedica all’ascolto della Parola del Signore (cfr Lc 10,38-42). In entrambi i casi, non vengono contrapposti i momenti della preghiera e dell’ascolto di Dio, e l’attività quotidiana, l’esercizio della carità. Il richiamo di Gesù: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno, Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41-42), come pure la riflessione degli Apostoli: «Noi… ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,4), mostrano la priorità che dobbiamo dare a Dio, Non vorrei entrare adesso nell'interpretazione di questa pericope Marta-Maria. In ogni caso non va condannata l'attività per il prossimo, per l'altro, ma va sottolineato che deve essere penetrata interiormente anche dallo spirito della contemplazione. D'altra parte, sant'Agostino dice che questa realtà di Maria è una visione della nostra situazione del cielo, quindi sulla terra non possiamo mai averla completamente, ma un po' di anticipazione deve essere presente in tutta la nostra attività. Deve essere presente anche la contemplazione di Dio. Non dobbiamo perderci nell'attivismo puro, ma sempre lasciarci anche penetrare nella nostra attività dalla luce della Parola di Dio e così imparare la vera carità, il vero servizio per l'altro, che non ha bisogno di tante cose - ha bisogno certamente delle cose necessarie - ma ha bisogno soprattutto dell'affetto del nostro cuore, della luce di Dio.

Sant’Ambrogio, commentando l’episodio di Marta e Maria, così esorta i suoi fedeli e anche noi: «Cerchiamo di avere anche noi ciò che non ci può essere tolto, porgendo alla parola del Signore una diligente attenzione, non distratta: capita anche ai semi della parola celeste di essere portati via, se sono seminati lungo la strada. Stimoli anche te, come Maria, il desiderio di sapere: è questa la più grande, più perfetta opera» E aggiunge che anche «la cura del ministero non distragga dalla conoscenza della parola celeste», dalla preghiera (Expositio Evangelii secundum Lucam, VII, 85: PL 15, 1720). I Santi, quindi, hanno sperimentato una profonda unità di vita tra preghiera e azione, tra l’amore totale a Dio e l’amore ai fratelli. San Bernando, che è un modello di armonia tra contemplazione ed operosità, nel libro De consideratione, indirizzato al Papa Innocenzo II per offrigli alcune riflessioni circa il suo ministero, insiste proprio sull’importanza del raccoglimento interiore, della preghiera per difendersi dai pericoli di una attività eccessiva, qualunque sia la condizione in cui ci si trova e il compito che si sta svolgendo. San Bernardo afferma che le troppe occupazioni, una vita frenetica, spesso finiscono per indurire il cuore e far soffrire lo spirito (cfr II, 3).

E’ un prezioso richiamo per noi oggi, abituati a valutare tutto con il criterio della produttività e dell’efficienza. Il brano degli Atti degli Apostoli ci ricorda l’importanza del lavoro - senza dubbio viene creato un vero e proprio ministero -, dell’impegno nelle attività quotidiane che vanno svolte con responsabilità e dedizione, ma anche il nostro bisogno di Dio, della sua guida, della sua luce che ci danno forza e speranza. Senza la preghiera quotidiana vissuta con fedeltà, il nostro fare si svuota, perde l’anima profonda, si riduce ad un semplice attivismo che, alla fine, lascia insoddisfatti. C’è una bella invocazione della tradizione cristiana da recitarsi prima di ogni attività, che dice così: «Actiones nostras, quæsumus, Domine, aspirando præveni et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur», cioè: «Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostro parlare ed agire abbia sempre da te il suo inizio e in te il suo compimento». Ogni passo della nostra vita, ogni azione, anche della Chiesa, deve essere fatta davanti a Dio, alla luce della sua Parola.

Nella catechesi del mercoledì scorso avevo sottolineato la preghiera unanime della prima comunità cristiana di fronte alla prova e come, proprio nella preghiera, nella meditazione sulla Sacra Scrittura essa ha potuto comprendere gli eventi che stavano accadendo. Quando la preghiera è alimentata dalla Parola di Dio, possiamo vedere la realtà con occhi nuovi, con gli occhi della fede e il Signore, che parla alla mente e al cuore, dona nuova luce al cammino in ogni momento e in ogni situazione. Noi crediamo nella forza della Parola di Dio e della preghiera. Anche la difficoltà che stava vivendo la Chiesa di fronte al problema del servizio ai poveri, alla questione della carità, viene superata nella preghiera, alla luce di Dio, dello Spirito Santo. Gli Apostoli non si limitano a ratificare la scelta di Stefano e degli altri uomini. ma «dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6). L’Evangelista ricorderà nuovamente questi gesti in occasione dell’elezione di Paolo e Barnaba, dove leggiamo: «dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono» (At 13,3). Conferma di nuovo che il servizio pratico della carità è un servizio spirituale. Ambedue le realtà devono andare insieme.

Con il gesto dell’imposizione delle mani, gli Apostoli conferiscono un ministero particolare a sette uomini, perché sia data loro la grazia corrispondente. La sottolineatura della preghiera – «dopo aver pregato», dicono – è importante perché evidenzia proprio la dimensione spirituale del gesto; non si tratta semplicemente di conferire un incarico come avviene in un’organizzazione sociale, ma è un evento ecclesiale in cui lo Spirito Santo si appropria di sette uomini scelti dalla Chiesa, consacrandoli nella Verità che è Gesù Cristo: è Lui il protagonista silenzioso, presente nell’imposizione delle mani affinché gli eletti siano trasformati dalla sua potenza e santificati per affrontare le sfide pratiche, le sfide pastorali. E la sottolineatura della preghiera ci ricorda inoltre che solo dal rapporto intimo con Dio coltivato ogni giorno nasce la risposta alla scelta del Signore e viene affidato ogni ministero nella Chiesa.

Cari fratelli e sorelle, il problema pastorale che ha indotto gli Apostoli a scegliere e ad imporre le mani su sette uomini incaricati del servizio della carità, per dedicarsi loro stessi alla preghiera e all’annuncio della Parola, indica anche a noi il primato della preghiera e della Parola di Dio, che, tuttavia, produce poi anche l'azione pastorale. Per i Pastori questa è la prima e più preziosa forma di servizio verso il gregge loro affidato. Se i polmoni della preghiera e della Parola di Dio non alimentano il respiro della nostra vita spirituale, rischiamo di soffocare in mezzo alle mille cose di ogni giorno: la preghiera è il respiro dell’anima e della vita. E c’è un altro prezioso richiamo che vorrei sottolineare: nel rapporto con Dio, nell’ascolto della sua Parola, nel dialogo con Dio, anche quando ci troviamo nel silenzio di una chiesa o della nostra stanza, siamo uniti nel Signore a tanti fratelli e sorelle nella fede, come un insieme di strumenti che, pur nella loro individualità, elevano a Dio un’unica grande sinfonia di intercessione, di ringraziamento e di lode. Grazie.

domenica 22 aprile 2012

Video Vangelo: III Domenica di Pasqua

L'uomo: una povertà in cammino

3^ Domenica di Pasqua
(Lc 24,35-48) 

Ancora “pace a voi!” E’ di nuovo Gesù in persona che lo dice! E’ lui in persona, ma i discepoli lo credono un fantasma. E’ il colmo! Ma perché lo credono un fantasma? Perché erano spaventati. Perché erano loro ad essere abitati da fantasmi, cioè turbamento, paure e dubbi che non permettevano loro di vedere la realtà, ma rimanevano avvolti in quella caligine. Ecco perché tante volte, anche noi, non riusciamo a vedere Gesù nella nostra vita: c’è una coltre di preoccupazioni, angosce e paure che ce lo vela e lo rende come un fantasma.

• Come fare per non essere dei fantasmi

Ma a volte, pure noi siamo come dei fantasmi. Quando? Quando non siamo coerenti con ciò che professiamo: diciamo una cosa e ne facciamo un’altra; vogliamo apparire ciò che non siamo. Quando siamo vuoti dentro e le nostre parole sono piene di vento. Per essere convincenti bisogna prima essere coerenti, altrimenti siamo maschere ambulanti e fantasmi svolazzanti.
Questa apparizione di Gesù risorto, raccontata da Luca è l’esperienza dell’incontro con Gesù vivo. E’ la conferma che lui è veramente risorto. Fino ad allora, del Signore risorto, c’era stata solo una prova in negativo, cioè il sepolcro vuoto, ma Lui in persona, vivo e vero, nessuno l’aveva ancora visto. E il sepolcro vuoto non può essere la prova della risurrezione, ma solo della sparizione del corpo del Signore. L’esperienza positiva dell’incontro non era ancora avvenuta. Oltretutto le prime testimoni del sepolcro vuoto erano state delle donne che avevano avuto anche una visione di angeli. Ma, si sa, alle donne e agli angeli non tutti ci credono… Nel mondo giudaico la testimonianza delle donne, non aveva alcun valore ufficiale, ma ne aveva per Gesù che, assolutamente libero dai condizionamenti socio-culturali dell’epoca, scelse di apparire per primo a Maria Maddalena.

• Primo giorno da Risorto

E’ dunque il primo giorno della vita gloriosa di Gesù sulla Terra che, anche da risorto, si fa pellegrino e viandante che va ad incrociare le strade dei discepoli scoraggiati e sfiduciati. Talmente sfiduciati che lo credono un fantasma, lo credono defunto e così non lo riconoscono. Ma poco a poco, ascoltando la Sua voce, il loro cuore diventa incandescente. E Lui continua a camminare con loro tutto il giorno, fino a sera. Perché l’uomo è proprio questo: una realtà in cammino, o meglio, “l’uomo è una povertà in cammino verso la divina pienezza” (Don Michele Do). I due di Emmaus per un po’ hanno avuto la grazia insigne di camminare con QUELLA pienezza, senza però riconoscerla. La riconobbero solo dopo e allora, il cuore ardente fece loro riprendere il cammino per tornare a Gerusalemme ad annunciarla. E mentre erano lì, Gesù apparve anche agli altri discepoli.

• Perché non lo riconobbero?

Questa volta dunque non c’è più soltanto il sepolcro vuoto, ma c’è Gesù vivo e vero. Ma perché non l’hanno riconosciuto subito? Perché lo credevano lontano, fuori dal loro orizzonte e dalla loro vita. E quand’è che noi non Lo riconosciamo? Quando siamo convinti che sia lontano, che non si occupi di noi, che non si interessi alla nostra vita. Allora, come i discepoli, diventiamo tristi, sfiduciati e scoraggiati. Eppure se ci pensiamo bene, quante volte anche noi l’abbiamo incontrato, ma solo dopo l’abbiamo riconosciuto. Quanti luoghi dell’incontro che ognuno potrebbe enumerare, dove Lui ha attraversato la nostra vita, ha incrociato i nostri passi e ci ha rivelato il senso del nostro andare e del nostro cercare. E ci ha dato nuovo coraggio per riprendere il cammino. E ogni giorno ci sarà per noi un nuovo “Emmaus” dove Lui ci aspetta per affiancarci nel cammino e rivelarci il suo progetto. Tocca a noi riconoscerlo e scoprire la fiamma che aveva già acceso nel nostro cuore.

Wilma Chasseur

giovedì 19 aprile 2012

Benedetto XVI: con la preghiera illuminiamo la nostra vita

Udienza Generale di Papa Benedetto XVI - 18 Aprile 2012

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 18 aprile 2012


Cari fratelli e sorelle,

dopo le grandi feste, ritorniamo adesso alle catechesi sulla preghiera. Nell’udienza prima della Settimana Santa ci siamo soffermati sulla figura della Beata Vergine Maria, presente in mezzo agli Apostoli in preghiera nel momento in cui attendevano la discesa dello Spirito Santo. Un’atmosfera orante accompagna i primi passi della Chiesa. La Pentecoste non è un episodio isolato, poiché la presenza e l’azione dello Spirito Santo guidano e animano costantemente il cammino della comunità cristiana. Negli Atti degli Apostoli, infatti, san Luca, oltre a raccontare la grande effusione avvenuta nel Cenacolo cinquanta giorni dopo la Pasqua (cfr At 2,1-13), riferisce di altre irruzioni straordinarie dello Spirito Santo, che ritornano nella storia della Chiesa. E quest’oggi desidero soffermarmi su quella che è stata definita la «piccola Pentecoste», verificatasi al culmine di una fase difficile nella vita della Chiesa nascente.

Gli Atti degli Apostoli narrano che, in seguito alla guarigione di un paralitico presso il Tempio di Gerusalemme (cfr At 3,1-10), Pietro e Giovanni vennero arrestati (cfr At 4,1) perché annunciavano la Risurrezione di Gesù a tutto il popolo (cfr At 3,11-26). Dopo un processo sommario, furono rimessi in libertà, raggiunsero i loro fratelli e raccontarono quanto avevano dovuto subire a causa della testimonianza resa a Gesù il Risorto. In quel momento, dice san Luca, «tutti unanimi innalzarono la loro voce a Dio» (At 4,24). Qui san Luca riporta la più ampia preghiera della Chiesa che troviamo nel Nuovo Testamento, alla fine della quale, come abbiamo sentito, «il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati dello Spirito Santo e proclamavano la Parola di Dio con franchezza» (At 4,31).

Prima di considerare questa bella preghiera, notiamo un atteggiamento di fondo importante: di fronte al pericolo, alla difficoltà, alla minaccia, la prima comunità cristiana non cerca di fare analisi su come reagire, trovare strategie, come difendersi, quali misure adottare, ma, davanti alla prova, si mette in preghiera, prende contatto con Dio.

E che caratteristica ha questa preghiera? Si tratta di una preghiera unanime e concorde dell’intera comunità, che fronteggia una situazione di persecuzione a causa di Gesù. Nell’originale greco san Luca usa il vocabolo «homothumadon» - «tutti insieme», «concordi» – un termine che appare in altre parti degli Atti degli Apostoli per sottolineare questa preghiera perseverante e concorde (cfr At 1,14; 2,46). Questa concordia è l'elemento fondamentale della prima comunità e dovrebbe essere sempre fondamentale per la Chiesa. Non è allora solo la preghiera di Pietro e di Giovanni, che si sono trovati nel pericolo, ma di tutta la comunità, perché quanto vivono i due Apostoli non riguarda soltanto loro, ma tutta la Chiesa. Di fronte alle persecuzioni subite a causa di Gesù, la comunità non solo non si spaventa e non si divide, ma è profondamente unita nella preghiera, come una sola persona, per invocare il Signore. Questo, direi, è il primo prodigio che si realizza quando i credenti sono messi alla prova a causa della loro fede: l’unità si consolida, invece di essere compromessa, perché è sostenuta da una preghiera incrollabile. La Chiesa non deve temere le persecuzioni che nella sua storia è costretta a subire, ma confidare sempre, come Gesù al Getsemani, nella presenza, nell’aiuto e nella forza di Dio, invocato nella preghiera.

Facciamo un passo ulteriore: che cosa chiede a Dio la comunità cristiana in questo momento di prova? Non chiede l’incolumità della vita di fronte alla persecuzione, né che il Signore ripaghi coloro che hanno incarcerato Pietro e Giovanni; chiede solamente che le sia concesso «di proclamare con tutta franchezza» la Parola di Dio (cfr At 4,29), cioè prega di non perdere il coraggio della fede, il coraggio di annunciare la fede. Prima però cerca di comprendere in profondità ciò che è accaduto, cerca di leggere gli avvenimenti alla luce della fede e lo fa proprio attraverso la Parola di Dio, che ci fa decifrare la realtà del mondo.

Nella preghiera che eleva al Signore, la comunità parte dal ricordare e invocare la grandezza e immensità di Dio: «Signore, tu che hai creato il cielo e la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano» (At 4,24). E' l'invocazione al Creatore: sappiamo che tutto viene da Lui, che tutto è nelle sue mani. Questa è la consapevolezza che ci dà certezza e coraggio: tutto viene da Lui, tutto è nelle sue mani. Passa poi a riconoscere come Dio abbia agito nella storia - quindi comincia con la creazione e continua nella storia -, come è stato vicino al suo popolo mostrandosi un Dio che si interessa dell’uomo, che non si è ritirato, che non abbandona l’uomo sua creatura; e qui viene citato esplicitamente il Salmo 2, alla luce del quale viene letta la situazione di difficoltà che sta vivendo in quel momento la Chiesa. Il Salmo 2 celebra l’intronizzazione del re di Giuda, ma si riferisce profeticamente alla venuta del Messia, contro il quale nulla potranno fare la ribellione, la persecuzione, il sopruso degli uomini: «Perché le nazioni si agitarono e i popoli tramarono cose vane? Si sollevarono i re della terra e i principi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo» (At 4,25). Questo dice già profeticamente il Salmo sul Messia, ed è caratteristica in tutta la storia questa ribellione dei potenti contro la potenza di Dio. Proprio leggendo la Sacra Scrittura, che è Parola di Dio, la comunità può dire a Dio nella sua preghiera: «davvero in questa città … si sono radunati insieme contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse» (At 4,27). Ciò che è accaduto viene letto alla luce di Cristo, che è la chiave per comprendere anche la persecuzione; la Croce, che sempre è la chiave per la Risurrezione. L’opposizione verso Gesù, la sua Passione e Morte, vengono rilette, attraverso il Salmo 2, come attuazione del progetto di Dio Padre per la salvezza del mondo. E qui si trova anche il senso dell’esperienza di persecuzione che la prima comunità cristiana sta vivendo; questa prima comunità non è una semplice associazione, ma una comunità che vive in Cristo; pertanto, ciò che le accade fa parte del disegno di Dio. Come è successo a Gesù, anche i discepoli incontrano opposizione, incomprensione, persecuzione. Nella preghiera, la meditazione sulla Sacra Scrittura alla luce del mistero di Cristo aiuta a leggere la realtà presente all’interno della storia di salvezza che Dio attua nel mondo, sempre nel suo modo.

Proprio per questo la richiesta che la prima comunità cristiana di Gerusalemme formula a Dio nella preghiera non è quella di essere difesa, di essere risparmiata dalla prova, dalla sofferenza, non è la preghiera di avere successo, ma solamente quella di poter proclamare con «parresia», cioè con franchezza, con libertà, con coraggio, la Parola di Dio (cfr At 4,29).

Aggiunge poi la richiesta che questo annuncio sia accompagnato dalla mano di Dio, perché si compiano guarigioni, segni, prodigi (cfr At 4,30), cioè sia visibile la bontà di Dio, come forza che trasformi la realtà, che cambi il cuore, la mente, la vita degli uomini e porti la novità radicale del Vangelo.

Alla fine della preghiera – annota san Luca - «il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), il luogo tremò, cioè la fede ha la forza di trasformare la terra e il mondo. Lo stesso Spirito che ha parlato per mezzo del Salmo 2 nella preghiera della Chiesa, irrompe nella casa e ricolma il cuore di tutti coloro che hanno invocato il Signore. Questo è il frutto della preghiera corale che la comunità cristiana innalza a Dio: l’effusione dello Spirito, dono del Risorto che sostiene e guida l’annuncio libero e coraggioso della Parola di Dio, che spinge i discepoli del Signore ad uscire senza paura per portare la buona novella fino ai confini del mondo.

Anche noi, cari fratelli e sorelle, dobbiamo saper portare gli avvenimenti della nostra vita quotidiana nella nostra preghiera, per ricercarne il significato profondo. E come la prima comunità cristiana, anche noi, lasciandoci illuminare dalla Parola di Dio, attraverso la meditazione sulla Sacra Scrittura, possiamo imparare a vedere che Dio è presente nella nostra vita, presente anche e proprio nei momenti difficili, e che tutto - anche le cose incomprensibili - fa parte di un superiore disegno di amore nel quale la vittoria finale sul male, sul peccato e sulla morte è veramente quella del bene, della grazia, della vita, di Dio.

Come per la prima comunità cristiana, la preghiera ci aiuta a leggere la storia personale e collettiva nella prospettiva più giusta e fedele, quella di Dio. E anche noi vogliamo rinnovare la richiesta del dono dello Spirito Santo, che scaldi il cuore e illumini la mente, per riconoscere come il Signore realizzi le nostre invocazioni secondo la sua volontà di amore e non secondo le nostre idee. Guidati dallo Spirito di Gesù Cristo, saremo capaci di vivere con serenità, coraggio e gioia ogni situazione della vita e con san Paolo vantarci «nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza la virtù provata e la virtù provata la speranza»: quella speranza che «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,3-5). Grazie.

mercoledì 18 aprile 2012

La Summa Teologica - Sessantunesima parte


Torna l'appuntamento di approfondimento della Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio, e continuiamo a soffermarci sulla nostra conoscenza di Dio:

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

La nostra conoscenza di Dio > Se coloro che vedono Dio nella sua essenza lo comprendano

Prima parte
Questione 12
Articolo 7


SEMBRA che coloro che vedono Dio per essenza lo comprendano. Infatti:
1. S. Paolo dice: "Continuo a correre per arrivare a comprendere". Ora, non correva invano giacché egli stesso dice: "dunque io corro, ma non come alla ventura". Dunque egli è arrivato a comprendere: e per la stessa ragione tutti gli altri che a ciò invita dicendo: "Correte anche voi così da comprendere".

2. S. Agostino dice: "Una cosa si comprende quando è talmente vista nella sua totalità, che niente di essa sfugge a chi vede". Ora, se Dio si vede nella sua essenza, si vede tutto, e niente di lui si cela a chi lo vede, essendo Dio semplice. Dunque chi lo vede per essenza, lo comprende.

3. Se uno dicesse: "si vede tutto, ma non totalmente", si ribatte: totalmente o si riferisce al conoscente o al conosciuto. Ora, ammesso che si riferisca all'oggetto conosciuto, colui che vede Dio per essenza, lo vede totalmente, perché, si è già visto, lo vede così com'è. E anche se (il termine) viene riferito al soggetto conoscente (si deve dire) che vede Dio totalmente, perché l'intelligenza vedrà l'essenza di Dio con tutto il suo vigore. Perciò chiunque vedrà Dio per essenza lo vedrà totalmente. Quindi lo comprenderà.

IN CONTRARIO: Sta scritto: "O fortissimo, o grande, o potente, il cui nome è il Signore degli eserciti; grande nel consiglio, incomprensibile nel pensiero". Dunque (Dio) non si può comprendere.

RISPONDO: È impossibile per qualsiasi intelletto creato comprendere Dio; "ma raggiungere con la mente Dio in qualunque maniera è una grande felicità", come dice S. Agostino.
Per capire bene ciò, bisogna sapere che comprendere una cosa vuol dire conoscerla alla perfezione. Si conosce poi alla perfezione ciò che si conosce tanto quanto è conoscibile. Quindi, se una cosa che è conoscibile per dimostrazione scientifica, fosse ritenuta soltanto come opinione fondata su ragioni probabili, non si comprenderebbe. P. es.: se uno sa per dimostrazione che il triangolo ha i tre angoli uguali a due retti, comprende tale verità; uno invece che l'accetti come opinione probabile, perché così è affermato dai dotti o dai più, non la comprende; perché non ha raggiunto il perfetto grado di cognizione, secondo il quale la cosa è conoscibile.
Ora, nessun intelletto creato può arrivare a quel perfetto grado di cognizione della divina essenza secondo il quale è conoscibile. Il che si chiarisce così. Ogni cosa è conoscibile nella misura che è ente in atto. Dio, dunque, il cui essere, come abbiamo già dimostrato, è infinito, è infinitamente conoscibile. D'altra parte, nessun intelletto creato può conoscere Dio infinitamente. Infatti un intelletto creato conosce più o meno perfettamente la divina essenza a seconda che è perfuso di un maggiore o minore lume di gloria. Conseguentemente, non potendo essere infinito il lume di gloria ricevuto in qualsiasi intelletto creato, è impossibile che un'intelligenza creata conosca Dio infinitamente. Quindi è impossibile che comprenda Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La parola comprensione s'intende in due modi. Primo modo: in senso stretto e proprio, indica che qualche cosa è racchiuso nel comprendente. E in questo senso Dio non è compreso in nessun modo né da un'intelligenza, né da qualsiasi altra cosa; perché, essendo infinito, non può essere racchiuso da un essere finito, in modo che l'essere finito lo contenga nella sua illimitata infinità. E di tale comprensione ora si tratta. Secondo modo: il termine comprensione si prende anche in un senso più largo, quando indica l'opposto di tendenza o conato. Chi infatti ha raggiunto qualcuno, quando lo tiene stretto, si dice che lo ha (com)preso. In tal senso si dice che Dio è preso o compreso (raggiunto) dai beati, secondo il detto del Cantico dei Cantici: "l'ho afferrato, e non lo lascio". In tal senso vanno intese le citazioni dell'Apostolo. E intesa così, la comprensione è una delle tre doti dell'anima (beata), quella che corrisponde alla speranza, come la visione corrisponde alla fede e la fruizione alla carità. Tra noi infatti non tutto quello che si vede, già si tiene o si possiede, perché talora si vedono anche cose distanti, o che non sono in nostro potere. E neppure godiamo di tutte le cose che possediamo, o perché non ci dilettano, o perché non costituiscono il termine ultimo del nostro desiderio, in modo da saziarlo e da quietarlo. Ma i beati hanno queste tre cose in Dio; perché lo vedono: e vedendolo, lo tengono a sé presente, avendo sempre la possibilità di vederlo; tenendolo lo godono, quale ultimo fine che appaga il loro desiderio.

2. Dio si dice incomprensibile non perché qualche cosa di lui resti invisibile; ma perché non è visto tanto perfettamente quanto è visibile. Così, quando una proposizione rigorosamente dimostrabile si conosce per qualche ragione probabile, non è che qualche cosa di essa, o soggetto, o predicato o copula resti sconosciuta; ma tutta quanta non è conosciuta così perfettamente quanto è conoscibile. Perciò S. Agostino, definendo la comprensione, dice che "un tutto conoscitivamente si comprende quando lo si vede in maniera che niente di esso sfugga a colui che lo vede; o quando i suoi limiti possono essere abbracciati dallo sguardo", e allora si abbracciano con lo sguardo i limiti di una cosa quando nel modo di conoscerla si arriva all'estremo limite della sua conoscibilità.

 3. L'avverbio totalmente si riferisce all'oggetto conosciuto; non già nel senso che la totalità dell'oggetto non cada sotto la conoscenza, ma perché il modo dell'oggetto non è il modo di colui che conosce. Chi dunque vede Dio nella sua essenza, vede in lui che esiste infinitamente e che è infinitamente conoscibile. Ma questo modo infinito non gli compete in modo che lo conosca infinitamente: come uno può sapere per argomenti di probabilità che una proposizione è dimostrabile, sebbene lui non ne conosca la dimostrazione.

domenica 15 aprile 2012

Video Vangelo: II Pasqua B 2012

In cammino verso la Gloria

2^ Domenica di Pasqua
(Gv 20,19-31) 

Quella sera, mentre le porte erano chiuse, Gesù entrò… Come? Da dove? C’erano per caso finestre aperte? No! Non c’erano neanche quelle, perché per il corpo glorioso non esistono più porte e finestre chiuse, anzi, non esistono nemmeno più le porte e neanche i muri: Gesù entra, attraversandoli come niente fosse. Il suo corpo glorioso non è più tributario delle barriere invalicabili di muri e porte. Entra sovranamente libero, senza che niente glielo possa impedire, con le caratteristiche che avremo anche noi, nella vita gloriosa. Caratteristiche che san Tommaso d’Aquino descrive molto bene nella Somma Teologica e si riassumono in quattro: l’impassibilità, l’agilità, la sottigliezza e lo splendore. Grazie all’impassibilità, non soffriremo più; grazie all’agilità ci muoveremo alla velocità del pensiero; grazie alla sottigliezza non esisteranno più barriere …architettoniche e, grazie allo splendore, risplenderemo di una luce gloriosa.

• Quale pace?

Gesù entra dunque e dice: ”Pace a voi!” Lo dice ai discepoli sconvolti e spaventati, ma lo dice anche a noi! Chi non desidera la pace con tutto il cuore: pace nel mondo, nelle famiglie, nelle comunità, nei cuori! Ma questa pace è anzitutto una persona: dobbiamo avere Gesù vivo nel cuore per sentire la pace. Infatti il Signore ai discepoli riuniti nel cenacolo, non manda un messaggio che dice “vi mando la mia pace”, ma arriva lui in persona. E con la sua persona, arriva la pace.
Pace a noi, dunque! Quale pace? Pace dei pensieri, delle preoccupazioni, delle ansie, e dei vari mali che ci affliggono. Pace a voi: ossia guarigione delle ferite, dei ricordi del passato fatto a volte di peccati innominabili che la memoria vorrebbe dimenticare e di cui la coscienza non sopporta il peso. Come non avrà sopportato, la coscienza di Pietro, il peso del suo triplice rinnegamento. Eppure Gesù, che sicuramente non aveva dimenticato, offre a lui per primo, la sua pace.

• Ci siamo o non ci siamo?

Tommaso non c’era quel giorno e non crede. Non basta il ricordo a rendere viva una persona, ci vuole la presenza. Quante volte anche noi non ci siamo! Gesù è presente nel nostro cuore, ma noi chissà dove girovaghiamo, errabondi qua e là e non lo vediamo, non perché non ci sia lui, ma perché non ci siamo noi! Siamo altrove, chissà dove. Quando ritorneremo dal nostro vagabondare, Gesù dirà anche a noi: ”Metti qua il dito nelle mie piaghe e non essere più incredulo ma credente.” E Gesù ciò che dice, fa! “Per le sue piaghe siete stati guariti”. Ecco che le sue piaghe guariranno le nostre, purché nel nostro cuore non ci sia più l’incredulità. Perché le piaghe del risorto, “non grondano più sangue, ma irradiano luce” (A. Louf). “Bagliori di folgore escono dalle sue mani”, abbiamo letto nel cantico del venerdì santo.
Ma oggi è anche la festa della Divina Misericordia, quella che procede appunto dalle piaghe aperte di Gesù, e si riversa su di noi come un fiume che lava ogni colpa, ogni dolore e ogni pena.

• Vivissimi Auguri…

Faccio a tutti voi,carissimi, i miei migliori auguri per questo tempo pasquale con questa bellissima preghiera del Papa, scritta quando era ancora cardinal Ratzinger.
“O Signore, fa’ brillare il mistero della tua gioia pasquale come aurora del mattino, nei nostri giorni.
Concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al sabato santo della storia.
Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo, possiamo sempre
con animo lieto, trovarci in cammino verso la tua gloria futura”.

Wilma Chasseur


giovedì 12 aprile 2012

Benedetto XVI: "Lasciamoci incontrare da Gesù risorto!"

Udienza Generale di Papa Benedetto XVI - 11 Aprile 2012

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 aprile 2012


La Pasqua del Signore

Cari fratelli e sorelle,

dopo le solenni celebrazioni della Pasqua, il nostro incontro di oggi è pervaso di gioia spirituale, anche se il cielo è grigio, nel cuore portiamo la gioia della Pasqua, la certezza della Risurrezione di Cristo che ha definitivamente trionfato sulla morte. Anzitutto rinnovo a ciascuno di voi un cordiale augurio pasquale: in tutte le case e in tutti i cuori risuoni l’annuncio gioioso della Risurrezione di Cristo, così da far rinascere la speranza.

In questa catechesi vorrei mostrare la trasformazione che la Pasqua di Gesù ha provocato nei suoi discepoli. Partiamo dalla sera del giorno della Risurrezione. I discepoli sono chiusi in casa per paura dei giudei (cfr Gv 20,19). Il timore stringe il cuore e impedisce di andare incontro agli altri, incontro alla vita. Il Maestro non c'è più. Il ricordo della sua Passione alimenta l’incertezza. Ma Gesù ha a cuore i suoi e sta per compiere la promessa che aveva fatto durante l’Ultima Cena: «Non vi lascerò orfani, verrò da voi» (Gv 14,18) e questo dice anche a noi, anche in tempi grigi: “non vi lascerò orfani”. Questa situazione di angoscia dei discepoli cambia radicalmente con l’arrivo di Gesù. Egli entra a porte chiuse, sta in mezzo a loro e dona la pace che rassicura: «Pace a voi» (Gv 20,19b). È un saluto comune che tuttavia ora acquista un significato nuovo, perché opera un cambiamento interiore; è il saluto pasquale, che fa superare ogni paura ai discepoli. La pace che Gesù porta è il dono della salvezza che Egli aveva promesso durante i suoi discorsi di addio: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). In questo giorno di Risurrezione, Egli la dona in pienezza ed essa diventa per la comunità fonte di gioia, certezza di vittoria, sicurezza nell’appoggiarsi a Dio. “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”(Gv 14,1) dice anche a noi.

Dopo questo saluto, Gesù mostra ai discepoli le ferite delle mani e del fianco (cfr Gv 20,20), segni di ciò che è stato e che mai più si cancellerà: la sua umanità gloriosa resta «ferita». Questo gesto ha lo scopo di confermare la nuova realtà della Risurrezione: il Cristo che ora sta tra i suoi è una persona reale, lo stesso Gesù che tre giorni prima fu inchiodato alla croce. Ed è così che, nella luce sfolgorante della Pasqua, nell’incontro con il Risorto, i discepoli colgono il senso salvifico della sua passione e morte. Allora, dalla tristezza e dalla paura passano alla gioia piena. La tristezza e le ferite stesse diventano fonte di gioia. La gioia che nasce nel loro cuore deriva dal «vedere il Signore» (Gv 20, 20). Egli dice loro di nuovo: «Pace a voi» (v. 21). È evidente ormai che non è solo un saluto. È un dono, il dono che il Risorto vuole fare ai suoi amici, ed è al tempo stesso una consegna: questa pace, acquistata da Cristo col suo sangue, è per loro ma anche per tutti, e i discepoli dovranno portarla in tutto il mondo. Infatti, Egli aggiunge: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (ibid.). Gesù risorto è ritornato tra i discepoli per inviarli. Lui ha completato la sua opera nel mondo, ora tocca a loro seminare nei cuori la fede perché il Padre, conosciuto e amato, raccolga tutti i suoi figli dalla dispersione. Ma Gesù sa che nei suoi c’è ancora tanto timore, sempre. Perciò compie il gesto di soffiare su di loro e li rigenera nel suo Spirito (cfr Gv 20,22); questo gesto è il segno della nuova creazione. Con il dono dello Spirito Santo che proviene dal Cristo risorto ha inizio infatti un mondo nuovo. Con l’invio in missione dei discepoli, si inaugura il cammino nel mondo del popolo della nuova alleanza, popolo che crede in Lui e nella sua opera di salvezza, popolo che testimonia la verità della risurrezione. Questa novità di una vita che non muore, portata dalla Pasqua, va diffusa ovunque, perché le spine del peccato che feriscono il cuore dell’uomo, lascino il posto ai germogli della Grazia, della presenza di Dio e del suo amore che vincono il peccato e la morte.

Cari amici, anche oggi il Risorto entra nelle nostre case e nei nostri cuori, nonostante a volte le porte siano chiuse. Entra donando gioia e pace, vita e speranza, doni di cui abbiamo bisogno per la nostra rinascita umana e spirituale. Solo Lui può ribaltare quelle pietre sepolcrali che l’uomo spesso pone sui propri sentimenti, sulle proprie relazioni, sui propri comportamenti; pietre che sanciscono la morte: divisioni, inimicizie, rancori, invidie, diffidenze, indifferenze. Solo Lui, il Vivente, può dare senso all’esistenza e far riprendere il cammino a chi è stanco e triste, sfiduciato e privo di speranza. È quanto hanno sperimentato i due discepoli che il giorno di Pasqua erano in cammino da Gerusalemme verso Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Essi parlano di Gesù, ma il loro «volto triste» (cfr v. 17) esprime le speranze deluse, l’incertezza e la malinconia. Avevano lasciato il loro paese per seguire Gesù con i suoi amici, e avevano scoperto una nuova realtà, in cui il perdono e l’amore non erano più solo parole, ma toccavano concretamente l’esistenza. Gesù di Nazaret aveva reso tutto nuovo, aveva trasformato la loro vita. Ma ora Lui era morto e tutto sembrava finito.

All’improvviso, però, non ci sono più due, ma tre persone che camminano. Gesù si accosta ai due discepoli e cammina con loro, ma essi sono incapaci di riconoscerlo. Certo, hanno sentito le voci sulla sua risurrezione, infatti gli riferiscono: «Alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo» (vv. 22-23). Eppure tutto questo non era stato sufficiente a convincerli, poiché «lui non l’hanno visto» (v. 24). Allora Gesù, con pazienza, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Il Risorto spiega ai discepoli la Sacra Scrittura, offrendo la chiave di lettura fondamentale di essa, cioè Lui stesso e il suo Mistero pasquale: a Lui le Scritture rendono testimonianza (cfr Gv 5,39-47). Il senso di tutto, della Legge, dei Profeti e dei Salmi, improvvisamente si apre e diventa chiaro davanti ai loro occhi. Gesù aveva aperto loro la mente all’intelligenza delle Scritture (cfr Lc 24,45).

Intanto, erano giunti al villaggio, probabilmente alla casa di uno dei due. Il forestiero viandante fa «come se dovesse andare più lontano» (v. 28), ma poi si ferma poiché gli chiedono con ardore: «Resta con noi» (v. 29). Anche noi sempre di nuovo dobbiamo dire al Signore con ardore: “Resta con noi”. «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (v. 30). Il richiamo ai gesti compiuti da Gesù nell’Ultima Cena è evidente. «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (v. 31). La presenza di Gesù, dapprima con le parole, poi con il gesto dello spezzare il pane, rende possibile ai discepoli il riconoscerLo, ed essi possono sentire in modo nuovo quanto avevano già provato camminando con Lui: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (v. 32). Questo episodio ci indica due «luoghi» privilegiati dove possiamo incontrare il Risorto che trasforma la nostra vita: l’ascolto della Parola, in comunione con Cristo, e lo spezzare il Pane; due «luoghi» profondamente uniti tra loro poiché «Parola ed Eucaristia si appartengono così intimamente da non poter essere comprese l’una senza l’altra: la Parola di Dio si fa carne sacramentale nell’evento eucaristico» (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 54-55).

Dopo questo incontro, i due discepoli «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”». (vv. 33-34). A Gerusalemme essi ascoltano la notizia della risurrezione di Gesù e, a loro volta, raccontano la propria esperienza, infiammata d’amore per il Risorto, che ha loro aperto il cuore ad una gioia incontenibile. Sono stati - come dice san Pietro - «rigenerati a una speranza viva dalla risurrezione di Cristo dai morti» (cfr 1Pt l,3). Rinasce infatti in loro l’entusiasmo della fede, l’amore per la comunità, il bisogno di comunicare la buona notizia. Il Maestro è risorto e con Lui tutta la vita risorge; testimoniare questo evento diventa per essi una insopprimibile necessità.

Cari amici, il Tempo pasquale sia per tutti noi l’occasione propizia per riscoprire con gioia ed entusiasmo le sorgenti della fede, la presenza del Risorto tra di noi. Si tratta di compiere lo stesso itinerario che Gesù fece fare ai due discepoli di Emmaus, attraverso la riscoperta della Parola di Dio e dell’Eucaristia, cioè andare col Signore e lasciarsi aprire gli occhi al vero senso della Scrittura e alla sua presenza nello spezzare il pane. Il culmine di questo cammino, allora come oggi, è la Comunione eucaristica: nella Comunione Gesù ci nutre con il suo Corpo e il suo Sangue, per essere presente nella nostra vita, per renderci nuovi, animati dalla potenza dello Spirito Santo.

In conclusione, l’esperienza dei discepoli ci invita a riflettere sul senso della Pasqua per noi. Lasciamoci incontrare da Gesù risorto! Lui, vivo e vero, è sempre presente in mezzo a noi; cammina con noi per guidare la nostra vita, per aprire i nostri occhi. Abbiamo fiducia nel Risorto che ha il potere di dare la vita, di farci rinascere come figli di Dio, capaci di credere e di amare. La fede in Lui trasforma la nostra vita: la libera dalla paura, le dà ferma speranza, la rende animata da ciò che dona pieno senso all’esistenza, l’amore di Dio. Grazie.

mercoledì 11 aprile 2012

La Summa Teologica - Sessantesima parte

Torna l'appuntamento di approfondimento della Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio, e continuiamo a soffermarci sulla nostra conoscenza di Dio:

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

La nostra conoscenza di Dio > Se tra coloro che vedono l'essenza di Dio uno veda più perfettamente di un altro

Prima parte
Questione 12
Articolo 6



SEMBRA che tra coloro che vedono l'essenza di Dio uno non veda più perfettamente di un altro. Infatti:
1. Sta scritto: "vedremo Dio così come egli è". Ora, Dio ha un solo modo di essere e quindi sarà visto da tutti alla stessa maniera. Perciò non più o meno perfettamente.

2. S. Agostino dice che uno non può intellettualmente intendere una cosa più di un altro. Ora, tutti coloro che vedono Dio per essenza, intendono intellettualmente l'essenza divina perché si è dimostrato che Dio si vede con l'intelligenza e non col senso. Dunque tra quelli che vedono l'essenza divina uno non vede più chiaramente dell'altro.

3. Che una cosa sia vista più perfettamente da uno che da un altro può accadere per due versi: o per parte dell'oggetto visibile, o per parte della capacità conoscitiva di chi vede. (Può accadere) per parte dell'oggetto se esso è più perfettamente in colui che vede, in quanto cioè vi imprime una immagine più perfetta. Ma qui non è il caso: perché Dio è presente all'intelligenza che vede la sua essenza non con una immagine, ma con la sua stessa essenza. Resta, dunque, che se uno vede più perfettamente di un altro, si deve a differenze di capacità intellettiva. E così la conseguenza sarebbe che chi possiede una potenza intellettiva naturalmente più elevata, vedrebbe (Dio) più chiaramente. Il che è falso essendo promessa agli uomini, riguardo alla beatitudine, l'uguaglianza con gli angeli.

IN CONTRARlO: La vita eterna consiste nella visione di Dio, secondo l'espressione evangelica: "la vita eterna consiste nel conoscere te solo vero Dio". Dunque, se tutti vedono ugualmente l'essenza di Dio, nella vita eterna tutti saranno uguali. Mentre invece l'Apostolo asserisce tutto il contrario: "un astro è differente da un altro nello splendore".

RISPONDO: Tra coloro che vedranno Dio per essenza, uno lo vedrà più perfettamente dell'altro. Ciò però non sarà a motivo di una immagine di Dio più perfetta in uno che nell'altro, perché tale visione non si compirà mediante una qualche immagine, come si è già detto. Ma avverrà perché l'intelletto dell'uno avrà una capacità o potenza maggiore dell'altro a vedere Dio. La facoltà poi di vedere Dio non appartiene all'intelletto creato in forza della sua natura, bensì per il lume di gloria, il quale, come abbiamo detto sopra, pone l'intelletto in uno stato di deiformità. Cosicché l'intelletto, il quale partecipi maggiormente di questo lume di gloria, vedrà più perfettamente Dio. Parteciperà poi più largamente di questo lume di gloria, colui che ha un grado superiore di carità, perché dove si ha maggiore carità, ivi si trova maggiore desiderio; e il desiderio rende, in certo modo, colui che desidera più atto e più pronto a ricevere l'oggetto desiderato. E perciò colui che avrà maggiore carità, vedrà più perfettamente Dio e sarà più felice.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quando si dice: "vedremo Dio come egli è", quell'avverbio come determina il modo della visione da parte dell'oggetto visto; cosicché questo è il senso: "vedremo che egli è così come è", perché noi vedremo che il suo stesso essere è la sua essenza. Ma non determina il modo della visione da parte del soggetto che vede, nel senso che il nostro modo di vedere sarà così perfetto, come in Dio è perfetto il modo di essere.

2. E con ciò resta sciolta anche la seconda difficoltà. Quando infatti si dice che uno non intende meglio di un altro una medesima cosa, siamo nella verità se ci si riferisce al modo di essere della cosa intesa; perché chiunque apprende una cosa diversamente da quello che è, non la conosce secondo verità. Non però se ci si riferisce al modo dell'intendere, perché l'intendere dell'uno è più perfetto dell'intendere dell'altro.

3. La diversità del vedere non dipenderà dall'oggetto, perché a tutti sarà offerto il medesimo oggetto, cioè l'essenza di Dio: e neppure dalla diversa partecipazione dell'oggetto a motivo di differenti rappresentazioni, ma dalla diversa capacità non già naturale bensì (soprannaturale o) gloriosa dell'intelligenza, come si è detto.

domenica 8 aprile 2012

Video Vangelo Pasqua

E' giunta l'ora della Luce

PASQUA DI RISURREZIONE
(MC 16,1-8)

TUTTO E’ CONSUMATO! Anche la morte! Le braccia di Gesù inchiodate sulla Croce,
rimarranno per sempre aperte per accogliere tutti i disperati, i perduti, i derelitti, i traditori,
i fedeli e gli infedeli.
Il Suo Cuore trafitto dalla lancia, non si chiuderà mai più, su nessuna miseria, angoscia e
ribellione. Nessuna sofferenza gli rimarrà estranea: l’accoglierà a cuore aperto da chiunque
provenga.
Tutto è consumato: le ore di angoscia al giardino degli ulivi, il sudore di sangue, le lacrime su
Gerusalemme, i rinnegamenti, gli scherni, le derisioni, l’amaro calice e SOPRATTUTTO l’ora
delle tenebre: è ormai giunta, definitivamente, l’ora della Luce.
Gesù splendente e trionfante, ha le piaghe gloriose che brillano come diamanti e gli
conferiscono una magnificenza che s’irradierà per tutta l’eternità.
Gesù splendore della gloria del Padre, entra veramente in possesso di quella gloria che aveva
presso il Padre prima che il mondo fosse .
Gesù, re e Signore dell’universo, è finalmente riscattato da tutte le umiliazioni e oltraggi subiti
nella morte di Croce.

Gesù è circondato da miriadi e miriadi di angeli in festa, giubilanti e osannanti, e dai santi
passati anche loro attraverso la grande tribolazione al seguito dell’Agnello immolato.
Gesù è andato a prepararci un posto. Il suo sepolcro vuoto è lì a testimoniare che nessuna
corruzione ha mai potuto minimamente sfiorarlo: il suo corpo glorioso ne è il garante.
Ma questo corpo glorioso e risorto, ci rivela anche il destino del nostro corpo che alla fine dei
tempi sarà abitato e trasfigurato dalla gloria.

E il suo sepolcro vuoto ci rivela che neanche noi saremo destinati a rimanere per sempre nel
sepolcro, ma un misterioso giorno sorgeremo dalle nostre ceneri per rivestire un corpo di luce.
Gesù risorto ci ricorda infine che dobbiamo rivolgere i nostri sguardi agli “anni eterni” che ci
aspettano e che qui siamo esuli viandanti verso un altrove che è la Patria Celeste .
Ma questo destino abbiamo il tremendo potere di deciderlo ora, e anche di fallirlo se non
riponiamo tutta la nostra fiducia in Lui affinché ci impedisca di usare male la nostra libertà.
Possiamo fallire tutto nella vita: non avremo fallito niente se avremo vinto la battaglia per la
vita eterna. L’infinito ci aspetta al traguardo.

Wilma Chasseur

sabato 7 aprile 2012

Via Crucis al Colosseo: messaggio di Papa Benedetto XVI

Discorso di Papa Benedetto XVI in occasione della Via Crucis

VIA CRUCIS AL COLOSSEO

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Palatino
Venerdì Santo, 6 aprile 2012


Cari fratelli e sorelle,

abbiamo rievocato, nella meditazione, nella preghiera e nel canto, il cammino di Gesù sulla via della Croce: una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo, ha aperto il passaggio verso i «cieli nuovi e la nuova terra» (cfr Ap 21,1). Specialmente in questo giorno del Venerdì Santo, la Chiesa celebra, con intima adesione spirituale, la memoria della morte in croce del Figlio di Dio, e nella sua Croce vede l’albero della vita, fecondo di una nuova speranza.

L’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica. Il cammino della Via Crucis, che abbiamo spiritualmente ripercorso questa sera, è un invito per tutti noi, e specialmente per le famiglie, a contemplare Cristo crocifisso per avere la forza di andare oltre le difficoltà. La Croce di Gesù è il segno supremo dell’amore di Dio per ogni uomo, è la risposta sovrabbondante al bisogno che ha ogni persona di essere amata. Quando siamo nella prova, quando le nostre famiglie si trovano ad affrontare il dolore, la tribolazione, guardiamo alla Croce di Cristo: lì troviamo il coraggio per continuare a camminare; lì possiamo ripetere, con ferma speranza, le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,35.37).

Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia. Il mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo incoraggia a camminare con speranza: la stagione del dolore e della prova, se vissuta con Cristo, con fede in Lui, racchiude già la luce della risurrezione, la vita nuova del mondo risorto, la pasqua di ogni uomo che crede alla sua Parola.

In quell’Uomo crocifisso, che è il Figlio di Dio, anche la stessa morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Affidiamoci alla Madre di Cristo. Lei che ha accompagnato il suo Figlio sulla via dolorosa, Lei che stava sotto la Croce nell’ora della sua morte, Lei che ha incoraggiato la Chiesa al suo nascere perché viva alla presenza del Signore, conduca i nostri cuori, i cuori di tutte le famiglie attraverso il vasto mysterium passionis verso il mysterium paschale, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte. Amen

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venerdì 6 aprile 2012

Venerdì santo

Le sette Parole di Gesù sulla Croce

Oggi, Venerdì Santo, la nostra piccola Vigna entra in silenzio e vi lascia con una piccola riflessione in ricordo della sua umile operaia Patrizia che resterà sempre dentro di noi:

1- "Ho sete": 

La sete di Gesù è sete di anime, di AMORE. Sta morendo in Croce per noi, per tutti, ma quanti Lo amano, Quanti capiscono il “Suo Troppo grande AMORE”?

2- "Oggi sarai con me in Paradiso” 

Gesù, quante volte Ti ho chiesto quando mi dirai questa frase?

Quando si è pregustata la caparra dello Spirito, non si vede l’ora di raggiungere l’intero capitale!

 Però :” non la mia ,ma la Tua Volontà si compia”!

3- "Madre ecco Tuo Figlio”

  Madre , TUO Figlio ci ha affidati a Te; Tu portaci a LUI

4-” Figlio ecco Tua Madre” 

Questo lo dicesti a Giovanni, ma lo dici anche a noi, aiutaci ad affidarci sempre a tua Madre, in qualunque circostanza, lieta o triste; aiutaci ad affidare a Lei anche tutte le altre persone!

5- “Mio Dio mio Dio perchè mi hai abbandonato”

Non sono mai stata convinta che il Padre ti abbia abbandonato.

Penso invece che Tu abbia recitato il salmo che inizia con queste parole, per far capire ai tuoi

fratelli Ebrei cosa stavano compiendo! L’Uomo del salmo sei TU.

Viene descritta anche la Chiesa il popolo nuovo!

 Fratelli Ebrei è tempo che anche voi Lo riconosciate, lo amiate, lo adoriate, AMEN

6- "Padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno"

Dopo tutto quello che Ti hanno fatto, dopo le sofferenze della Via Crucis,

i tradimenti,ecc...dici che non sanno quello che fanno! Com’è possibile?

O forse è proprio perchè non sapevano chi eri e quello che hai fatto e stavi

facendo per tutti noi, compresi i tuoi carnefici, che hanno potuto fare quello che

 hanno fatto!

7- "Tutto è compiuto, nelle Tue mani consegno il mio Spirito"

Il Padre Ti riaccoglie con tutto l’Amore; ritorni alla Sua destra perchè
se non fossi Risorto, vana sarebbe la nostra fede; come bene dice San Paolo! AMEN

giovedì 5 aprile 2012

Benedetto XVI parla del viaggio in Messico e Cuba

Udienza Generale di Papa Benedetto XVI - 4 Aprile 2012

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 4 aprile 2012



Viaggio Apostolico in Messico e a Cuba
Il Triduo Pasquale


Cari fratelli e sorelle,

sono ancora vive in me le emozioni suscitate dal recente Viaggio apostolico in Messico e a Cuba, sul quale vorrei soffermarmi quest’oggi. Sorge spontaneo dal mio animo il rendimento di grazie al Signore: nella sua provvidenza, Egli ha voluto che mi recassi per la prima volta come Successore di Pietro in questi due Paesi, che conservano indelebile memoria delle visite compiute dal Beato Giovanni Paolo II. Il bicentenario dell’Indipendenza del Messico e di altri Paesi Latinoamericani, il ventennio dei rapporti diplomatici tra Messico e Santa Sede e il quarto centenario del rinvenimento dell’immagine della Vergine della Carità del Cobre nella Repubblica di Cuba sono state le occasioni del mio pellegrinaggio. Con esso ho voluto abbracciare idealmente l’intero Continente, invitando tutti a vivere insieme nella speranza e nell’impegno concreto di camminare uniti verso un futuro migliore. Sono grato ai Signori Presidenti del Messico e di Cuba, che con deferenza e cortesia mi hanno dato il loro benvenuto, come pure alle altre Autorità. Ringrazio di cuore gli Arcivescovi di León, di Santiago de Cuba e di La Habana e gli altri venerati Fratelli nell’episcopato, che mi hanno accolto con grande affetto, come pure ai loro collaboratori e a quanti si sono generosamente prodigati per questa mia visita pastorale. Sono stati giorni indimenticabili di gioia e di speranza, che rimarranno impressi nel mio cuore!

La prima tappa è stata León, nello Stato del Guanajuato, centro geografico del Messico. Qui una grande folla festante mi ha riservato una straordinaria e vivace accoglienza, come segno dell’abbraccio caloroso di un intero popolo. Fin dalla cerimonia di benvenuto ho potuto cogliere la fede e il calore dei sacerdoti, delle persone consacrate e dei fedeli laici. Alla presenza degli esponenti delle Istituzioni, di numerosi Vescovi e di rappresentanze della società, ho richiamato la necessità del riconoscimento e della tutela dei diritti fondamentali della persona umana, tra i quali spicca la libertà religiosa, assicurando la mia vicinanza a quanti soffrono a causa di piaghe sociali, di antichi e nuovi conflitti, della corruzione e della violenza. Ripenso con profonda gratitudine alla fila interminabile di gente lungo le strade, che mi ha accompagnato con entusiasmo. In quelle mani protese in segno di saluto e di affetto, in quei volti lieti, in quelle grida di gioia ho colto la tenace speranza dei cristiani messicani, speranza rimasta accesa nei cuori nonostante i momenti difficili delle violenze, che non ho mancato di deplorare e alle cui vittime ho rivolto un accorato pensiero, potendone confortare personalmente alcune. Nella stessa giornata ho incontrato tantissimi bambini e adolescenti, che sono il futuro della Nazione e della Chiesa. La loro inesauribile allegria, espressa con fragorosi canti e musiche, come pure i loro sguardi e i loro gesti, esprimevano il forte desiderio di tutti i ragazzi del Messico, dell’America Latina e dei Caraibi di poter vivere in pace, in serenità e armonia, in una società più giusta e riconciliata.

I discepoli del Signore devono far crescere la gioia di essere cristiani, la gioia di appartenere alla sua Chiesa. Da questa gioia nascono anche le energie per servire Cristo nelle situazioni difficili e di sofferenza. Ho ricordato questa verità all'immensa folla convenuta per la celebrazione eucaristica domenicale nel Parco del Bicentenario di León. Ho esortato tutti a confidare nella bontà di Dio onnipotente che può cambiare dal di dentro, dal cuore, le situazioni insopportabili e oscure. I messicani hanno risposto con la loro fede ardente e, nella loro adesione convinta al Vangelo, ho riconosciuto ancora una volta segni consolanti di speranza per il Continente. L’ultimo evento della mia Visita in Messico è stato, sempre a León, la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Nostra Signora della Luce, con i Vescovi messicani e i rappresentanti degli Episcopati d’America. Ho manifestato la mia vicinanza al loro impegno di fronte alle varie sfide e difficoltà, e la mia gratitudine per quanti seminano il Vangelo in situazioni complesse e spesso non prive di limitazioni. Li ho incoraggiati ad essere Pastori zelanti e guide sicure, suscitando ovunque comunione sincera e adesione cordiale all’insegnamento della Chiesa. Ho lasciato quindi l’amata terra messicana dove ho sperimentato una devozione e un affetto speciali al Vicario di Cristo. Prima di partire, ho spronato il popolo messicano a rimanere fedele al Signore e alla sua Chiesa, ben ancorato alle proprie radici cristiane.

Il giorno seguente è iniziata la seconda parte del mio Viaggio apostolico con l’arrivo a Cuba, dove mi sono recato anzitutto per sostenere la missione della Chiesa cattolica, impegnata ad annunciare con gioia il Vangelo, nonostante la povertà di mezzi e le difficoltà ancora da superare perché la religione possa svolgere il proprio servizio spirituale e formativo nell’ambito pubblico della società. Questo ho voluto sottolineare giungendo a Santiago de Cuba, seconda città dell’Isola, non mancando di evidenziare le buone relazioni esistenti tra Stato e Santa Sede, finalizzate al servizio della presenza viva e costruttiva della Chiesa locale. Ho assicurato altresì che il Papa porta nel cuore le preoccupazioni e le aspirazioni di tutti i cubani, specialmente di quelli che soffrono per la limitazione della libertà.

La prima Santa Messa che ho avuto la gioia di celebrare in terra cubana si collocava nel contesto del IV centenario della scoperta dell’immagine della Vergine della Carità di El Cobre, patrona di Cuba. Si è trattato di un momento di forte intensità spirituale, con la partecipazione attenta e orante di migliaia di persone, segno di una Chiesa che viene da situazioni non facili, ma con una testimonianza vivace di carità e di presenza attiva nella vita della gente. Ai cattolici cubani che, insieme all’intera popolazione, sperano in un futuro sempre migliore, ho rivolto l’invito a dare nuovo vigore alla loro fede e a contribuire, con il coraggio del perdono e della comprensione, alla costruzione di una società aperta e rinnovata, dove vi sia sempre più spazio per Dio, perché quando Dio è estromesso, il mondo si trasforma in un luogo inospitale per l’uomo. Prima di lasciare Santiago de Cuba mi sono recato al Santuario di Nostra Signora della Carità in El Cobre, tanto cara al popolo cubano. Il pellegrinaggio dell’immagine della Madonna della Carità nelle famiglie dell’Isola ha suscitato grande entusiasmo spirituale, rappresentando un significativo evento di nuova evangelizzazione e un’occasione di riscoperta della fede. Alla Vergine Santa ho raccomandato soprattutto le persone che soffrono e i giovani cubani.

La seconda tappa cubana è stata L’Avana, capitale dell’Isola. I giovani, in particolare, sono stati i principali protagonisti dell’esuberante accoglienza nel percorso verso la Nunziatura, dove ho avuto l’opportunità di intrattenermi con i Vescovi del Paese per parlare delle sfide che la Chiesa cubana è chiamata ad affrontare, nella consapevolezza che la gente guarda ad essa con crescente fiducia. Il giorno seguente ho presieduto la Santa Messa nella Piazza principale de L’Avana, gremita di gente. A tutti ho ricordato che Cuba e il mondo hanno bisogno di cambiamenti, ma questi ci saranno solo se ognuno si apre alla verità integrale sull’uomo, presupposto imprescindibile per raggiungere la libertà, e decide di seminare attorno a sé riconciliazione e fraternità, fondando la propria vita su Gesù Cristo: Egli solo può disperdere le tenebre dell’errore, aiutandoci a sconfiggere il male e tutto ciò che ci opprime. Ho voluto altresì ribadire che la Chiesa non chiede privilegi, ma chiede di poter proclamare e celebrare anche pubblicamente la fede, portando il messaggio di speranza e di pace del Vangelo in ogni ambiente della società. Nell’apprezzare i passi finora compiuti in tal senso dalle Autorità cubane, ho sottolineato che è necessario proseguire in questo cammino di sempre più piena libertà religiosa.

Al momento di lasciare Cuba, decine di migliaia di cubani sono venute a salutarmi lungo la strada, nonostante la forte pioggia. Nella cerimonia di congedo ho ricordato che nell’ora presente le diverse componenti della società cubana sono chiamate ad uno sforzo di sincera collaborazione e di dialogo paziente per il bene della patria. In questa prospettiva, la mia presenza nell’Isola, come testimone di Gesù Cristo, ha voluto essere un incoraggiamento ad aprire le porte del cuore a Lui, che è fonte di speranza e di forza per far crescere il bene. Per questo ho salutato i cubani esortandoli a ravvivare la fede dei loro padri ed edificare un avvenire sempre migliore.

Questo Viaggio in Messico e a Cuba, grazie a Dio, ha avuto la desiderata riuscita pastorale. Possano il popolo messicano e quello cubano ricavarne frutti abbondanti per costruire nella comunione ecclesiale e con coraggio evangelico un futuro di pace e di fraternità.

Cari amici, domani pomeriggio, con la Santa Messa in Coena Domini, entreremo nel Triduo Pasquale, vertice di tutto l’Anno liturgico, per celebrare il Mistero centrale della fede: la passione, morte e risurrezione di Cristo. Nel Vangelo di san Giovanni, questo momento culminante della missione di Gesù viene chiamato la sua «ora», che si apre con l’Ultima Cena. L’Evangelista lo introduce così: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Tutta la vita di Gesù è orientata a questa ora, caratterizzata da due aspetti che si illuminano reciprocamente: è l’ora del «passaggio» (metabasis) ed è l’ora dell’«amore (agape) fino alla fine». In effetti, è proprio l’amore divino, lo Spirito di cui Gesù è ricolmo, che fa «passare» Gesù stesso attraverso l’abisso del male e della morte e lo fa uscire nello «spazio» nuovo della risurrezione. E’ l’agape, l'amore, che opera questa trasformazione, così che Gesù oltre-passa i limiti della condizione umana segnata dal peccato e supera la barriera che tiene l’uomo prigioniero, separato da Dio e dalla vita eterna. Partecipando con fede alle celebrazioni liturgiche del Triduo Pasquale, siamo invitati a vivere questa trasformazione attuata dall’agape. Ognuno di noi è stato amato da Gesù «fino alla fine», cioè fino al dono totale di Sé sulla croce, quando gridò: «E’ compiuto!» (Gv 19,30). Lasciamoci raggiungere da questo amore, lasciamoci trasformare, perché veramente si realizzi in noi la risurrezione. Vi invito, quindi, a vivere con intensità il Triduo Pasquale e auguro a tutti una Santa Pasqua! Grazie.

APPELLO

Oggi ricorre la Giornata internazionale per la sensibilizzazione sul problema delle mine antipersona, alle cui vittime, insieme alle loro famiglie, esprimo la mia vicinanza. Incoraggio tutti coloro che si impegnano per liberare l’umanità da questi terribili e subdoli ordigni, i quali, come disse il Beato Giovanni Paolo II in occasione dell’entrata in vigore della Convenzione per il loro bando, impediscono agli uomini di «camminare assieme sui sentieri della vita senza temere le insidie di distruzione e di morte» (Angelus, 28 febbraio 1999).

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto gli universitari, provenienti da diversi Paesi, che partecipano al congresso internazionale promosso dalla Prelatura dell’Opus Dei. Cari amici, siete venuti a Roma in occasione della Settimana Santa per una esperienza di fede, di amicizia e di arricchimento spirituale. Vi invito a dedicare questi giorni all’approfondimento della conoscenza di Gesù, rispondendo alla chiamata d’amore che Egli rivolge a ciascuno. A tale proposito mi piace ricordare quanto scriveva San Josemaría Escrivá: «Tutto quello che si fa per amore acquista bellezza e grandezza».

Saluto, inoltre, i Religiosi dell’Ordine dei Ministri degli Infermi e il gruppo “Monfortiana” di Verona. Tutti ringrazio per la loro visita, augurando a ciascuno che questi giorni della Settimana Santa siano occasione propizia per rafforzare la fede e l'adesione al Vangelo.

Rivolgo infine il mio cordiale pensiero ai giovani, agli ammalati ed agli sposi novelli. La contemplazione della passione, morte e risurrezione di Gesù, cari giovani, vi renda sempre più saldi nella testimonianza cristiana. E voi, cari ammalati, traete dalla Croce di Cristo il sostegno quotidiano per superare i momenti di prova e di sconforto. A voi, cari sposi novelli, venga dal mistero pasquale, che in questi giorni contempliamo, un incoraggiamento a fare della vostra famiglia un luogo di amore fedele e fecondo.

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lunedì 2 aprile 2012

Benedetto XVI ai giovani: seguite Cristo!

Omelia Papa Benedetto XVI - Domenica delle Palme

CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME
E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro
XXVII Giornata Mondiale della Gioventù
 Domenica, 1° aprile 2012


Cari fratelli e sorelle!

La Domenica delle Palme è il grande portale che ci introduce nella Settimana Santa, la settimana nella quale il Signore Gesù si avvia verso il culmine della sua vicenda terrena. Egli sale a Gerusalemme per portare a compimento le Scritture e per essere appeso sul legno della croce, il trono da cui regnerà per sempre, attirando a sé l’umanità di ogni tempo e offrendo a tutti il dono della redenzione. Sappiamo dai Vangeli che Gesù si era incamminato verso Gerusalemme insieme ai Dodici, e che a poco a poco si era associata a loro una schiera crescente di pellegrini. San Marco ci racconta che già alla partenza da Gerico c’era una «grande folla» che seguiva Gesù (cfr 10,46).

In quest’ultimo tratto del percorso si verifica un particolare evento, che aumenta l’attesa di ciò che sta per accadere e fa sì che l’attenzione si concentri ancora di più su Gesù. Lungo la strada, all’uscita da Gerico, sta seduto a mendicare un uomo cieco, di nome Bartimeo. Appena egli sente dire che sta arrivando Gesù di Nazaret, incomincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47). Si cerca di farlo tacere, ma inutilmente; finché Gesù lo fa chiamare e lo invita ad avvicinarsi. «Che cosa vuoi che io faccia per te?», gli chiede. E quegli: «Rabbunì, che io veda di nuovo!” (v. 51). Gesù risponde: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Bartimeo riacquistò la vista e si mise a seguire Gesù lungo la strada (cfr v. 52). Ed ecco che, dopo quel segno prodigioso, accompagnato da quella invocazione «Figlio di Davide», un fremito di speranza messianico attraversa la folla facendo sorgere in molti una domanda: quel Gesù, che camminava davanti a loro verso Gerusalemme, era forse il Messia, il nuovo Davide? E con il suo ingresso ormai imminente nella città santa, era forse giunto il tempo in cui Dio avrebbe finalmente restaurato il regno davidico?

Anche la preparazione dell’ingresso, che Gesù fa insieme ai suoi discepoli, contribuisce ad aumentare questa speranza. Come abbiamo ascoltato nel Vangelo odierno (cfr Mc 11,1-10), Gesù arriva a Gerusalemme da Betfage e dal Monte degli ulivi, cioè dalla strada su cui avrebbe dovuto venire il Messia. Da lì, Egli manda avanti due discepoli, comandando loro di portargli un puledro di asino, che avrebbero trovato lungo la via. Essi trovano effettivamente l’asinello, lo slegano e lo conducono a Gesù. A questo punto, gli animi dei discepoli e anche degli altri pellegrini sono presi dall’entusiasmo: prendono i loro mantelli e li mettono sul puledro; altri li stendono sulla strada davanti a Gesù, che avanza in groppa all’asino. Poi tagliano rami dagli alberi e cominciano a gridare parole del Salmo 118, antiche parole di benedizione dei pellegrini che diventano, in quel contesto, una proclamazione messianica: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!» (vv. 9-10). Questa acclamazione festosa, trasmessa da tutti e quattro gli Evangelisti, è un grido di benedizione, un inno di esultanza: esprime l’unanime convinzione che, in Gesù, Dio ha visitato il suo popolo e che il Messia desiderato finalmente è giunto. E tutti sono lì, con la crescente attesa per l’opera che il Cristo compirà una volta entrato nella sua città.

Ma qual è il contenuto, la risonanza più profonda di questo grido di giubilo? La risposta ci viene dall’intera Scrittura, la quale ci ricorda che il Messia porta a compimento la promessa della benedizione di Dio, la promessa originaria che Dio aveva fatto ad Abramo, il padre di tutti i credenti: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò … e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). È la promessa che Israele aveva tenuto sempre viva nella preghiera, in particolare nella preghiera dei Salmi. Per questo, Colui che è acclamato dalla folla come il benedetto è, nello stesso tempo, Colui nel quale sarà benedetta l’umanità intera. Così, nella luce del Cristo, l’umanità si riconosce profondamente unita e come avvolta dal manto della benedizione divina, una benedizione che tutto permea, tutto sostiene, tutto redime, tutto santifica.

Possiamo scoprire qui un primo grande messaggio che giunge a noi dalla festività di oggi: l’invito ad assumere il giusto sguardo sull’umanità intera, sulle genti che formano il mondo, sulle sue varie culture e civiltà. Lo sguardo che il credente riceve da Cristo è lo sguardo della benedizione: uno sguardo sapiente e amorevole, capace di cogliere la bellezza del mondo e di compatirne la fragilità. In questo sguardo traspare lo sguardo stesso di Dio sugli uomini che Egli ama e sulla creazione, opera delle sue mani. Leggiamo nel Libro della Sapienza: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; … Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,23-24.26).

Ritorniamo alla pagina evangelica odierna e domandiamoci: che cosa c’è realmente nel cuore di quanti acclamano Cristo come Re d’Israele? Certamente avevano una loro idea del Messia, un’idea di come dovesse agire il Re promesso dai profeti e a lungo aspettato. Non è un caso che, pochi giorni dopo, la folla di Gerusalemme, invece di acclamare Gesù, griderà a Pilato: «Crocifiggilo»! E gli stessi discepoli, come pure altri che lo avevano visto e ascoltato, rimarranno ammutoliti e smarriti. La maggior parte, infatti, era rimasta delusa dal modo in cui Gesù aveva deciso di presentarsi come Messia e Re di Israele. Proprio qui sta il nodo della festa di oggi, anche per noi. Chi è per noi Gesù di Nazaret? Che idea abbiamo del Messia, che idea abbiamo di Dio? È una questione cruciale, questa, che non possiamo eludere, tanto più che proprio in questa settimana siamo chiamati a seguire il nostro Re che sceglie come trono la croce; siamo chiamati a seguire un Messia che non ci assicura una facile felicità terrena, ma la felicità del cielo, la beatitudine di Dio. Dobbiamo allora chiederci: quali sono le nostre vere attese? quali i desideri più profondi, con cui siamo venuti qui oggi a celebrare la Domenica delle Palme e ad iniziare la Settimana Santa?

Cari giovani, che siete qui convenuti! Questa è in modo particolare la vostra Giornata, dovunque nel mondo è presente la Chiesa. Per questo vi saluto con grande affetto! La Domenica delle Palme sia per voi il giorno della decisione, la decisione di accogliere il Signore e di seguirlo fino in fondo, la decisione di fare della sua Pasqua di morte e risurrezione il senso stesso della vostra vita di cristiani. E’ la decisione che porta alla vera gioia, come ho voluto ricordare nel Messaggio ai Giovani per questa Giornata - «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4) -, e come avvenne per santa Chiara di Assisi, che, ottocento anni or sono, trascinata dall’esempio di san Francesco e dei suoi primi compagni, proprio nella Domenica delle Palme, lasciò la casa paterna per consacrarsi totalmente al Signore: aveva diciotto anni ed ebbe il coraggio della fede e dell’amore, di decidersi per Cristo, trovando in Lui la gioia e la pace.

Cari fratelli e sorelle, siano in particolare due i sentimenti di questi giorni: la lode, come hanno fatto coloro che hanno accolto Gesù a Gerusalemme con i loro «osanna»; ed il ringraziamento, perché in questa Settimana Santa il Signore Gesù rinnoverà il dono più grande che si possa immaginare: ci donerà la sua vita, il suo corpo e il suo sangue, il suo amore. Ma a un dono così grande dobbiamo rispondere in modo adeguato, ossia con il dono di noi stessi, del nostro tempo, della nostra preghiera, del nostro stare in comunione profonda d’amore con Cristo che soffre, muore e risorge per noi. Gli antichi Padri della Chiesa hanno visto un simbolo di tutto ciò nel gesto della gente che seguiva Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, il gesto di stendere i mantelli davanti al Signore. Davanti a Cristo – dicevano i Padri – dobbiamo stendere la nostra vita, le nostre persone, in atteggiamento di gratitudine e di adorazione. Riascoltiamo, in conclusione, la voce di uno di questi antichi Padri, quella di sant’Andrea, Vescovo di Creta: «Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso ... e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese ... per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”» (PG 97, 994). Amen!



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domenica 1 aprile 2012

Domenica delle Palme: Passione di Cristo

Solo Dio sceglie di salire in Croce

Domenica delle Palme
(Mc 11,1-10) 


Entriamo nella più grande settimana dell’anno liturgico. La più grande perché, liturgicamente, è addirittura santa. L’unica santa settimana dell’anno perché ricorda i fatti sconvolgenti della nostra salvezza.

• Quali palme dobbiamo stendere?

Nel Vangelo delle palme vediamo la folla che stende mantelli e palme davanti al passaggio di Gesù, e io quel giorno mi sono chiesta cosa potevo stendere davanti al Signore che gli fosse più gradito e ho fatto una piccola esperienza che mi ha confermato come lo Spirito sia uno e parli un unico linguaggio. Ero in cappella distesa davanti all’altare e di colpo allungo il braccio per prendere il breviario. Lo apro alla pagina dove c’era la prima lettura della liturgia delle ore e vi leggo questo bellissimo commento di S. Andrea di Creta che dice: ”Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui, lungo il suo cammino rami d’ulivo o di palme, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione, dinanzi ai suoi piedi, le nostre persone. Accogliamo così il verbo di Dio che avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Stendiamo dunque noi stessi, rivestiti della sua grazia. O meglio di tutto lui stesso, poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo ci siamo rivestiti di Cristo. Prostriamoci dunque davanti a lui come tuniche distese. ”Ecco la conferma che ho avuto: il Signore vuole noi e non palme o mantelli… il che è molto più impegnativo e coinvolgente.

• Ma chi guidò le operazioni in quel processo?

Sappiamo che il processo che condannò Gesù fu il processo più falso che sia mai stato fatto
Ma chi diresse realmente le operazioni in quel finto processo? I sommi capi? Il popolo? I Romani? Nessuno di loro; l’unico a dirigere le operazioni fu Gesù stesso. Quante volte avevano tentato di gettarlo giù dal monte, o di lapidarlo ma non erano mai riusciti, perché? Perché non era giunta la sua ora. Gesù aveva sempre detto: “La mia vita nessuno me la toglie, ho il potere di darla e di riprenderla di nuovo”. E quando morì di cosa morì? Morì forse di tetano, d’infarto dovuto alle torture e alla posizione sulla croce, o ad altri accidenti organici, come affermano alcuni chirurghi? Niente di tutto questo: Gesù morì quando disse: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. MORI’ QUANDO LO VOLLE. Emise l’ultimo respiro quando liberamente volle emetterlo. La sua vita nessuno gliela tolse, neanche la morte.

• Come morì Gesù?

Dice San Tommaso d’Aquino nel “De Verbo Incarnato” che in Gesù non c’era abbastanza corruzione corporea per far sì che l’anima potesse abbandonare il corpo, neanche dopo le torture inflittegli sulla croce, ma ci fu il suo libero atto di donazione al Padre. In Gesù non poteva verificarsi quella morte che accadrà a tutti noi: cioè che il corpo sia così corrotto e mal ridotto da non poter più reggere l’anima, che allora gli sfuggirà. No! In Gesù quell’ora venne quando lo decise lui, liberamente. Se no chissà quante altre volte sarebbe giunta !...
Ma perché Gesù volle affrontare quella morte così atroce quando, essendo Dio, avrebbe potuto salvarci con un sorriso in quanto ogni suo atto, essendo divino, aveva un valore infinito? “Perché quello che bastava per la nostra salvezza, non bastò per il suo amore” (San Francesco di Sales).
E questa è la prova irrefutabile della sua divinità: solo Dio sceglie liberamente di salire in Croce; gli uomini fanno di tutto per scenderne. Ma Gesù vi è salito liberamente e non ha voluto scendere proprio perché era Dio.

Wilma Chasseur