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venerdì 31 dicembre 2010

Consigli Spirituali di Padre Pio, dalla Sua viva voce

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Ventunesimo appuntamento

Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Oggi continuiamo a vedere l'aspetto umoristico di Padre Pio che sotto il suo aspetto un pò barbero, nascondeva un senso umoristico molto forte e molto bello:

VIII

Humour e facezie

I miracoli dell'umorismo

Padre Pio non risparmiava nemmeno i suoi superiori, secondo il racconto di padre Pellegrino Funicelli: «Nel 1952 ci fu la visita del Procuratore generale padre Agatangelo da Langasco e noi di San Giovanni Rotondo avevamo saputo una frase che egli avrebbe pronunziato a nostro riguardo: "Vado laggiù e metto a posto io quella famiglia di quattro stupidi". Prima che arrivasse, noi frati ci chiedevamo come accoglierlo. Allora Padre Pio suggerì ridendo: "Ha detto che siamo una famiglia di stupidi? E noi lo accoglieremo come uno di famiglia!"».

Qualche tempo prima, quando il convento di San Giovanni Rotondo era un romitorio abitato da pochi religiosi, ma la fama di Padre Pio già si diffondeva all'intorno, un contadino suonò la campanella e Padre Pio si presentò ad aprire. «Sta qua il monaco che sa tutto?», chiese il buon uomo. Padre Pio, senza scomporsi, rispose di si e invitò il visitatore a seguirlo. Attraversato il corridoio del chiostro, i due salirono le scale e si fermarono alla prima cella, quella di padre Paolino da Casacalenda. «Padre Guardiano - disse Padre Pio - qui c e un signore che vuol parlare col monaco che sa tutto. Accontentatelo». E lesto andò in fondo al corridoio per godersi lo spettacolo.

Anche gli eventi prodigiosi di cui era protagonista assumevano talvolta aspetti umoristici. Un giorno fra Modestino da Pietrelcina acquistò alcuni ricordini religiosi da regalare agli amici, oltre a una bottiglia di vino per sé. Tornato in convento, si recò da Padre Pio per fargli benedire quegli oggetti e gli chiese di fare lo stesso anche con la bottiglia. Il Padre lo accontentò e poi, con aria sorniona, aggiunse: «Beh, ho fatto il primo miracolo stamattina». Fra Modestino gli chiese di spiegarsi, e Padre Pio: «Ho fatto diventare vino il contenuto di questa bottiglia». All'affermazione che quello era già vino, il Padre gli rivolse uno sguardo di commiserazione. Soltanto in seguito fra Modestino scoprì che quel vinaio produceva il vino non con l'uva, ma con le cosiddette "cartelle", e anche di scarsa qualità!

In un'altra circostanza, l'impiegato della Casa Sollievo che ogni giorno portava a Padre Pio la corrispondenza da benedire prima della spedizione compilò una schedina del totocalcio e, chiusala in una busta, la mise insieme alle altre. «Padre», gli disse, «le benedica tutte», ma Padre Pio, con lo sguardo di chi sapeva, rispose: «Sì, tutte, meno una». Il generale Tarcisio Quarti assistette invece, nel luglio 1943, a un episodio che ebbe come protagonista il signor Tonelli di Bologna, il quale voleva spedire da San Giovanni Rotondo alcune cartoline a persone delle quali non conosceva l'indirizzo preciso. Chiese a Padre Pio: «Dove abita la signora X?». E il Padre diede la via, il numero e la località. Poi continuò: «E il signor tale?». E il Padre diede l'indirizzo. La terza volta il Padre rispose: «Credo... via tale e numero tale». Alla quarta cartolina il Padre si ribellò bonariamente: «Ma tu mi hai preso per la guida telefonica?».

Il commercialista Adolfo Affatato ha invece raccontato che, quando viveva a Napoli per studiare, appena poteva si recava a San Giovanni Rotondo.

Una volta Padre Pio gli disse: «Figlio mio, non devi preoccuparti di venire se non puoi. Basta che entri in una chiesa dove c’è il santissimo Sacramento e mi mandi l'angelo custode». Il giorno in cui doveva sostenere l'esame di Diritto Privato, il giovane aveva molta paura e così, recandosi all'università, entrò in tutte le chiese che incontrava lungo il cammino. L'esame andò benissimo. Tornando a San Giovanni Rotondo per ringraziare il Padre, questi gli disse: «Ti avevo detto che nei momenti di necessità potevi mandarmi l'angelo custode: però basta una volta sola!».

E, con l'aiuto degli angeli suoi amici, Padre Pio si levava anche d'impiccio con divertimento. Una volta, nonostante stesse poco bene, il cappuccino si trattenne comunque a confessare fino alle 11.30. A un certo punto don Pierino Galeone lo vide in piedi, sulla predella del confessionale, e poi a due metri d'altezza, mentre veniva avvolto da una nuvola, fino a scomparire del tutto. Al pomeriggio, in giardino, i confratelli gli chiesero: «Padre, dove siete andato a finire questa mattina?». E lui, ridendo:

«Appena ho finito di confessare e mi sono alzato, ho avuto forti sbandamenti di testa, tanto che temevo di cadere per terra. Ho pregato gentilmente gli angeli di togliermi dall'imbarazzo e mi hanno sostenuto, lasciandomi camminare sulla testa della gente. Come erano dure quelle teste... Altro che mattoni!».

giovedì 30 dicembre 2010

Benedetto XVI: obbedienza e servizio virtù cristiane

Udienza Generale di Papa Benedetto XVI - 29 Dicembre 2010


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 29 dicembre 2010 


Santa Caterina da Bologna

Cari fratelli e sorelle,

in una recente catechesi ho parlato di santa Caterina da Siena. Oggi vorrei presentarvi un’altra Santa, meno conosciuta, che porta lo stesso nome: santa Caterina da Bologna, donna di vasta cultura, ma molto umile; dedita alla preghiera, ma sempre pronta a servire; generosa nel sacrificio, ma colma di gioia nell’accogliere con Cristo la croce.

Nasce a Bologna l'8 settembre 1413, primogenita di Benvenuta Mammolini e di Giovanni de’ Vigri, patrizio ferrarese ricco e colto, Dottore in Legge e pubblico Lettore a Padova, dove svolgeva attività diplomatica per Niccolò III d'Este, marchese di Ferrara. Le notizie sull’infanzia e la fanciullezza di Caterina sono scarse e non tutte sicure. Da bambina vive a Bologna, nella casa dei nonni; qui viene educata dai parenti, soprattutto dalla mamma, donna di grande fede. Si trasferisce con lei a Ferrara quando aveva circa dieci anni ed entra alla corte di Niccolò III d’Este come damigella d’onore di Margherita, figlia naturale di Niccolò. Il marchese sta trasformando Ferrara in una splendida città, chiamando artisti e letterati di vari Paesi. Promuove la cultura e, benché conduca una vita privata non esemplare, cura molto il bene spirituale, la condotta morale e l’educazione dei sudditi.

A Ferrara Caterina non risente degli aspetti negativi, che comportava spesso la vita di corte; gode dell'amicizia di Margherita e ne diventa la confidente; arricchisce la sua cultura: studia musica, pittura, danza; impara a poetare, a scrivere composizioni letterarie, a suonare la viola; diventa esperta nell’arte della miniatura e della copiatura; perfeziona lo studio del latino. Nella vita monastica futura valorizzerà molto il patrimonio culturale e artistico acquisito in questi anni. Apprende con facilità, con passione e con tenacia; mostra grande prudenza, singolare modestia, grazia e gentilezza nel comportamento. Una nota, comunque, la contraddistingue in modo assolutamente chiaro: il suo spirito costantemente rivolto alle cose del Cielo. Nel 1427, a soli quattordici anni, anche in seguito ad alcuni eventi familiari, Caterina decide di lasciare la corte, per unirsi a un gruppo di giovani donne provenienti da famiglie gentilizie che facevano vita comune, consacrandosi a Dio. La madre, con fede, acconsente, benché avesse altri progetti su di lei.

Non conosciamo il cammino spirituale di Caterina prima di questa scelta. Parlando in terza persona, ella afferma che è entrata al servizio di Dio “illuminata dalla grazia divina […] con retta coscienza e grande fervore”, sollecita notte e giorno alla santa orazione, impegnandosi a conquistare tutte le virtù che vedeva in altri, “non per invidia, ma per piacere di più a Dio in cui aveva posto tutto il suo amore” (Le sette armi spirituali, VII, 8, Bologna 1998, p. 12). Notevoli sono i suoi progressi spirituali in questa nuova fase della vita, ma grandi e terribili sono pure le prove, le sofferenze interiori, soprattutto le tentazioni del demonio. Attraversa una profonda crisi spirituale fino alle soglie della disperazione (cfr ibid., VII, p. 12-29). Vive nella notte dello spirito, percossa pure dalla tentazione dell’incredulità verso l’Eucaristia. Dopo tanto patire, il Signore la consola: in una visione le dona la chiara conoscenza della presenza reale eucaristica, una conoscenza così luminosa che Caterina non riesce ad esprimere con le parole (cfr ibid., VIII, 2, p. 42-46). Nello stesso periodo una prova dolorosa si abbatte sulla comunità: sorgono tensioni tra chi vuole seguire la spiritualità agostiniana e chi è più orientata verso la spiritualità francescana.

Tra il 1429 e il 1430 la responsabile del gruppo, Lucia Mascheroni, decide di fondare un monastero agostiniano. Caterina, invece, con altre, sceglie di legarsi alla regola di santa Chiara d’Assisi. E’ un dono della Provvidenza, perché la comunità abita nei pressi della chiesa di Santo Spirito annessa al convento dei Frati Minori che hanno aderito al movimento dell'Osservanza. Caterina e le compagne possono così partecipare regolarmente alle celebrazioni liturgiche e ricevere un’adeguata assistenza spirituale. Hanno pure la gioia di ascoltare la predicazione di san Bernardino da Siena (cfr ibid., VII, 62, p. 26). Caterina narra che, nel 1429 - terzo anno dalla sua conversione - va a confessarsi da uno dei Frati Minori da lei stimati, compie una buona Confessione e prega intensamente il Signore di donarle il perdono di tutti i peccati e della pena ad essi connessa. Dio le rivela in visione di averle perdonato tutto. È un’esperienza molto forte della misericordia divina, che la segna per sempre, dandole nuovo slancio nel rispondere con generosità all’immenso amore di Dio (cfr ibid., IX, 2, p. 46-48).

Nel 1431 ha una visione del giudizio finale. La terrificante scena dei dannati la spinge a intensificare preghiere e penitenze per la salvezza dei peccatori. Il demonio continua ad assalirla ed ella si affida in modo sempre più totale al Signore e alla Vergine Maria (cfr. ibid., X, 3, p. 53-54). Negli scritti, Caterina ci lascia alcune note essenziali di questo misterioso combattimento, da cui esce vittoriosa con la grazia di Dio. Lo fa per istruire le sue consorelle e coloro che intendono incamminarsi nella via della perfezione: vuole mettere in guardia dalle tentazioni del demonio, che si nasconde spesso sotto sembianze ingannatrici, per poi insinuare dubbi di fede, incertezze vocazionali, sensualità.

Nel trattato autobiografico e didascalico, Le sette armi spirituali, Caterina offre, al riguardo, insegnamenti di grande saggezza e di profondo discernimento. Parla in terza persona nel riportare le grazie straordinarie che il Signore le dona e in prima persona nel confessare i propri peccati. Dal suo scritto traspare la purezza della sua fede in Dio, la profonda umiltà, la semplicità di cuore, l’ardore missionario, la passione per la salvezza delle anime. Individua sette armi nella lotta contro il male, contro il diavolo: 1. avere cura e sollecitudine nell'operare sempre il bene; 2. credere che da soli non potremo mai fare qualcosa di veramente buono; 3. confidare in Dio e, per amore suo, non temere mai la battaglia contro il male, sia nel mondo, sia in noi stessi; 4. meditare spesso gli eventi e le parole della vita di Gesù, soprattutto la sua passione e morte; 5. ricordarsi che dobbiamo morire; 6. avere fissa nella mente la memoria dei beni del Paradiso; 7. avere familiarità con la Santa Scrittura, portandola sempre nel cuore perché orienti tutti i pensieri e tutte le azioni. Un bel programma di vita spirituale, anche oggi, per ognuno di noi!

In convento, Caterina, nonostante fosse abituata alla corte ferrarese, svolge mansioni di lavandaia, cucitrice, fornaia, ed è addetta alla cura degli animali. Compie tutto, anche i servizi più umili, con amore e con pronta obbedienza, offrendo alle consorelle una testimonianza luminosa. Ella vede, infatti, nella disobbedienza quell’orgoglio spirituale che distrugge ogni altra virtù. Per obbedienza accetta l’ufficio di maestra delle novizie, nonostante si ritenga incapace di svolgere l’incarico, e Dio continua ad animarla con la sua presenza e i suoi doni: è, infatti, una maestra saggia e apprezzata.

In seguito le viene affidato il servizio del parlatorio. Le costa molto interrompere spesso la preghiera per rispondere alle persone che si presentano alla grata del monastero, ma anche questa volta il Signore non manca di visitarla ed esserle vicino. Con lei il monastero è sempre più un luogo di preghiera, di offerta, di silenzio, di fatica e di gioia. Alla morte dell'abbadessa, i superiori pensano subito a lei, ma Caterina li spinge a rivolgersi alle Clarisse di Mantova, più istruite nelle costituzioni e nelle osservanze religiose. Pochi anni dopo, però, nel 1456, al suo monastero è richiesto di creare una nuova fondazione a Bologna. Caterina preferirebbe terminare i suoi giorni a Ferrara, ma il Signore le appare e la esorta a compiere la volontà di Dio andando a Bologna è come abbadessa. Si prepara al nuovo impegno con digiuni, discipline e penitenze. Si reca a Bologna con diciotto consorelle. Da superiora è la prima nella preghiera e nel servizio; vive in profonda umiltà e povertà. Allo scadere del triennio di abbadessa è felice di essere sostituita, ma dopo un anno deve riprendere le sue funzioni, perché la nuova eletta è diventata cieca. Sebbene sofferente e con gravi infermità che la tormentano, svolge il suo servizio con generosità e dedizione.

Ancora per un anno esorta le consorelle alla vita evangelica, alla pazienza e alla costanza nelle prove, all’amore fraterno, all'unione con lo Sposo divino, Gesù, per preparare, così, la propria dote per le nozze eterne. Una dote che Caterina vede nel saper condividere le sofferenze di Cristo, affrontando, con serenità, disagi, angustie, disprezzo, incomprensione (cfr Le sette armi spirituali, X, 20, p. 57-58). All’inizio del 1463 le infermità si aggravano; riunisce le consorelle un’ultima volta nel Capitolo, per annunciare loro la sua morte e raccomandare l'osservanza della regola. Verso la fine di febbraio è colta da forti sofferenze che non la lasceranno più, ma è lei a confortare le consorelle nel dolore, assicurandole del suo aiuto anche dal Cielo. Dopo aver ricevuto gli ultimi Sacramenti, consegna al confessore lo scritto Le sette armi spirituali ed entra in agonia; il suo viso si fa bello e luminoso; guarda ancora con amore quante la circondano e spira dolcemente, pronunciando tre volte il nome di Gesù: è il 9 marzo 1463 (cfr I. Bembo, Specchio di illuminazione. Vita di S. Caterina a Bologna, Firenze 2001, cap. III). Caterina sarà canonizzata dal Papa Clemente XI il 22 maggio 1712. La città di Bologna, nella cappella del monastero del Corpus Domini, custodisce il suo corpo incorrotto.

Cari amici, santa Caterina da Bologna, con le sue parole e con la sua vita, è un forte invito a lasciarci guidare sempre da Dio, a compiere quotidianamente la sua volontà, anche se spesso non corrisponde ai nostri progetti, a confidare nella sua Provvidenza che mai ci lascia soli. In questa prospettiva, santa Caterina parla con noi; dalla distanza di tanti secoli, è, tuttavia, molto moderna e parla alla nostra vita. Come noi soffre la tentazione, soffre le tentazioni dell'incredulità, della sensualità, di un combattimento difficile, spirituale. Si sente abbandonata da Dio, si trova nel buio della fede. Ma in tutte queste situazioni tiene sempre la mano del Signore, non Lo lascia, non Lo abbandona. E camminando con la mano nella mano del Signore, va sulla via giusta e trova la via della luce. Così, dice anche a noi: coraggio, anche nella notte della fede, anche in tanti dubbi che ci possono essere, non lasciare la mano del Signore, cammina con la tua mano nella sua mano, credi nella bontà di Dio; così è andare sulla via giusta! E vorrei sottolineare un altro aspetto, quello della sua grande umiltà: è una persona che non vuole essere qualcuno o qualcosa; non vuole apparire; non vuole governare. Vuole servire, fare la volontà di Dio, essere al servizio degli altri. E proprio per questo Caterina era credibile nell’autorità, perché si poteva vedere che per lei l'autorità era esattamente servire gli altri. Chiediamo a Dio, per l’intercessione della nostra Santa il dono di realizzare il progetto che Egli ha su di noi, con coraggio e generosità, perché solo Lui sia la salda roccia su cui si edifica la nostra vita. Grazie.

[Saluti in varie lingue]

* * *

Rivolgo il mio cordiale saluto alla comunità dei Legionari di Cristo, come pure ai numerosi membri del movimento “Regnum Christi”, venuti da diversi Paesi. Saluto le Missionarie Secolari Scalabriniane, che festeggiano i 50 anni del loro Istituto, nato dal carisma del beato vescovo Giovanni Battista Scalabrini per seminare il Vangelo tra i migranti. Tra i pellegrini di lingua italiana, saluto in particolare i giovani della Prelatura di Pompei, le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù e i vari gruppi parrocchiali. Grazie per la vostra cordialità!

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. A voi, cari giovani, auguro di camminare sempre nella via dell’umiltà, che il Figlio di Dio ha scelto per Sé venendo nel mondo. Voi, malati, possiate sentire il conforto della sua presenza, specialmente nei momenti più difficili. E voi, cari sposi novelli, siate sempre guidati dall’esempio della santa Famiglia e sostenuti dalla sua intercessione. Auguri a tutti!

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 29 dicembre 2010

S. Tommaso d'Aquino

La Summa Teologica - Prima parte

Cominciamo finalmente ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana.

Parte prima 
 La dottrina sacra 

Quale essa sia e a quali cose si estenda 
 
Questione 1

La dottrina sacra


Per assegnare al nostro studio dei limiti precisi, è necessario innanzi tutto trattare della stessa sacra dottrina, chiedendoci quale essa sia e a quali cose si estenda.
A tal proposito si prospettano dieci quesiti: 1. Se questa dottrina sia necessaria; 2. Se sia scienza; 3. Se sia scienza una o molteplice; 4. Se sia speculativa o pratica; 5. In che rapporti stia con le altre scienze; 6. Se sia sapienza; 7. Quale sia il suo soggetto; 8. Se sia argomentativa; 9. Se debba far uso di locuzioni metaforiche o simboliche; 10. Se la Scrittura sacra, su cui poggia questa dottrina, si debba esporre secondo pluralità di sensi.

ARTICOLO 1

Se oltre le discipline filosofiche sia necessario ammettere un'altra scienza

SEMBRA che oltre le discipline filosofiche non sia necessario ammettere un'altra scienza. Infatti:
1. L'uomo, ci avverte l'Ecclesiastico, non deve spingersi verso ciò che supera la sua ragione: "Non cercar quel ch'è al di sopra di te". Ora ciò che è d'ordine razionale ci è dato sufficientemente dalle discipline filosofiche. Conseguentemente non vi è posto per un'altra scienza.
2. Non vi è scienza che non tratti dell'ente: infatti non si conosce altro che il vero, il quale coincide con l'ente. Ora, la filosofia tratta di ogni ente e anche di Dio; tanto che una parte della filosofia si denomina teologia, ossia scienza divina, come dice Aristotele. Quindi non è necessario ammettere un'altra scienza all'infuori delle discipline filosofiche.

IN CONTRARIO: Nell'epistola a Timoteo si dice: "Tutta la Scrittura divinamente ispirata è utile a insegnare, a redarguire, a correggere, a educare alla giustizia". Ora, la Scrittura divinamente ispirata non rientra nelle discipline filosofiche, che sono un ritrovato della umana ragione. Di qui l'utilità di un'altra dottrina di ispirazione divina, oltre le discipline filosofiche.

RISPONDO: Era necessario, per la salvezza dell'uomo che, oltre le discipline filosofiche d'indagine razionale, ci fosse un'altra dottrina procedente dalla divina rivelazione. Prima di tutto perché l'uomo è ordinato a Dio come ad un fine che supera la capacità della ragione, secondo il detto d'Isaia: "Occhio non vide, eccetto te, o Dio, quello che tu hai preparato a coloro che ti amano". Ora è necessario che gli uomini conoscano in precedenza questo loro fine, perché vi indicizzino le loro intenzioni e le loro azioni. Cosicché per la salvezza dell'uomo fu necessario che mediante la divina rivelazione gli fossero fatte conoscere delle cose superiori alla ragione umana.
Anzi, anche riguardo a quello che intorno a Dio si può indagare con la ragione, fu necessario che l'uomo fosse ammaestrato per divina rivelazione, perché una conoscenza razionale di Dio non sarebbe stata possibile che per parte di pochi, dopo lungo tempo e con mescolanza di molti errori; eppure dalla conoscenza di tali verità dipende tutta la salvezza dell'uomo, che è riposta in Dio. Per provvedere alla salvezza degli uomini in modo più conveniente e più certo fu perciò necessario che rispetto alle cose divine fossero istruiti per divina rivelazione.
Di qui la necessità, oltre le discipline filosofiche, che si hanno per investigazione razionale, di una dottrina avuta per divina rivelazione.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. È vero che l'uomo non deve scrutare col semplice lume della ragione cose superiori alla sua intelligenza; ma ciò che Dio gli rivela lo deve accogliere con fede. Infatti nel medesimo punto della Scrittura si aggiunge: "Molte cose ti sono mostrate superiori all'umano sentire". E precisamente in tali cose consiste la sacra dottrina.
2. La diversità di principi o di punti di vista causa la diversità delle scienze. Una stessa conclusione scientifica, può dimostrarla, sia un astronomo che un fisico, p. es., la rotondità della terra; ma l'astronomo parte da criteri matematici, cioè fa astrazione dalle qualità della materia; il fisico invece lo dimostra mediante la concretezza stessa della materia. Quindi niente impedisce che delle stesse cose delle quali tratta la filosofia con i suoi lumi di ragione naturale, tratti anche un'altra scienza che proceda alla luce della rivelazione. Perciò la teologia che fa parte della sacra dottrina differisce secondo il genere, dalla teologia che rientra nelle discipline filosofiche.

martedì 28 dicembre 2010

Santi Innocenti martiri

I Santi Innocenti

Oggi ricorre un ricordo doloroso, il ricordo di coloro che possiamo definire i primi martiri di Gesù e cioè i bambini che furono eliminati dalla pazzia di Erode che vedeva in quel Bambin Gesù, una minaccia per il suo trono, il suo potere. Quei bambini pagarono un prezzo alto, ma il loro nome è stato scritto nei Cieli e per primi hanno partecipato alla Gloria del Salvatore. Anche noi li vogliamo ricordare perchè essi sono stati vittime dell'odio umano, vittime della cupidigia umana, vittime dell'egoismo umano che addirittura vede in Dio una minaccia per i propri interessi. In Erode vediamo la tipica figura umana talmente attaccata al potere e alla ricchezza da vedere nella buona novella, una minaccia per se stesso: ecco che la buona novella diviene una minaccia. Ancora oggi vediamo questo capovolgimento che si traduce nel martirio e nelle discriminazioni  a danno dei cristiani: oggi il cristiano rappresenta la Luce scesa sul mondo in quella notte gelida e ogni Erode di questo tempo si sente minacciato da quella Luce, al punto da volerla estirpare. 
Ricordiamo dunque i piccoli caduti per il Bene supremo, e lo facciamo attraverso un cenno biografico del sito Santi e Beati seguito da una meditazione di San Quodvultdeus, vescovo:

La Chiesa onora come martiri questo coro di fanciulli ("infantes" o "innocentes"), vittime ignare del sospettoso e sanguinario re Erode, strappati dalle braccia materne in tenerissima età per scrivere col loro sangue la prima pagina dell'albo d'oro dei martiri cristiani e meritare la gloria eterna secondo la promessa di Gesù: " Colui che avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà". Per essi la liturgia ripete oggi le parole del poeta Prudenzio: "Salute, o fiori dei martiri, che sulle soglie del mattino siete stati diverti dal persecutore di Gesù, come un turbine furioso tronca le rose appena sbocciate. Voi foste le prime vittime, il tenero gregge immolato, e sullo stesso altare avete ricevuto la palma e la corona".
L'episodio è narrato soltanto dall'evangelista Matteo, che si indirizzava principalmente a lettori ebrei e pertanto intendeva dimostrare la messianicità di Gesù, nel quale si erano avverate le antiche profezie: "Allora Erode, vedendosi deluso dai magi, s'irritò grandemente e mandò ad uccidere tutti i bambini che erano in Betlem e in tutti i suoi dintorni, dai due anni in giù, secondo il tempo che aveva rilevato dai magi. Allora si adempì ciò che era stato annunciato dal profeta Geremia, quando disse: Un grido in Rama si udì, pianto e grave lamento: Rachele piange i suoi figli, né ha voluto essere consolata, perché non sono più".
L'origine di questa festa è molto antica. Compare già nel calendario cartaginese del IV secolo e cent'anni più tardi a Roma nel Sacramentario Leoniano. Oggi, con la nuova riforma liturgica, la celebrazione ha un carattere gioioso e non più di lutto com'era agli inizi, e ciò in sintonia con le simpatiche consuetudini medioevali che celebravano in questa ricorrenza la festa dei "pueri" di coro e di servizio all'altare. Tra le curiose manifestazioni ricordiamo quella di far scendere i canonici dai loro stalli al canto del versetto "Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles".
Da questo momento i fanciulli, rivestiti delle insegne dei canonici, dirigevano tutto l'uffìcio del giorno. La nuova liturgia, pur non volendo accentuare il carattere folcloristico che questo giorno ha avuto nel corso della storia, ha voluto mantenere questa celebrazione, elevata al grado di festa da S. Pio V, vicinissima alla festività natalizia, collocando le innocenti vittime tra i "comites Christi", per circondare la culla di Gesù Bambino dello stuolo grazioso di piccoli fanciulli, rivestiti delle candide vesti dell'innocenza, piccola avanguardia dell'esercito di martiri che testimonieranno col sangue la loro appartenenza a Cristo.
Autore: Piero Bargellini

***

Dai «Discorsi» di san Quodvultdeus, vescovo.

Il grande Re nasce piccolo bambino. I magi  vengono da lontano guidati dalla stella  e giungono a Bet1emme per adorare colui  che giace nel presepio, ma regna in cielo e sulla terra. Quando i magi annunziano
a Erode che è nato il Re, egli si turba e per non perdere il regno cerca di ucciderlo,  mentre credendo in lui sarebbe stato sicuro in questa vita e avrebbe regnato eternamente nellaltra.
Che cosa temi, o Erode, ora che hai sentito che è nato il Re? Cristo non è venuto per detronizzarti, ma per vincere il demonio.
Tu questo non lo comprendi, perciò ti turbi e infierisci; anzi, per togliere di mezzo quel solo che cerchi, diventi crudele facendo morire tanti bambini.
Le madri che piangono non ti fanno tornare sui tuoi passi, non ti commuove il lamento dei padri per luccisione dei loro figli, non ti arresta il gemito straziante dei bambini. La paura che ti serra il cuore ti spinge a uccidere i bambini e, mentre cerchi di uccidere la Vita stessa, pensi di poter vivere a lungo, se riuscirai a condurre a termine ciò the brami.
Ma egli, fonte della grazia, piccolo e grande nello stesso tempo, pur giacendo nel presepio, fa tremare il tuo trono; si serve di te che non conosci i suoi disegni e libera le anime dalla schiavitù del demonio. Ha accolto i figli dei nemici e li ha fatti suoi figli adottivi. I bambini, senza saperlo, muoiono per Cristo, mentre i genitori piangono i martiri che muoiono. Cristo rende suoi testimoni quelli che non parlano ancora. Colui the era venuto per regnare, regna in questo modo. Il liberatore incomincia già a liberare e il salvatore concede già la sua salvezza.
Ma tu, o Erode, the tutto questo non sai,  ti turbi e incrudelisci e mentre macchini ai danni di questo bambino, senza saperlo, già gli rendi omaggio.
O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta perché non muovono
ancora le membra, e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria.

lunedì 27 dicembre 2010

San Giovanni Apostolo ed evangelista

Angelus di Papa Benedetto XVI - 26 Dicembre 2010


FESTA DELLA SANTA FAMIGLIA DI NAZARETH

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Festa di Santo Stefano Protomartire
Piazza San Pietro
Domenica, 26 dicembre 2010



Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo secondo Luca racconta che i pastori di Betlemme, dopo aver ricevuto dall’angelo l’annuncio della nascita del Messia, “andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (2,16). Ai primi testimoni oculari della nascita di Gesù si presentò, dunque, la scena di una famiglia: madre, padre e figlio neonato. Per questo la Liturgia ci fa celebrare, nella prima domenica dopo il Natale, la festa della santa Famiglia. Quest’anno essa ricorre proprio all’indomani del Natale e, prevalendo su quella di santo Stefano, ci invita a contemplare questa “icona” in cui il piccolo Gesù appare al centro dell’affetto e delle premure dei suoi genitori. Nella povera grotta di Betlemme – scrivono i Padri della Chiesa – rifulge una luce vivissima, riflesso del profondo mistero che avvolge quel Bambino, e che Maria e Giuseppe custodiscono nei loro cuori e lasciano trasparire nei loro sguardi, nei gesti, soprattutto nei loro silenzi. Essi, infatti, conservano nell’intimo le parole dell’annuncio dell’angelo a Maria: “colui che nascerà sarà chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35).

Eppure, la nascita di ogni bambino porta con sé qualcosa di questo mistero! Lo sanno bene i genitori che lo ricevono come un dono e che, spesso, così ne parlano. A tutti noi è capitato di sentir dire a un papà e a una mamma: “Questo bambino è un dono, un miracolo!”. In effetti, gli esseri umani vivono la procreazione non come mero atto riproduttivo, ma ne percepiscono la ricchezza, intuiscono che ogni creatura umana che si affaccia sulla terra è il “segno” per eccellenza del Creatore e Padre che è nei cieli. Quant’è importante, allora, che ogni bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia! Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia, ma l’amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini: dell’amore del padre e della madre. E’ questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita, permette la scoperta del senso della vita. La santa Famiglia di Nazareth ha attraversato molte prove, come quella – ricordata nel Vangelo secondo Matteo – della “strage degli innocenti”, che costrinse Giuseppe e Maria ed emigrare in Egitto (cfr 2,13-23). Ma, confidando nella divina Provvidenza, essi trovarono la loro stabilità e assicurarono a Gesù un’infanzia serena e una solida educazione.

Cari amici, la santa Famiglia è certamente singolare e irripetibile, ma al tempo stesso è “modello di vita” per ogni famiglia, perché Gesù, vero uomo, ha voluto nascere in una famiglia umana, e così facendo l’ha benedetta e consacrata. Affidiamo pertanto alla Madonna e a san Giuseppe tutte le famiglie, affinché non si scoraggino di fronte alle prove e alle difficoltà, ma coltivino sempre l’amore coniugale e si dedichino con fiducia al servizio della vita e dell’educazione.

APPELLO

In questo tempo del Santo Natale, il desiderio e l’invocazione del dono della pace si sono fatti ancora più intensi. Ma il nostro mondo continua ad essere segnato dalla violenza, specialmente contro i discepoli di Cristo. Ho appreso con grande tristezza l’attentato in una chiesa cattolica nelle Filippine, mentre si celebravano i riti del giorno di Natale, come pure l’attacco a chiese cristiane in Nigeria. La terra si è macchiata ancora di sangue in altre parti del mondo come in Pakistan. Desidero esprimere il mio sentito cordoglio per le vittime di queste assurde violenze, e ripeto ancora una volta l’appello ad abbandonare la via dell’odio per trovare soluzioni pacifiche dei conflitti e donare alle care popolazioni sicurezza e serenità. In questo giorno in cui celebriamo la Santa Famiglia, che visse la drammatica esperienza di dover fuggire in Egitto per la furia omicida di Erode, ricordiamo anche tutti coloro – in particolare le famiglie - che sono costretti ad abbandonare le proprie case a causa della guerra, della violenza e dell’intolleranza. Vi invito, quindi, ad unirvi a me nella preghiera per chiedere con forza al Signore che tocchi il cuore degli uomini e porti speranza, riconciliazione e pace.

* * *

Dopo l'Angelus


[Saluti in varie lingue]

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. Auguro a tutti di vivere in serenità e armonia questi giorni, condividendo la gioia profonda che scaturisce dalla Nascita di Cristo. Buona domenica!

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 26 dicembre 2010

VIdeo-Vangelo: Santa Famiglia di Nazareth

«Alzati prendi con te …»

Nel giorno della Sacra Famiglia, leggiamo il commento di don Luca Orlando Russo mentre noi porgiamo i nostri auguri a tutte le famiglie: 


Una famiglia perseguitata quella di Gesù, Maria e Giuseppe. Una famiglia che non incontra il favore delle autorità. C'è, però, il Signore a prendere le difese di questa famiglia, a non permettere che l'interesse, l'arroganza e il potere distruggano un sogno grande come quello che Maria e Giuseppe avevano fatto proprio.
Chi pensava che la scelta di Maria e di Giuseppe di obbedire alla Parola del Signore, sarebbe stata una scelta facile dopo aver detto il loro sì, non solo si sbagliava, ma non sa bene che Dio ai suoi amici non risparmia nulla. Dio, da quello che ci racconta il vangelo, non edulcora la realtà, non sottrae nessuno dalla fatica, ma fa molto di più: a chi confida in Lui, Dio, offre la sua solidarietà e offre, nella fatica, la possibilità di poter fare un'esperienza sempre più grande del suo amore. La famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe può sperare in Dio e con Lui, può costruire, giorno dopo giorno, nel banale quotidiano, nella fatica dell'ordinario una famiglia dove a regnare è l'amore. Tutto questo passa attraverso un cuore sempre all'ascolto, sempre pronto all'obbedienza fiduciosa della Parola.
Quando pensiamo alla Santa famiglia siamo sempre tentati di credere che per loro non ci sono state difficoltà, che la loro vita è stata una passeggiata, che Maria trascorreva il suo tempo in estasi, Giuseppe riempiva le sue giornate a fare tavoli e sedie e Gesù, tra un miracolo e l'altro, cresceva in età, sapienza e grazia. Niente di più falso: la Santa famiglia è una famiglia normale anche se chi la compone ha qualcosa di speciale. Lo speciale di questa famiglia, a ricordacelo è Giuseppe, è l'aver messo al centro la Parola del Signore, l'obbedienza ad una Parola che per compiersi ha bisogno di mandare un intero nucleo familiare in esilio, buttato fuori dalla Giudea e costretto a rifugiarsi in un piccolo paese, sconosciuto a tutti.
In questo nostro tempo in cui molte famiglie soffrono, sono costrette magari ad andare lontano per trovare un po' di lavoro, devono fare enormi sacrifici per far studiare i loro figli che, diventati grandi, continuano a vivere del lavoro dei genitori e non hanno i mezzi per fare scelte di autonomia, in questo tempo Gesù, Maria e Giuseppe sono una promessa, una speranza. Maria e Giuseppe con la loro vita e le loro scelte, ma soprattutto con la loro fede ci invitano a non scoraggiarci, a non mollare, a non pensare che è meglio mandare tutto all'aria, smettendo di credere che l'unica vera soluzione è banalizzare le relazioni e rinunciare al sogno di una famiglia. A farne le spese sono soprattutto i giovani che non credono più nella famiglia, che preferiscono non assumersi più la responsabilità di un impegno gravoso come quello del matrimonio o come quello di mettere al mondo dei figli.
A noi tutti Gesù, Maria e Giuseppe annunciano che il Signore è sempre pronto a promuovere, a sostenere, a difendere la famiglia, ogni famiglia. Molti hanno interesse, fratelli e sorelle, a vedere la famiglia disgregarsi perché una famiglia che si sfascia è fonte di guadagno per molte persone, perché due single spendono di più di una coppia. Contro costoro la Santa famiglia alza la voce e annuncia: Dio ama la famiglia!

sabato 25 dicembre 2010

The Nativity - La nascita di Gesu'

Chi è Colui che viene?


NATALE DEL SIGNORE 

Quando celebriamo il Natale ,  sappiamo (o dovremmo sapere) che il festeggiato è Gesù. Ebbene , tutto il cristianesimo ruota attorno ad un’unica domanda: chi è Gesù Cristo? E i secoli continuano ad interrogarsi su quell’Uomo – l’unico- che ha un’identità storica e un’identità eterna.
1) Chi è?

Quel nome scritto probabilmente su una tavoletta o su un papiro, quando Maria e Giuseppe andarono a farsi registrare in occasione del censimento e in seguito scritto su cronache dell’epoca da storici come Giuseppe Flavo e Tacito che ne confermarono l’identità storica, in principio fu pronunciato da Dio che eternamente lo pronuncia :”In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Solenne ouverture, abisso sconfinato di luce che ci ricorda l’identità eterna  del Logos. Parola generata dal pensiero. Parola che procede dalla conoscenza che il Padre ha di sé stesso. Parola che racchiude tutta la sapienza del Padre : Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero. Solo Lui è consustanziale al Padre  e a Natale si incarna, per cui oggi celebriamo la sapienza Incarnata.
 Solo lui è il Figlio unigenito della stessa sostanza del Padre, generato prima di tutti i secoli e non creato. E’ questa la distinzione abissale: noi non siamo della stessa sostanza di Dio  e siamo stati creati, cioè tratti fuori dall’abisso vertiginoso del nulla  e siamo passati dal non-essere all’essere; dal non-esistere all’esistenza, e anche ora riceviamo ad ogni istante l’esistenza da Dio, altrimenti ripiomberemmo nel nulla. Col battesimo siamo poi diventati  suoi figli ( e non solo più creature), ma figli adottivi, cioè non della stessa”razza”: continueremo ad essere “fatti” di natura umana mentre Dio è e sarà sempre  di natura divina.
E’ questa la distinzione fondamentale che dobbiamo tenere presente perché fonda addirittura la nostra fede distinguendola da altre, per esempio quella induista ( che va tanto di moda e, per questo, credo sia utile chiarire alcuni concetti).  Questa nega che sussista una distinzione tra creatore e creatura, tra Dio e l’uomo,  e ritiene che al termine della purificazione l’anima si dissolverà in Dio come la goccia d’acqua si dissolve nell’oceano e diventerà di natura divina. Secondo questa concezione non  sussisterebbe più nessuna alterità, cioè non ci sarebbe più un “tu” e un “io”, ma   un tutt’uno che coinciderebbe con l’unica natura divina. 
 
 • 2) Quando il mondo non esisteva…

 E  “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente esiste di tutto ciò che è stato fatto”. Ci fu dunque un tempo in cui il mondo non esisteva. Questi sconfinati spazi di miliardi di anni-luce non c’erano, esisteva solo DIO. La creazione è una rivelazione  della Sua opera ad extra . Sappiamo che in Dio ci sono due opere: quella ad intra ( la circolazione di amore trinitario che avviene all’interno delle Tre Persone) e quella ad extra che è appunto la creazione: Essa manifesta all’esterno la straordinaria potenza creatrice che Dio ha in sé stesso. Osservando e investigando le leggi precisissime che reggono questo complesso e sterminato universo in cui ci muoviamo e siamo, scopriamo le impronte del Creatore. La creazione è un meccanismo perfetto, non solo in sé stesso, ma è fatta per accogliere l’uomo. Abbiamo già illustrato altre volte il concetto del Principio Antropico elaborato da illustri scienziati che sostengono che tutto è stato fatto in vista dell’uomo. Il creato è fatto su misura per l’uomo. La natura è munita di tutti gli elementi chimici e biologici che gli consentono  di vivere su questo pianeta Terra che è parte integrante dell’intero universo. Quindi la natura non è solo un meccanismo perfetto , fatto per accogliere l’uomo, ma anche per ricordargli che questo straordinario meccanismo, è stato creato apposta  per lui dal  “Padre nostro che è nei cieli”.
E pensare che la cultura moderna pretende di poter fare a meno di Dio, l’era tecnologica attribuisce ogni potere all’uomo;Dio non è più necessario. Questo è perdere non il senso della fede, ma addirittura il senso della realtà! Infatti la realtà è che per secoli infiniti, l’uomo NON ESISTEVA. Esisteva solo DIO, PADRE, FIGLIO e SPIRITO SANTO. E fu allora che Dio creò lo sterminato Universo, le galassie, il Sole, le stelle, senza che l’uomo gli facesse neppure da assistente. E malgrado ciò, l’uomo si crede il re dell’universo.

• 3) Misure …smisurate! 

Dobbiamo re-imparare a prendere le misure: cosa sono due milioni di anni ( tempo a cu ipare risalga l’apparizione dell’uomo sulla Terra) rispetto ai 20 miliardi di anni-luce dell’Universo? Cosa sono le distanze che percorre l’uomo rispetto alla distanza  Sole-Terra ossia 150 milioni di Km che sono poi solo 8 minuti - luce? Cos’è la velocità  degli apparecchi umani - Concorde o missili che siano- rispetto alla velocità  orbitale della Terra che gira a 30 km. al secondo = 1800 al minuto, il Sole a 200 Km. al secondo e la galassia a centinaia di Km. al secondo? E cosa sono  le velocità dei satelliti artificiali rispetto a quella della luce  che in un secondo percorre la distanza Terra- Luna? Cosa fa l’uomo con tutta la sua scienza se non scoprire ciò che Dio ha creato senza di lui?
E “tutto è stato fatto in vista di Lui”, l’Uomo perfetto, l’Uomo-Dio, che è sceso su una terra in grado di accogliere, prima, l’uomo tout court.
“Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”. L’hanno fatto fuori, sì , ma ormai era troppo tardi, Lui era dentro. Dentro al cuore dell’uomo. Gli uomini hanno potuto “farlo fuori” solo dall’esterno perché dall’interno del cuore e della storia umana, non ne è mai più uscito. Milioni di uomini e di donne hanno lasciato tutto per seguirlo e hanno anche dato la loro vita pur di non rinnegarlo.  Se fosse solo un mito, quale forza avrebbe dato loro la forza di affrontare anche la  morte? Questo testimonia che Lui è vivo oggi, non commemoriamo Uno che è nato e morto duemila anni fa, ma  Colui che cammina con noi tutti i giorni, fino alla fine. Anche noi ne siamo un segno: se io sono qui a parlare e voi ad ascoltare è perché un giorno Lui è entrato nella nostra vita e abbiamo sentito la sua voce ed abbiamo deciso di seguirlo ( bene o male si capisce, a volte pìù male che bene, ma l’importante è che siamo qui).
Il cristianesimo ruota dunque ancora sempre attorno a quell’unica domanda che il Natale ripropone ad ognuno: CHI E’ PER TE GESU’ CRISTO?

    Wilma  CHASSEUR

venerdì 24 dicembre 2010

Gesù è nato!!!! Buon Natale!!!

La Vigna del Signore vi augura buon Natale!!!! La Luce di Gesù Cristo e la Sua benedizione scendano su di voi in questa notte santa e restino con voi ogni giorno della vostra vita!!!

"Gesù nascerà da Maria, sposa di Giuseppe, della stirpe di Davide"

Omelia del giovane Karol in un Paese a lungo senza tetto per Gesù

Carissimi, nel giorno della Vigilia di Natale, sospendiamo l'appuntamento settimanale con la storia di Padre Pio, per dar voce a chi ci ha guidato come Papa fino all'ultimo respiro e cioè il Venerabile Giovanni Paolo II: quella che segue è un'omelia inedita, pronunciata dal giovane Karol, quando ancora era un cardinale. La peculiarità sta nel fatto che la Messa fu celebrata sotto le stelle poiché il regime comunista aveva vietato la presenza di chiese. E' quindi un'omelia che assume molteplici significati e che proviene dal cuore di un uomo che ha davvero conosciuto la miseria umana:

Oggi a mezzanotte tutta la Chiesa nel mondo intero – su tutta la faccia della terra – dà di nuovo il benvenuto al salvatore del mondo, che è nato a Betlemme. Lo saluta il Santo Padre celebrando a quest’ora la messa di mezzanotte nella basilica di San Pietro. Lo salutano i vescovi in tutti i Paesi su ogni continente del mondo. Lo saluta la Chiesa di Cracovia qui a Nowa Huta.

Da diversi anni si è consolidata una tradizione che, non nella cattedrale di Wawel, ma proprio qui, a Nowa Huta, il vescovo della Chiesa di Cracovia viene per vivere la notte di Natale e celebrare la messa di mezzanotte assieme alla comunità cattolica di questa nuova città, la nuova Cracovia. Per diversi anni ho celebrato la messa di mezzanotte nella parrocchia di Nowa Huta-Bienczyce, finché non è iniziata la costruzione della chiesa.

Quando ormai quella chiesa ha iniziato a prendere forma, ci siamo spostati con la messa di mezzanotte qui, a Mistrzejowice e la celebriamo – come ricordate – così come due anni fa in questo luogo, in cui ha preso inizio la vostra nuova comunità parrocchiale. L’anno scorso ho celebrato a Wzgórza Krzeslawickie e anche oggi mi sono recato là per salutare quei parrocchiani. Invece qui sono venuto per celebrare la messa di mezzanotte a Mistrzejowice, in un nuovo luogo, in questa nuova situazione, per dare il benvenuto al Signore Gesù, in mezzo al popolo di Dio nella parrocchia di Mistrzejowice, come lo accolsero nella notte di Betlemme gli angeli, che svegliarono i pastori, i quali accolsero la Buona Novella.

Questi si recarono al luogo indicato e trovarono in una stalla, ovvero in una grotta, ciò che gli avevano annunciato gli angeli: trovarono un bambino nato, fra le braccia della madre e di san Giuseppe, protettore di questo mistero della nascita di Gesù. Cari fratelli e sorelle! Tutti noi siamo i seguaci di quei pastori. Tutti noi questa notte sentiamo la stessa Buona Novella. E non ci dispiace dedicare il tempo, le ore, anche se non sono molto comode queste assemblee sotto il cielo aperto. Arriviamo alla nostra Betlemme, per trovare qui il Signore Gesù. Ed ecco, lo troviamo.

Lo troviamo con gli occhi della fede, vediamo come nasce sull’altare nel mistero della nascita eucaristica che rinnova il Natale. E lo vediamo così come nasce nell’Eucaristia, nasce anche nelle nostre anime. Il Natale è per ogni uomo; Dio nasce come uomo, affinché in ogni corpo umano nasca Dio e ogni uomo possa condurre una vita divina; conducendo la vita con Dio, possa rinascere ogni anno, finché nasce per l’eternità, quando finisce questa vita sulla terra. Ecco il mistero di Natale: così lo accogliamo, tali prospettive apre davanti a noi. Guidati dalla luce della notte di Betlemme veniamo ogni anno e veniamo oggi per dare il benvenuto a Gesù Cristo che nasce in questo mistero.

Cari fratelli e sorelle! Assieme a voi, assieme a Nowa Huta, non so quante volte, come vescovo di questa antica, millenaria Chiesa di Cracovia, la quale ha come santo patrono san Stanislao vescovo e martire – che inoltre quest’anno celebra i cinquecento anni della morte di san Giovanni Canzio, proprio il giorno 24 dicembre in questa notte di Betlemme – assieme a voi, come vescovo della Chiesa di Cracovia, con venerazione accolgo Gesù Cristo nascente, il Figlio di Dio, il nostro salvatore. Noi veniamo qui per Gesù. Per Gesù noi cerchiamo un tetto. È una storia che si protrae da molti anni. Nowa Huta ha cominciato a scrivere questa storia sulla terra polacca. Assieme a voi ho cercato un tetto per Cristo, che deve nascere non solo la notte di Betlemme, ma anche quotidianamente e ogni domenica, ogni giorno dell’anno.

E possiamo dirci che questa nostra ricerca non rimane del tutto vana. Grazie a Dio la chiesa a Bienczyce ha acquisito il tetto, grazie a Dio a Mistrzejowice siamo usciti da quella baracca "microscopica" e già si disegna la forma di una nuova chiesa, ormai ci troviamo sul suo territorio. Abbiamo fiducia che anche la comunità cristiana a Wzgórza Krzeslawickie, con la propria tenacia, con la propria fedeltà a Cristo, e tramite questa stessa messa di mezzanotte celebrata dal vescovo, implorerà e conquisterà un tetto per Gesù, il quale anche lì dovrebbe nascere.

E per tutto ciò vi ringrazio, cari parrocchiani di Nowa Huta, desidero esprimere questa notte un cordiale ringraziamento. Vi ringrazio perché in queste sollecitudini il vostro pastore d’anime non era mai da solo. Vi ringrazio perché in queste sollecitudini per il tetto di Gesù e per il suo popolo, il vostro vescovo non era mai da solo: sempre siamo stati insieme, in questa unità siamo stati la forza del popolo di Dio, la forza della Chiesa, la quale è il popolo di Dio, comunità dei fedeli, comunità di Cristo, comunità di Betlemme, comunità del Cenacolo, del Calvario, della Pentecoste, comunità di duemila anni e comunità di questa nostra odierna notte di vigilia, nella quale di nuovo diamo il benvenuto al Signore Gesù nella vostra parrocchia di Mistrzejowice.

Cari fratelli e sorelle, vi auguro che questa notte il Signore Gesù nasca di nuovo in ciascuno dei vostri cuori; che nasca di nuovo e più profondamente, che maturi; che le anime maturino con questo Natale. Vi auguro che nasca di nuovo nelle vostre famiglie cristiane; e vi auguro che nasca nella vostra parrocchia, che nasca assieme a questa chiesa, la quale qui deve cominciare a edificarsi dai prossimi mesi dell’anno nuovo. Ciò vi auguro con tutto il mio cuore.

giovedì 23 dicembre 2010

Il Papa: "Gesù ci fa vedere il mondo con gli occhi di Dio"

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 22 Dicembre 2010


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 22 dicembre 2010 


Cari fratelli e sorelle!

Con quest’ultima Udienza prima delle Festività Natalizie, ci avviciniamo, trepidanti e pieni di stupore, al “luogo” dove per noi e per la nostra salvezza tutto ha avuto inizio, dove tutto ha trovato un compimento, là dove si sono incontrate e incrociate le attese del mondo e del cuore umano con la presenza di Dio. Possiamo già ora pregustare la gioia per quella piccola luce che si intravede, che dalla grotta di Betlemme comincia ad irradiarsi sul mondo. Nel cammino dell’Avvento, che la liturgia ci ha invitato a vivere, siamo stati accompagnati ad accogliere con disponibilità e riconoscenza il grande Avvenimento della venuta del Salvatore e a contemplare pieni di meraviglia il suo ingresso nel mondo.

L’attesa gioiosa, caratteristica dei giorni che precedono il Santo Natale, è certamente l’atteggiamento fondamentale del cristiano che desidera vivere con frutto il rinnovato incontro con Colui che viene ad abitare in mezzo a noi: Cristo Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo. Ritroviamo questa disposizione del cuore, e la facciamo nostra, in coloro che per primi accolsero la venuta del Messia: Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, il popolo semplice, e specialmente Maria e Giuseppe, i quali in prima persona hanno provato la trepidazione, ma soprattutto la gioia per il mistero di questa nascita. Tutto l’Antico Testamento costituisce un’unica grande promessa, che doveva compiersi con la venuta di un salvatore potente. Ce ne dà testimonianza in particolare il libro del profeta Isaia, il quale ci parla del travaglio della storia e dell’intera creazione per una redenzione destinata a ridonare nuove energie e nuovo orientamento al mondo intero. Così, accanto all’attesa dei personaggi delle Sacre Scritture, trova spazio e significato, attraverso i secoli, anche la nostra attesa, quella che in questi giorni stiamo sperimentando e quella che ci mantiene desti per l’intero cammino della nostra vita. Tutta l’esistenza umana, infatti, è animata da questo profondo sentimento, dal desiderio che quanto di più vero, di più bello e di più grande abbiamo intravisto e intuito con la mente ed il cuore, possa venirci incontro e davanti ai nostri occhi diventi concreto e ci risollevi.

“Ecco viene il Signore onnipotente: sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi” (Antifona d’ingresso, S. Messa del 21 dicembre). Frequentemente, in questi giorni, ripetiamo queste parole. Nel tempo della liturgia, che riattualizza il Mistero, è ormai alle porte Colui che viene a salvarci dal peccato e dalla morte, Colui che, dopo la disobbedienza di Adamo ed Eva, ci riabbraccia e spalanca per noi l’accesso alla vita vera. Lo spiega sant’Ireneo, nel suo trattato “Contro le eresie”, quando afferma: “Il Figlio stesso di Dio scese «in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8,3) per condannare il peccato, e, dopo averlo condannato, escluderlo completamente dal genere umano. Chiamò l’uomo alla somiglianza con se stesso, lo fece imitatore di Dio, lo avviò sulla strada indicata dal Padre perché potesse vedere Dio, e gli diede in dono lo stesso Padre” (III, 20, 2-3).

Ci appaiono alcune idee preferite di sant’Ireneo, che Dio con il Bambino Gesù ci richiama alla somiglianza con se stesso. Vediamo com’è Dio. E così ci ricorda che noi dovremmo essere simili a Dio. E dobbiamo imitarlo. Dio si è donato, Dio si è donato nelle nostre mani. Dobbiamo imitare Dio. E infine l’idea che così possiamo vedere Dio. Un’idea centrale di sant’Ireneo: l’uomo non vede Dio, non può vederlo, e così è nel buio sulla verità, su se stesso. Ma l’uomo che non può vedere Dio, può vedere Gesù. E così vede Dio, così comincia a vedere la verità, così comincia a vivere.

Il Salvatore, dunque, viene per ridurre all’impotenza l’opera del male e tutto ciò che ancora può tenerci lontani da Dio, per restituirci all’antico splendore e alla primitiva paternità. Con la sua venuta tra noi, Dio ci indica e ci assegna anche un compito: proprio quello di essere somiglianti a Lui e di tendere alla vera vita, di arrivare alla visione di Dio nel volto di Cristo. Ancora sant’Ireneo afferma: “Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a percepire Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Per questo, Dio ci ha dato come «segno» della nostra salvezza colui che, nato dalla Vergine, è l’Emmanuele” (ibidem). Anche qui c’è un’idea centrale molto bella di sant’Ireneo: dobbiamo abituarci a percepire Dio. Dio è normalmente lontano dalla nostra vita, dalle nostre idee, dal nostro agire. È venuto vicino a noi e dobbiamo abituarci a essere con Dio. E audacemente Ireneo osa dire che anche Dio deve abituarsi a essere con noi e in noi. E che Dio forse dovrebbe accompagnarci a Natale, abituarci a Dio, come Dio si deve abituare a noi, alla nostra povertà e fragilità. La venuta del Signore, perciò, non può avere altro scopo che quello di insegnarci a vedere e ad amare gli avvenimenti, il mondo e tutto ciò che ci circonda, con gli occhi stessi di Dio. Il Verbo fatto bambino ci aiuta a comprendere il modo di agire di Dio, affinché siamo capaci di lasciarci sempre più trasformare dalla sua bontà e dalla sua infinita misericordia.

Nella notte del mondo, lasciamoci ancora sorprendere e illuminare da questo atto di Dio, che è totalmente inaspettato: Dio di fa Bambino. Lasciamoci sorprendere, illuminare dalla Stella che ha inondato di gioia l’universo. Gesù Bambino, giungendo a noi, non ci trovi impreparati, impegnati soltanto a rendere più bella la realtà esteriore. La cura che poniamo per rendere più splendenti le nostre strade e le nostre case ci spinga ancora di più a predisporre il nostro animo ad incontrare Colui che verrà a visitarci, che è la vera bellezza e la vera luce. Purifichiamo quindi la nostra coscienza e la nostra vita da ciò che è contrario a questa venuta: pensieri, parole, atteggiamenti e azioni, spronandoci a compiere il bene e a contribuire a realizzare in questo nostro mondo la pace e la giustizia per ogni uomo e a camminare così incontro al Signore.

Segno caratteristico del tempo natalizio è il presepe. Anche in Piazza San Pietro, secondo la consuetudine, è quasi pronto e idealmente si affaccia su Roma e sul mondo intero, rappresentando la bellezza del Mistero del Dio che si è fatto uomo e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14). Il presepe è espressione della nostra attesa, che Dio si avvicina a noi, che Gesù si avvicina a noi, ma è anche espressione del rendimento di grazie a Colui che ha deciso di condividere la nostra condizione umana, nella povertà e nella semplicità. Mi rallegro perché rimane viva e, anzi, si riscopre la tradizione di preparare il presepe nelle case, nei posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo. Questa genuina testimonianza di fede cristiana possa offrire anche oggi per tutti gli uomini di buona volontà una suggestiva icona dell’amore infinito del Padre verso noi tutti. I cuori dei bambini e degli adulti possano ancora sorprendersi di fronte ad essa.

Cari fratelli e sorelle, la Vergine Maria e san Giuseppe ci aiutino a vivere il Mistero del Natale con rinnovata gratitudine al Signore. In mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, questo tempo ci doni un po’ di calma e di gioia e ci faccia toccare con mano la bontà del nostro Dio, che si fa Bambino per salvarci e dare nuovo coraggio e nuova luce al nostro cammino. E’ questo il mio augurio per un santo e felice Natale: lo rivolgo con affetto a voi qui presenti, ai vostri familiari, in particolare ai malati e ai sofferenti, come pure alle vostre comunità e a quanti vi sono cari.

[Saluti in varie lingue]

* * *

Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, ricordando, in modo speciale, gli Zampognari di Bojano e la delegazione del Comune di Bolsena.

Desidero, poi, salutare i giovani, i malati e gli sposi novelli. A pochi giorni dalla solennità del Natale, possa l'amore, che Dio manifesta all'umanità nella nascita di Cristo, accrescere in voi, cari giovani, il desiderio di servire generosamente i fratelli. Sia per voi, cari malati, fonte di conforto e di serenità, perché il Signore viene a visitarci, recando consolazione e speranza. Ispiri voi, cari sposi novelli, a consolidare la vostra promessa di amore e di reciproca fedeltà. 

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 22 dicembre 2010

Tu scendi dalle Stelle

La storia di un Bambino

In virtù del Natale ormai alle porte, sospendiamo l'appuntamento teologico settimanale per dedicarci al Santo Natale. La Vigna del Signore, in più sezioni, ha già presentato numerosi interventi in questa direzione e oggi ci sembra opportuno farlo anche qui, nella sezione più seguita. La nostra cara Enza ci ha donato una piccola storia davvero bella ed emozionante, soprattutto perchè realmente accaduta. Tale storia è tratta dal libro "Chi comprenderà il Cuore di Dio" di Maria Dominique Moliniè e racconta un episodio incredibile che vede come protagonisti alcuni bambini e la loro fede in Gesù Bambino:


La scena è ambientata in Ungheria, al tempo delle terribili persecuzioni comuniste contro la fede.
Alla scuola comunale, l'istitutrice è una atea militante che non perde nessuna occasione per seminare dubbi nei cuori dei bambini che, quasi tutti, vengono da famiglie praticanti. Una dei bambini, Angela, di 10 anni, si distingue per la grande fede e diventa il bersaglio della istitutrice. Un giorno, questa donna inventa un nuovo metodo per estrarre ogni barlume di fede dal cuore di questi bambini innocenti. Domanda ad Angela :
- Quando i tuoi genitori ti chiamano, che fai?
- Vado da loro, risponde la bambina.
- E quando chiamano lo spazzacamino, che succede?
- Arriva lo spazzacamino.
- Bene figlia mia, viene perché esiste! Tu vieni perché esisti. Ma supponiamo che i tuoi genitori chiamino tua nonna che è morta, pensi che verrà?
- No, non credo che verrà.
- Brava! E se chiamano cappuccetto rosso o barbablù, che succederà?
- Non verrà nessuno perché si tratta di favole.
- Perfetto! Vedete dunque, bambini, che i viventi, quelli che esistono, rispondono a coloro che li chiamano, e coloro che non rispondono, non vivono più oppure hanno smesso di esistere. E’ chiaro, vero?
- Sì, risponde tutta la classe con voce timida.
- Tu Angela, credi che il Bambino Gesù ti senta quando lo chiami?
La piccola risponde con un fervore improvviso, indovinando il tranello:
- Sì, credo che mi senta!
- Bene, facciamo allora un piccolo esperimento. Se il Bambino Gesù esiste, udrà la vostra chiamata. Gridate allora tutti insieme, a voce alta: “Vieni Gesù Bambino!”
  Dopo un lungo silenzio durante il quale l'istitutrice assapora lo smarrimento dei bambini, Angela si lancia in mezzo alla classe e grida :
- Ebbene sì, noi lo chiameremo. Tutti insieme, “Vieni Gesù Bambino!”
Tutti gli scolari si alzano e gridano, pieni di speranza:
- “Vieni Gesù Bambino!”
Tralascio i dettagli per arrivare ai fatti. Tutti i bambini guardavano Angela, quando di colpo la porta si aprì senza rumore.
“Tutta la luce del giorno si raccolse improvvisamente verso la porta. Questa luce cresceva e aumentava e divenne un globo di fuoco. All'inizio i bambini ebbero paura, ma il globo si aprì e dentro apparve un bellissimo bambino come non ne avevano mai visto uno. Il bambino sorrideva loro senza dire una parola. La sua presenza era dolcissima. Vestito di bianco, sembrava un piccolo sole. Era lui che produceva la luce. Non disse niente, sorrideva soltanto; poi disparve nel globo di luce che si dissolveva poco a poco, secondo le testimonianze dei bambini. La porta si richiuse da sola dolcemente. Inondati di gioia, i bambini non potevano parlare. Ma un grido stridulo ruppe il silenzio. Hagarde, l'istitutrice urlava : “È venuto! è venuto!” Poi scappò sbattendo la porta.
Angela disse semplicemente: “Vedete, lui esiste!”.
Il cappellano dell’epoca dopo interrogò ciascun bambino e dichiarò sotto giuramento che i bambini non si contraddicevano. D’altra parte i bambini trovavano questo quasi normale e uno di loro affermò: “Poiché eravamo in difficoltà, bisognava bene che Gesù bambino venisse a cavarci dagli impicci!”.
L’istitutrice abbandonò il suo lavoro per motivi di salute mentale. Ripeteva continuamente: “È
venuto! È venuto!”.

martedì 21 dicembre 2010

Resta qui con noi

Discorso di Papa Benedetto XVI

Mentre ci avviciniamo sempre più alle feste natalizie, leggiamo il discorso tenuto dal Santo PAdre Benedetto XVI, per la presentazione degli auguri natalizi: è in discorso ampio che riflette temi anche molto spinosi come la pedofilia e l'attuale aspetto della Chiesa:


DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI CARDINALI, ARCIVESCOVI E VESCOVI, PRELATURA ROMANA,
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

Sala Regia
Lunedì, 20 dicembre 2010

 
 
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!

È con vivo piacere che vi incontro, cari Membri del Collegio Cardinalizio, Rappresentanti della Curia Romana e del Governatorato, per questo appuntamento tradizionale. Rivolgo a ciascuno un cordiale saluto, ad iniziare dal Cardinale Angelo Sodano, che ringrazio per le espressioni di devozione e di comunione, e per i fervidi auguri che mi ha rivolto a nome di tutti. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Contempliamo come un’unica famiglia il mistero dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, come ha detto il Cardinale Decano. Ricambio volentieri i voti augurali e desidero ringraziare vivamente tutti, compresi i Rappresentanti Pontifici sparsi per il mondo, per l’apporto competente e generoso che ciascuno presta al Vicario di Cristo e alla Chiesa.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente nei giorni dell’Avvento. Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”. Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera di Avvento della Chiesa. Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.

Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”: nelle grandi angustie, alle quali siamo stati esposti in quest’anno, tale preghiera di Avvento mi è sempre tornata di nuovo alla mente e sulle labbra. Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettato. In noi sacerdoti e nei laici, proprio anche nei giovani, si è rinnovata la consapevolezza di quale dono rappresenti il sacerdozio della Chiesa Cattolica, che ci è stato affidato dal Signore. Ci siamo nuovamente resi conto di quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare in nome di Dio e con pieno potere la parola del perdono, e così siano in grado di cambiare il mondo, la vita; quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare le parole della consacrazione, con cui il Signore attira dentro di sé un pezzo di mondo, e così in un certo luogo lo trasforma nella sua stessa sostanza; quanto sia bello poter essere, con la forza del Signore, vicino agli uomini nelle loro gioie e sofferenze, nelle ore importanti come in quelle buie dell’esistenza; quanto sia bello avere nella vita come compito non questo o quell’altro, ma semplicemente l’essere stesso dell’uomo – per aiutare che si apra a Dio e sia vissuto a partire da Dio. Tanto più siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita.

In questo contesto, mi è venuta in mente una visione di sant’Ildegarda di Bingen che descrive in modo sconvolgente ciò che abbiamo vissuto in quest’anno. “Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto. Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere. La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo. Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato. Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra. Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: ‘Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato! Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato! Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!’

E proseguì: ‘Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha preso come sua sposa.

Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità’.

E sentii una voce dal cielo che diceva: ‘Questa immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura»’ (Mc 16,15)” (Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale: PL 197, 269ss).

Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato – per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere. È questo anche il luogo per ringraziare di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio. Nei miei incontri con le vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio.

Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un’intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana. L’Apocalisse di san Giovanni annovera tra i grandi peccati di Babilonia – simbolo delle grandi città irreligiose del mondo – il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce (cfr Ap 18,13). In questo contesto, si pone anche il problema della droga, che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre – espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l’eccesso nell’inganno dell’ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomo viene minata e alla fine annullata del tutto.

Per opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti ideologici. Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire morale. Questo testo oggi deve essere messo nuovamente al centro come cammino nella formazione della coscienza. È nostra responsabilità rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi criteri come vie della vera umanità, nel contesto della preoccupazione per l’uomo, nella quale siamo immersi.

Come secondo punto vorrei dire una parola sul Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Esso ebbe inizio con il mio viaggio a Cipro dove potei consegnare l’Instrumentum laboris per il Sinodo ai Vescovi di quei Paesi lì convenuti. Rimane indimenticabile l’ospitalità della Chiesa ortodossa che abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri: il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica, la lettura della Scrittura secondo l’ermeneutica della Regula fidei, la comprensione della Scrittura nell’unità multiforme incentrata su Cristo sviluppatasi grazie all’ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa. Così abbiamo incontrato in modo vivo la ricchezza dei riti della Chiesa antica anche all’interno della Chiesa Cattolica. Abbiamo avuto liturgie con Maroniti e con Melchiti, abbiamo celebrato in rito latino e abbiamo avuto momenti di preghiera ecumenica con gli Ortodossi, e, in manifestazioni imponenti, abbiamo potuto vedere la ricca cultura cristiana dell’Oriente cristiano. Ma abbiamo visto anche il problema del Paese diviso. Si rendevano visibili colpe del passato e profonde ferite, ma anche il desiderio di pace e di comunione quali erano esistite prima. Tutti sono consapevoli del fatto che la violenza non porta alcun progresso – essa, infatti, ha creato la situazione attuale. Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita l’unità. Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito essenziale della pastorale.

Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato sull’intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti. Per quanto riguarda i cristiani, ci sono le Chiese pre-calcedonesi e quelle calcedonesi; Chiese in comunione con Roma ed altre che stanno fuori di tale comunione ed in entrambe esistono, uno accanto all’altro, molteplici riti. Negli sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per l’altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell’umanità. Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini ebrei e musulmani. Nel Sinodo abbiamo ascoltato parole sagge del Consigliere del Mufti della Repubblica del Libano contro gli atti di violenza nei confronti dei cristiani. Egli diceva: con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi stessi. Purtroppo, però, questa e analoghe voci della ragione, per le quali siamo profondamente grati, sono troppo deboli. Anche qui l’ostacolo è il collegamento tra avidità di lucro ed accecamento ideologico. Sulla base dello spirito della fede e della sua ragionevolezza, il Sinodo ha sviluppato un grande concetto del dialogo, del perdono e dell’accoglienza vicendevole, un concetto che ora vogliamo gridare al mondo. L’essere umano è uno solo e l’umanità è una sola. Ciò che in qualsiasi luogo viene fatto contro l’uomo alla fine ferisce tutti. Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell’amore riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è il compito principale della Chiesa in quest’ora.

Mi piacerebbe parlare dettagliatamente dell’indimenticabile viaggio nel Regno Unito, voglio però limitarmi a due punti che sono correlati con il tema della responsabilità dei cristiani in questo tempo e con il compito della Chiesa di annunciare il Vangelo. Il pensiero va innanzitutto all’incontro con il mondo della cultura nella Westminster Hall, un incontro in cui la consapevolezza della responsabilità comune in questo momento storico creò una grande attenzione, che, in ultima analisi, si rivolse alla questione circa la verità e la stessa fede. Che in questo dibattito la Chiesa debba recare il proprio contributo, era evidente per tutti. Alexis de Tocqueville, a suo tempo, aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato, perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti. Solo se esiste un tale consenso sull’essenziale, le costituzioni e il diritto possono funzionare. Questo consenso di fondo proveniente dal patrimonio cristiano è in pericolo là dove al suo posto, al posto della ragione morale, subentra la mera razionalità finalistica di cui ho parlato poco fa. Questo è in realtà un accecamento della ragione per ciò che è essenziale. Combattere contro questo accecamento della ragione e conservarle la capacità di vedere l’essenziale, di vedere Dio e l’uomo, ciò che è buono e ciò che è vero, è l’interesse comune che deve unire tutti gli uomini di buona volontà. È in gioco il futuro del mondo.

Infine, vorrei ancora ricordare la beatificazione del Cardinale John Henry Newman. Perché è stato beatificato? Che cosa ha da dirci? A queste domande si possono dare molte risposte, che nel contesto della beatificazione sono state sviluppate. Vorrei rilevare soltanto due aspetti che vanno insieme e, in fin dei conti, esprimono la stessa cosa. Il primo è che dobbiamo imparare dalle tre conversioni di Newman, perché sono passi di un cammino spirituale che ci interessa tutti. Vorrei qui mettere in risalto solo la prima conversione: quella alla fede nel Dio vivente. Fino a quel momento, Newman pensava come la media degli uomini del suo tempo e come la media degli uomini anche di oggi, che non escludono semplicemente l’esistenza di Dio, ma la considerano comunque come qualcosa di insicuro, che non ha alcun ruolo essenziale nella propria vita. Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo, l’empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la “realtà” secondo cui ci si orienta. Il “reale” è ciò che è afferrabile, sono le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta.

La forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola “coscienza” si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza – un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a lui. La sua terza conversione, quella al Cattolicesimo, esigeva da lui di abbandonare quasi tutto ciò che gli era caro e prezioso: i suoi averi e la sua professione, il suo grado accademico, i legami familiari e molti amici. La rinuncia che l’obbedienza verso la verità, la sua coscienza, gli chiedeva, andava ancora oltre. Newman era sempre stato consapevole di avere una missione per l’Inghilterra. Ma nella teologia cattolica del suo tempo, la sua voce a stento poteva essere udita. Era troppo aliena rispetto alla forma dominante del pensiero teologico e anche della pietà. Nel gennaio del 1863 scrisse nel suo diario queste frasi sconvolgenti: “Come protestante, la mia religione mi sembrava misera, non però la mia vita. E ora, da cattolico, la mia vita è misera, non però la mia religione”. Non era ancora arrivata l’ora della sua efficacia. Nell’umiltà e nel buio dell’obbedienza, egli dovette aspettare fino a che il suo messaggio fosse utilizzato e compreso. Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al Papa. Ma in questa affermazione, “coscienza” non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della verità: in ciò si fonda il suo primato. Al Papa può essere dedicato il secondo brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della verità.

Devo rinunciare a parlare dei viaggi così significativi a Malta, in Portogallo e in Spagna. In essi si è reso nuovamente visibile che la fede non è una cosa del passato, ma un incontro con il Dio che vive ed agisce adesso. Egli ci chiama in causa e si oppone alla nostra pigrizia, ma proprio così ci apre la strada verso la gioia vera.

“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni!”. Siamo partiti dall’invocazione della presenza della potenza di Dio nel nostro tempo e dall’esperienza della sua apparente assenza. Se apriamo i nostri occhi, proprio nella retrospettiva sull’anno che volge al termine, può rendersi visibile che la potenza e la bontà di Dio sono presenti in maniera molteplice anche oggi. Così tutti noi abbiamo motivo per ringraziarLo. Con il ringraziamento al Signore rinnovo il mio ringraziamento a tutti i collaboratori. Voglia Dio donare a tutti noi un Santo Natale ed accompagnarci con la sua bontà nel prossimo anno.

Affido questi voti all’intercessione della Vergine Santa, Madre del Redentore, e a voi tutti e alla grande famiglia della Curia Romana imparto di cuore la Benedizione Apostolica. Buon Natale!

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