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giovedì 30 giugno 2011

Papa: Santi Pietro e Paolo illuminano i pastori della Chiesa

Omelia ed Angelus di Papa Benedetto XVI - 29 Giugno 2011

CAPPELLA PAPALE
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO


SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO
AI NUOVI METROPOLITI


OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Basilica Vaticana
 Mercoledì, 29 giugno 2011



Cari fratelli e sorelle,

“Non iam dicam servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15). A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. “Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.

“Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!

La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino - costituiti perché andiate -, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo.

Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta.

Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno.

Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento.

Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagni della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e per la preghiera.

Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un “giogo dolce”, ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo.

Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen.

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
 Mercoledì, 29 giugno 2011

Cari fratelli e sorelle!

Scusate il lungo ritardo. La Messa in onore dei Santi Pietro e Paolo è stata lunga e bella. E abbiamo pensato anche a quel bell’inno della Chiesa di Roma che comincia: “O Roma felix!”. Oggi nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, Patroni di questa Città, cantiamo così: “Felice Roma, perché fosti imporporata dal prezioso sangue di così grandi Principi. Non per tua lode, ma per i loro meriti ogni bellezza superi!”. Come cantano gli inni della tradizione orientale, i due grandi Apostoli sono le “ali” della conoscenza di Dio, che hanno percorso la terra sino ai suoi confini e si sono innalzate al cielo; essi sono anche le “mani” del Vangelo della grazia, i “piedi” della verità dell’annuncio, i “fiumi” della sapienza, le “braccia” della croce (cfr MHN, t. 5, 1899, p. 385). La testimonianza di amore e di fedeltà dei Santi Pietro e Paolo illumina i Pastori della Chiesa, per condurre gli uomini alla verità, formandoli alla fede in Cristo. San Pietro, in particolare, rappresenta l’unità del collegio apostolico. Per tale motivo, durante la liturgia celebrata questa mattina nella Basilica Vaticana, ho imposto a 41 Arcivescovi Metropoliti il pallio, che manifesta la comunione con il Vescovo di Roma nella missione di guidare il popolo di Dio alla salvezza. Scrive sant’Ireneo, Vescovo di Lione, che alla Chiesa di Roma “propter potentiorem principalitatem [per la sua peculiare principalità] deve convergere ogni altra Chiesa, cioè i fedeli che sono dovunque, perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli” (Adversus haereses, III,3,2); così nel II secolo.

È la fede professata da Pietro a costituire il fondamento della Chiesa: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” – si legge nel Vangelo di Matteo (16,16). Il primato di Pietro è predilezione divina, come lo è anche la vocazione sacerdotale: “Né la carne né il sangue te lo hanno rivelato – dice Gesù – ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Così accade a chi decide di rispondere alla chiamata di Dio con la totalità della propria vita. Lo ricordo volentieri in questo giorno, nel quale si compie per me il sessantesimo anniversario di Ordinazione sacerdotale. Grazie per la vostra presenza, per le vostre preghiere! Sono grato a voi, sono grato soprattutto al Signore per la sua chiamata e per il ministero affidatomi, e ringrazio coloro che, in questa circostanza, mi hanno manifestato la loro vicinanza e sostengono la mia missione con la preghiera, che da ogni comunità ecclesiale sale incessantemente a Dio (cfr At 12,5), traducendosi in adorazione a Cristo Eucaristia per accrescere la forza e la libertà di annunciare il Vangelo.

In questo clima, sono lieto di salutare cordialmente la Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, presente oggi a Roma, secondo la significativa consuetudine, per venerare i Santi Pietro e Paolo e condividere con me l’auspicio dell’unità dei cristiani voluta dal Signore. Invochiamo con fiducia la Vergine Maria, Regina degli Apostoli, affinché ogni battezzato diventi sempre più una “pietra viva” che costruisce il Regno di Dio.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 29 giugno 2011

Ordinazione Sacerdotale di Joseph Alois Ratzinger (Papa Benedetto XVI) - 29 giugno 1951

Videovangelo S.Pietro e Paolo (A)

Celebrando i Santissimi Pietro e Paolo: Omelia del Beato Giovanni Paolo II

In questa giornata in cui la Chiesa Cattolica celebra i Santissimi Apostoli Pietro e Paolo, vere colonne portanti di essa, anche la nostra piccola Vigna vuole fermarsi a celebrarli, avendoli scelti come protettori del suo piccolo ed umile lavoro. Per questo motivo, derogando alla consueta programmazione, proponiamo il testo integrale dell'omelia del Beato Giovanni Paolo II, pronunciata in questa meravigliosa giornata del 1979 (si tratta della sua prima celebrazione di questa solennità dopo la sua ascensione al soglio pontificio):


SOLENNITÀ DEGLI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II

29 giugno 1979

1. La liturgia odierna ci conduce, come ogni anno, nella regione di Cesarea di Filippo, dove Simone, figlio di Giona ha sentito dalla bocca di Cristo queste parole: “Beato te... perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17).

Simone ha sentito queste parole dalla bocca di Cristo quando alla domanda: “La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo?” (Mt 16,13) egli solo ha dato tale risposta: “Tu sei il Messia (“Christos”), il figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).

Questa risposta si trova al centro della storia di Simone, che Cristo ha cominciato a chiamare Pietro.

Il luogo, in cui essa è stata pronunciata, è un luogo storico. Quando il Papa Paolo VI, come pellegrino, visitò la Terra Santa, a quel luogo dedicò una particolare attenzione. Ogni successore di Pietro deve ritornare in quel luogo col pensiero e col cuore. Lì è stata riconfermata la fede di Pietro: “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17).

Cristo sente la confessione di Pietro, che poco prima e stata pronunciata. Cristo guarda nell’anima dell’Apostolo, che confessa. Benedice l’opera del Padre in questa anima. L’opera del Padre raggiunge l’intelletto, la volontà e il cuore, indipendentemente dalla “carne” e dal “sangue“; indipendentemente dalla natura e dai sensi. L’opera del Padre, mediante lo Spirito Santo, raggiunge l’anima del semplice uomo, del pescatore di Galilea. La luce interiore proveniente da quest’opera trova espressione nelle parole: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).

Le parole sono semplici. Ma in esse si esprime la verità sovrumana. La verità sovrumana, divina, si esprime con l’aiuto di parole semplici, molto semplici. Tali furono le parole di Maria nel momento dell’annunciazione. Tali furono le parole di Giovanni Battista al Giordano. Tali sono le parole di Simone nei pressi di Cesarea di Filippo: Simone, che Cristo ha chiamato Pietro.

Cristo guarda nell’anima di Simone. Sembra che ammiri l’opera compiuta in essa dal Padre, mediante lo Spirito Santo: ecco, confessando la verità rivelata sulla figliolanza divina del suo Maestro, Simone diventa partecipe della divina Conoscenza, di quella inscrutabile Scienza, che il Padre ha del Figlio, così come il Figlio ha del Padre.

E Cristo dice: “Beato te, Simone figlio di Giona” (Mt 16,17).

2. Queste parole si trovano nel centro stesso della storia di Simon Pietro. Non è stata mai ritirata questa benedizione. Così come non è stata mai offuscata, nell’anima di Pietro, quella confessione, che ha fatto allora, nei pressi di Cesarea di Filippo. Con essa ha trascorso tutta la sua vita fino all’ultimo giorno. Ha trascorso con essa quella terribile notte della cattura di Cristo nel giardino del Getsemani; la notte della propria debolezza, della più grande debolezza, che si è manifestata nel rinnegare l’uomo... ma che non ha distrutto la fede nel figlio di Dio. La prova della croce è stata ricompensata dalla testimonianza della Risurrezione. Essa apportò alla confessione, fatta nella regione di Cesarea di Filippo, un argomento definitivo.

Pietro andava adesso, con questa sua fede nel Figlio di Dio, incontro alla missione, che il Signore gli aveva assegnato.

Quando per ordine di Erode, si è trovato nella prigione di Gerusalemme, incatenato e condannato a morte, sembrò che tale missione sarebbe durata poco. Invece Pietro fu liberato dalla stessa forza, dalla quale era stato chiamato. Gli era stata destinata una strada ancora lunga. Alla fine di questa strada, si è trovato, come indica una tradizione confermata d’altronde da molte rigorose ricerche, solo il 29 giugno dell’anno 68, di questa era, che convenzionalmente si conta dalla nascita di Cristo.

Alla fine di questa strada, l’Apostolo Pietro, già Simone figlio di Giona, si è trovato qui a Roma, qui, in questo luogo, sul quale ci troviamo adesso, sotto l’altare, dove si celebra l’Eucaristia.

“La carne e il sangue” sono stati distrutti fino alla fine; sono stati sottomessi alla morte. Ma ciò che un tempo gli aveva rivelato il Padre (cf.Mt 16,17), è sopravvissuto alla morte della carne; è diventato l’inizio dell’eterno incontro col Maestro, al quale ha dato testimonianza fino alla fine. L’inizio della beata Visione del Figlio del Padre.

Ed è diventato anche l’incrollabile fondamento della fede della Chiesa. La sua pietra, la roccia.

“Beato te, Simone figlio di Giona” (Mt 16,17).

3. Nella liturgia odierna, che unisce la commemorazione della morte e della gloria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, leggiamo le seguenti parole della lettera a Timoteo: “Carissimo, quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (2Tm 4,6-8).

Certamente, fra tutti coloro che hanno amato la manifestazione del Signore, Paolo da Tarso è stato l’amante singolare, l’intrepido combattente, il testimone inflessibile.

“Il Signore... mi è stato vicino”; ricordiamo bene come e dove questo ha avuto luogo; ricordiamo quello che accadde vicino alle mura di Damasco? “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili” (2Tm 4,17).

Paolo, in un grandioso scorcio, disegna l’opera di tutta la sua vita. Ne parla di qui, da Roma, al suo diletto discepolo, quando si avvicina la fine della sua vita interamente dedicata al Vangelo.

Penetrante è – ancora in questa tappa – questa coscienza del peccato e della grazia; della grazia che supera il peccato, e apre la strada alla gloria: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno” (2Tm 4,18).

La Chiesa romana rievoca oggi, in modo particolare, nella sua memoria i due ultimi sguardi nella stessa direzione; nella direzione di Cristo crocifisso e risorto. Lo sguardo di Pietro agonizzante sulla croce e di Paolo morente sotto la spada.

Questi due sguardi di fede – di quella fede che ha riempito la loro vita fino alla fine e ha posto i fondamenti della luce divina nella storia dell’uomo sulla terra – permangono nella nostra memoria. E in questo giorno ravviviamo la nostra fede in Cristo con una forza particolare.

In questa prospettiva sono lieto di salutare la delegazione inviata dall’amato fratello, il Patriarca ecumenico Dimitrios I, per associarsi a questa celebrazione dei corifei degli Apostoli, i Santi Pietro e Paolo, testimoniando così come le relazioni tra le nostre due Chiese si intensificano sempre di più in un comune sforzo verso la piena unità.

martedì 28 giugno 2011

Ricevete lo Spirito Santo

Riscoprire i Santi - Sant'Ireneo

Torna anche per questo martedì, l'appunto settimanale volto alla scoperta dei nostri cari Santi! Oggi, ci soffermiamo sulla figura di Sant'Ireneo, celebrato proprio in questa giornata dalla Chiesa Cattolica. Sant’Ireneo fu vescovo che, come attesta san Girolamo, fu, da piccolo, discepolo di san Policarpo di Smirne e custodì fedelmente la memoria dell’età apostolica; fattosi sacerdote del clero di Lione, succedette al vescovo san Potino e si tramanda come lui sia stato coronato da glorioso martirio. Molto disputò al riguardo della tradizione apostolica e pubblicò una celebre opera contro le eresie a difesa della fede cattolica, un'opera a cui siamo stati invitati alla lettura dal nostro Papa Benedetto XVI e di cui leggeremo un breve passo, subito dopo il consueto tratto biografico (Santi & Beati):
 
“Irenoeo Martyri tuo atque Pontifici tribuisti, ut et veritate doctrinae expugnaret haereses, et pacem Ecclesiae feliciter confirmaret”. (Dalla preghiera della festa). Sant’Ireneo è un santo le cui origini, l’esistenza e l’azione, ci interessano particolarmente. Egli è nato a Smirne nel 130, è stato discepolo di San Policarpo, discepolo a sua volta di San Giovanni. La fede di Ireneo e il suo credo fu, quindi, tra i più puri discendendo direttamente dal verbo proferito dagli apostoli. È stato Vescovo di Lione nelle Gallie, attuale Francia. Teologo e scrittore, è restato sempre molto unito al Papa san Vittore I ed ha terminato la sua vita col martirio. La Preghiera liturgica della sua festa lo presenta, a giusto titolo, come un campione della fede e distingue tre aspetti della sua grande figura che si proietta in una luce sfavillante al di sopra dell’Oriente, di Roma e delle Gallie : la verità della sua dottrina, la sua opera evangelizzatrice, il suo martirio. La Verità della sua Dottrina è fatta dalla sua fedeltà alla Tradizione della Chiesa primitiva, della sua scienza teologica e del suo zelo di difendere “contro gli Eretici”, la fede tale come l’ha insegnata Cristo, tale come l’hanno trasmessa gli Apostoli. Questo non è un aspetto secondario dell’esistenza d’Ireneo e della storia religiosa della Francia quello della formazione cristiana del futuro Vescovo di Lione sia stata assicurata da un Policarpo, vescovo di Smirne, lui stesso discepolo dell’Apostolo Amatissimo, San Giovanni. La lunga frequentazione di Maria presso San Giovanni a Gerusalemme, dopo il Calvario, lo scambio di vedute tra la Madre di Gesù ed il suo Apostolo prediletto, danno alla figliolanza spirituale di Ireneo un aspetto d’una tradizione mariana ed evangelica d’un prezzo incomparabile. La Chiesa di Lione, il suo irradiamento sulle prime chiese di Francia saranno state marcate da delle influenze d’un carattere eccezionale.
Opera pacificatrice nella Chiesa, ecco il secondo compito della dottrina d’Ireneo, dei suoi scritti, delle sue predicazioni, di tutto il suo apostolato. La propensione dell’uomo all’errore, le sue discussioni, intorno alla fede non mancano d’impressionare il pensatore sganciato da cattive passioni. In piena persecuzione, di fronte ad una Chiesa che si sta formando in mezzo alla lotta ed alla sofferenza, alcuni spiriti sono alla ricerca di novità, d’interpretazioni strane dai testi, di opposizioni a delle tradizioni vive della Chiesa di Dio, d’indocilità evidente di fronte ai capi religiosi. San Paolo se n’era già lamentato. Verso la fine del II secolo, Ireneo non solo rifiuta le eresie ma s’avvera già un campione dell’unità della fede, il campione del Papato, del Vescovo di Roma.
Il martirio venne a perfezionare, nel 202, ai primi inizi del III secolo, questa bella vita di vescovo e di apostolo, dando alla Chiesa di Lione e, da essa, alle chiese fondate dalle cure dei suoi vescovi, un esempio magnifico della forza e della fedeltà nella fede.
Signore, vi sono nella vita di fede, così costantemente reclamata da voi, da parte dei vostri discepoli, due elementi che ne fanno il profondo e soprannaturale valore : sono la forza e la purezza. Forza della fede in una certezza ed una convinzione che escludono il dubbio, l’esitazione, la minimizzazione delle nude verità. Purezza della fede nel rigetto delle teorie sballate dottrinalmente, dei sentimenti che alterano o corrompono il contenuto divino di queste stesse verità.
La Chiesa conta, tra i più antichi santi dei suoi primi secoli, autentici rappresentanti del suo vero spirito di fede. Sant’Ireneo è certamente uno di questi grandi avi spirituali della Francia, ch’egli ha segnato profondamente col suo sapere, con la sua fedeltà nella dottrina, con la sua santità di vita. Ireneo muore il 28 giugno del 202 durante le persecuzioni che i cristiani subirono sotto l’imperatore Settimio Severo. La Chiesa lo venera come martire in seguito alla testimonianza lasciateci da san Girolamo che per primo nel 410 gli conferì questo titolo.

Autore: Don Marcello Stanzione

***

Passo tratto dall Adversus haereses (Contro le eresie) di Sant'Ireneo, vescovo [4, 20, 5-7 (SC 100, 640-642. 644-648)].

"La gloria di Dio dà la vita; perciò coloro che vedono Dio ricevono la vita. E per questo colui che é inintelligibile, incomprensibile e invisibile, si rende visibile, comprensibile e intelligibile dagli uomini, per dare la vita a coloro che lo comprendono e vedono. E' impossibile vivere se non si é ricevuta la vita, ma la vita non si ha che con la partecipazione all'essere divino. Orbene tale partecipazione consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà. Gli uomini dunque vedranno Dio per vivere, e verranno resi immortali e divini in forza della visione di Dio. Questo, come ho detto prima, era stato rivelato dai profeti in figura, che cioé Dio sarebbe stato visto dagli uomini che portano il suo Spirito e attendono sempre la sua venuta. Così Mosé afferma nel Deuteronomio: Oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l'uomo e l'uomo aver la vita (cfr. Dt 5, 24). Colui che opera tutto in tutti nella sua grandezza e potenza, é invisibile e indescrivibile a tutti gli essere da lui creati, non resta però sconosciuto; tutti infatti, per mezzo del suo Verbo, imparano che il Padre é unico Dio, che contiene tutte le cose e dà a tutte l'esistenza, come sta scritto nel vangelo: "Dio nessuno lo ha mai visto; proprio il Figlio Unigenito, che é nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1, 18). Fin dal principio dunque il Figlio é il rivelatore del Padre, perché fin dal principio é con il Padre e ha mostrato al genere umano nel tempo più opportuno le visioni profetiche, la diversità dei carismi, i ministeri e la glorificazione del Padre secondo un disegno tutto ordine e armonia. E dove c'é ordine c'é anche armonia, e dove c'é armonia c'é anche tempo giusto, e dove c'é tempo giusto c'è anche beneficio. Per questo il Verbo si é fatto dispensatore della grazia del Padre per l'utilità degli uomini, in favore dei quali ha ordinato tutta l'economia della salvezza, mostrando Dio agli uomini e presentando l'uomo a Dio. Ha salvaguardato però l'invisibilità del Padre, perché l'uomo non disprezzi Dio e abbia sempre qualcosa a cui tendere. Al tempo stesso ha reso visibile Dio agli uomini con molti interventi provvidenziali, perché l'uomo non venisse privato completamente di Dio, e cadesse così nel suo nulla, perché l'uomo vivente é gloria di Dio e vita dell'uomo é la visione di Dio. Se infatti la rivelazione di Dio attraverso il creato dà la vita a tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più la rivelazione del Padre che avviene tramite il Verbo é causa di vita per coloro che vedono Dio"

lunedì 27 giugno 2011

Traccia di Riflessione: Corpus Domini (A)

Angelus di Papa Benedetto XVI - 26 Giugno 2011


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
 Domenica, 26 giugno 2011


Cari fratelli e sorelle!

Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra il Corpus Domini, la festa dell’Eucaristia, il Sacramento del Corpo e Sangue del Signore, che Egli ha istituito nell’Ultima Cena e che costituisce il tesoro più prezioso della Chiesa. L’Eucaristia è come il cuore pulsante che dà vita a tutto il corpo mistico della Chiesa: un organismo sociale tutto basato sul legame spirituale ma concreto con Cristo. Come afferma l’apostolo Paolo: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17). Senza l’Eucaristia la Chiesa semplicemente non esisterebbe. E’ l’Eucaristia, infatti, che fa di una comunità umana un mistero di comunione, capace di portare Dio al mondo e il mondo a Dio. Lo Spirito Santo, che trasforma il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, trasforma anche quanti lo ricevono con fede in membra del corpo di Cristo, così che la Chiesa è realmente sacramento di unità degli uomini con Dio e tra di loro.

In una cultura sempre più individualistica, quale è quella in cui siamo immersi nelle società occidentali, e che tende a diffondersi in tutto il mondo, l’Eucaristia costituisce una sorta di “antidoto”, che opera nelle menti e nei cuori dei credenti e continuamente semina in essi la logica della comunione, del servizio, della condivisione, insomma, la logica del Vangelo. I primi cristiani, a Gerusalemme, erano un segno evidente di questo nuovo stile di vita, perché vivevano in fraternità e mettevano in comune i loro beni, affinché nessuno fosse indigente (cfr At 2,42-47). Da che cosa derivava tutto questo? Dall’Eucaristia, cioè da Cristo risorto, realmente presente in mezzo ai suoi discepoli e operante con la forza dello Spirito Santo. E anche nelle generazioni seguenti, attraverso i secoli, la Chiesa, malgrado i limiti e gli errori umani, ha continuato ad essere nel mondo una forza di comunione. Pensiamo specialmente ai periodi più difficili, di prova: che cosa ha significato, ad esempio, per i Paesi sottoposti a regimi totalitari, la possibilità di ritrovarsi alla Messa domenicale! Come dicevano gli antichi martiri di Abitene: “Sine Dominico non possumus” – senza il “Dominicum”, cioè senza l’Eucaristia domenicale non possiamo vivere. Ma il vuoto prodotto dalla falsa libertà può essere altrettanto pericoloso, e allora la comunione con il Corpo di Cristo è farmaco dell’intelligenza e della volontà, per ritrovare il gusto della verità e del bene comune.

Cari amici, invochiamo la Vergine Maria, che il mio Predecessore, il beato Giovanni Paolo II ha definito “Donna eucaristica” (Ecclesia de Eucharistia, 53-58). Alla sua scuola, anche la nostra vita diventi pienamente “eucaristica”, aperta a Dio e agli altri, capace di trasformare il male in bene con la forza dell’amore, protesa a favorire l’unità, la comunione, la fraternità.

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle, anche oggi ho la gioia di annunciare la proclamazione di alcuni nuovi Beati. Ieri, a Lubecca, sono stati beatificati Johannes Prassek, Eduard Müller ed Hermann Lange, uccisi dai nazisti nel 1943 ad Amburgo. Oggi, a Milano, è la volta di Don Serafino Morazzone, parroco esemplare nel Lecchese tra XVIII e XIX secolo; di Padre Clemente Vismara, eroico missionario del PIME in Birmania; e di Enrichetta Alfieri, Suora della Carità, detta “angelo” del carcere milanese di San Vittore. Lodiamo il Signore per questi luminosi testimoni del Vangelo!

In questa domenica che precede la solennità dei Santi Pietro e Paolo si celebra in Italia la Giornata per la carità del Papa. Desidero ringraziare vivamente tutti coloro che, con la preghiera e con le offerte, danno il loro appoggio al mio ministero apostolico e di carità. Grazie! Il Signore vi ricompensi!

[[Saluti in varie lingue: Je salue les pèlerins francophones, particulièrement les anciens élèves de l’Institut Saint-Dominique de Rome. En ce jour, de nombreux pays célèbrent la Solennité du Saint-Sacrement du Corps et du Sang du Christ. Nous avons toujours à redécouvrir le don inouï de son Fils que Dieu nous fait dans l’Eucharistie en participant chaque dimanche à la messe. Faisons une large place à l’adoration eucharistique ! « Le Seigneur est là, dans le sacrement de son amour, il nous attend jour et nuit », répétait le saint Curé d’Ars. Puisons à cette source d’amour et de pardon la force de conformer toujours plus notre vie à l’Evangile ! Tant de chrétiens aujourd’hui lui rendent témoignage jusqu’au don de leur vie. Que notre prière fraternelle les soutienne sans relâche !

I am happy to welcome all the English-speaking pilgrims and visitors, particularly the group from Saint Fidelis Parish in Toronto. In many places today the Church celebrates the Solemnity of the Body and Blood of Christ. May our hearts rejoice in the great gift of Jesus, the Bread of Life, who has given himself for us and has come to nourish us. As we open our hearts to others and walk the path of life, may he always sustain and guide us. God bless you all!

Von Herzen heiße ich alle deutschsprachigen Pilger und Besucher auf dem Petersplatz willkommen. Zugleich geht mein Gruß an die Gläubigen des Erzbistums Hamburg, die gestern die Seligsprechung der „Lübecker Märtyrer“ gefeiert haben. Die katholischen Kapläne Johannes Prassek, Hermann Lange und Eduard Müller sowie der evangelische Pastor Karl Friedrich Stellbrink haben mit ihrem gemeinsam getragenen Leiden im Gefängnis bis zu ihrer Hinrichtung im Jahre 1943 ein großartiges, auch ökumenisches Zeugnis der Menschlichkeit und der Hoffnung gegeben. Es ist beeindruckend, wie sie in ihren Kerkerzellen stets den Blick zum Himmel gerichtet haben. So hat Johannes Prassek geschrieben: „Wie ist Gott so gut, daß er mir alle Furcht nimmt und die Freude und die Sehnsucht schenkt“. Lassen wir uns von ihrem Gottvertrauen anstecken und bringen wir das Evangelium der Liebe zu den Menschen unserer Zeit. Der Herr begleite unser Reden und unser Tun.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana, en particular a los miembros de la Asociación de la Medalla Milagrosa, así como a los directivos de la Radiotelevisión “El sembrador por la nueva evangelización”. En la solemnidad del Santísimo Cuerpo y Sangre de Cristo, la Iglesia hace memoria agradecida del don de la Eucaristía y la adora con devoción. Que nuestros corazones se abran con humildad ante Jesús Sacramentado, para que, transformados por su gracia, seamos testigos valientes de su amor por todos los hombres. Que Dios os bendiga.

Słowo pozdrowienia kieruję do wszystkich Polaków, a szczególnie do Episkopatu Polski i wiernych, uczestników jubileuszu 600-lecia konsekracji katedry włocławskiej. W modlitwie polecam was Najświętszej Maryi Pannie Wniebowziętej, Patronce katedry. Niech wymowne dzieje tej świątyni będą dla wszystkich zachętą do trwania w wierze Ojców i świadczenia o Chrystusie w codziennym życiu. Z serca wam błogosławię.

[Il mio saluto va a tutti i Polacchi e, in modo particolare, all'Episcopato polacco e ai fedeli, partecipanti alla celebrazione del Giubileo del 600° anniversario della consacrazione della Cattedrale di Włocławek. Nella preghiera vi raccomando tutti alla Beata Vergine Maria, Assunta al Cielo, a cui essa è intitolata. La storia eloquente di questo tempio sia per tutti incoraggiamento a perseverare nella fede dei Padri e nella testimonianza resa a Cristo nella vita di ogni giorno. Vi benedico di cuore.]]

Infine, saluto con affetto i pellegrini italiani, in particolare il gruppo dell’associazione “Laici Betlemiti”. A tutti voi auguro una buona domenica, una buona settimana. Buona Festa dei Santi Pietro e Paolo. Buona domenica a tutti voi!

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 26 giugno 2011

Video Vangelo: Corpus Domini

Frammento d'infinito


CORPUS DOMINI
( Gv 6,51-58) 

Abbiamo visto che essere Trinità è essere comunione. Se Dio fosse solo uno e non trino, avrebbe già “dato le dimissioni” perché se fosse solo, essendo eterno, sarebbe una solitudine eterna. Terribile! Ma Dio è trino, oltre che uno. Il Padre è essere sussistente, il Figlio è sapienza sussistente e lo Spirito è amore sussistente, ma non tengono nulla per loro e mettono tutto in comune. “Tutto ciò che il Padre possiede è mio” e tutto ciò che il Figlio possiede è nostro (ci dà addirittura il Suo Spirito).
Il Padre è tutto versato nel Figlio e il Figlio è talmente fuori di sé da essere addirittura in un pezzo di pane . L’infinito si fa frammento, il tutto si fa particella per potersi donare a noi. Dio sconcertante: la potenza si fa debolezza, il Creatore si fa creatura e quella creatura unica al mondo, cioè l’Uomo-Dio, si fa pane. Più scendere di così, più annientarsi di così, più eliminare ogni distanza non si può! E così da deformi ci rende deiformi.
“Essendo eterno ed incorruttibile Tu rendi incorruttibili quelli che mangiano Te, e li porti all’eternità con la smisurata efficacia che ti è naturale”( Filocalia)

• Tutti mendicanti

Gesù nell’Eucaristia è presente non come una cosa, ma come una Persona, cioè come un “Io” che si dona a un “tu”, quindi c’è comunione di persone, incontriamo veramente Qualcuno.
Quando andiamo alla Comunione tendendo la mano per ricevere il Signore della vita, siamo come dei mendicanti che tendono la mano per chiedere la carità del Pane di vita eterna, siamo il povero che tutto riceve, anzi riceve il Tutto: una carica esplosiva straordinaria, un fuoco ardente e incendiante. Eppure non bruciamo e non sentiamo la scossa! Non è normale non sentire che il fuoco brucia, e che la corrente dà la scossa. Siamo troppo protetti dall’irruzione di Dio. “C’è troppo isolante in noi” (diceva P. Cantalamessa), cioè troppa indifferenza, troppo poca consapevolezza di CHI stiamo per ricevere, troppa sterpaglia e rovi (= gli affanni a gli affari del mondo e le preoccupazioni della vita) che ci impediscono di essere raggiunti da questa forza ad altissima tensione che ci attraversa.

• Nella Comunione Gesù viene in noi…

Il Cristo si riversa in noi come una forza e un liquore inebriante che dovrebbe trasformaci totalmente, e noi non ce ne accorgiamo neanche, rimaniamo tali e quali con le nostre tristezze e pesantezze, invece di fare l’esperienza dell’ebbrezza dello Spirito. Dobbiamo chiedere la grazia di ridiventare normali: di sentire il fuoco bruciare e la scossa scuotere!
Nella Consacrazione, il sacerdote consacra tante piccole ostie assieme a quella grande, fatte di pane azzimo, cioè non fermentato perché senza lievito. Le piccole ostie siamo noi e dobbiamo diventare pure noi pani azzimi, cioè senza lievito di malizia, di vanagloria e di tutto quello che fermenta e fa gonfiare smisuratamente il nostro io che accaparra tutto e ci impedisce di essere attenti al Tu che riceviamo nell’ostia consacrata. E ci impedisce di sentire la scossa.
Il culto eucaristico poi, non si esaurisce nella Comunione: c’è anche l’adorazione a Gesù presente nel Tabernacolo. E’ infatti un bellissimo gesto quello di andare a salutare Gesù presente nel tabernacolo, ogni volta che passiamo davanti ad una chiesa o fare l’adorazione ogni volta che ne abbiamo l’opportunità. E’ come esporsi ai raggi potentissimi del nostro Sole divino .

• …ma poi vuole uscire

E dopo saremo anche noi come piccoli Soli, come dice Dionigi l’Areopagita, che prima si sono riempiti di splendore irradiato e poi lo trasmettono agli altri. E’quello il momento di liberare il “divino prigioniero” e darlo a piene mani agli altri, con gesti di bontà e di carità, altrimenti lo teniamo agli arresti domiciliari, o perlomeno in “libertà vigilata” e gli facciamo anche fare brutta figura non comportandoci come Lui si comporterebbe. Per non oscurare la Sua presenza in noi, chiediamogli questa grazia, impegnativa certo, ma Lui può questo e altro: ”Chi guarda me, veda Te”. Sempre!

Wilma Chasseur

 

sabato 25 giugno 2011

Valore della vita

In difesa della vita - Evangelium vitae - XVIII

Torna l'appuntamento con la Lettera Enciclica "Evangelium vitae", in difesa della vita. Il tema odierno è molto attuale e si incastona in un contesto storico in cui va sempre più diffondendosi la cultura della morte in senso "eutanasico", tanto per usare un neologismo. Infatti, l'eutanasia è l'argomento del millennio in quanto essa consiste nel porre fine alle sofferenze di un malato, semplicemente lasciandolo morire, volgarmente conosciuto come il fenomeno di staccare la spina. 
Il tema del passo che ci accingiamo a leggere è proprio incentrato sul valore della vita nella vecchiaia e nella sofferenza, quando quasi inevitabilmente si pongono le domande sul perché continuare a vivere una vita che sembra non avere più alcun senso. Il beato Giovanni Paolo II, testimone vero della sofferenza e del dolore, ci ricorda che non siamo padroni della nostra vita e che dobbiamo lasciare che si compia la Volontà dell'Altissimo: 





«Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice"«(Sal 116/115, 10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza

46. Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza, sarebbe anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un espresso riferimento all'attuale problematica del rispetto delle persone anziane e malate e un'esplicita condanna dei tentativi di anticiparne violentemente la fine: siamo infatti in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da simile tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella sua saggezza ed esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la società.

La vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione (cf. 2 Mac 6, 23). E il giusto non chiede di essere privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario così egli prega: «Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi, finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie» (Sal 71/70, 5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto come quello in cui «non ci sarà più... un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni» (Is 65, 20).

Ma, nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della vita? Come atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa che la sua vita sta nelle mani di Dio: «Signore, nelle tue mani è la mia vita» (cf. Sal 16/15, 5), e da lui accetta anche il morire: «Questo è il decreto del Signore per ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo?» (Sir 41, 4). Come della vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al «volere dell'Altissimo», al suo disegno di amore.

Anche nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in lui che «guarisce tutte le malattie» (cf. Sal 103/102, 3). Quando ogni orizzonte di salute sembra chiudersi di fronte all'uomo — tanto da indurlo a gridare: «I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco» (Sal 102/101, 12) —, anche allora il credente è animato dalla fede incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma all'invocazione piena di speranza: «Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" (Sal 116/115, 10); «Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba» (Sal 30/29, 3-4).

47. La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate, indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo. «Medico della carne e dello spirito»,37 Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri e a sanare i cuori affranti (cf. Lc 4, 18; Is 61, 1). Inviando poi i suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella quale la guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo: «E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10, 7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18).

Certo, la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai suoi (cf. Gv 10, 15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cf. Mc 6, 17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7, 59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall'inizio.

Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).

venerdì 24 giugno 2011

Natività di San Giovanni Battista

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Quarantaquattresimo appuntamento

Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Sorella povertà: oggi vediamo come San Pio abbia voluto come compagna di vita la stessa povertà anelata da San Francesco. C'è davvero una grande simiglianza tra i due e notiamo anche oggi come San Francesco rappresentava davvero un esempio da seguire per il frate di Pietrelcina:

XVIII

Temperanza e povertà

La toppa sul vestito

Compagna della temperanza fu per tutta la sua esistenza "sorella povertà". A coloro che gli offrivano qualcosa che potesse rendergli più comoda la vita, Padre Pio rispondeva: «E san Francesco che dirà?». Quando proprio non poteva fare a meno di accettare regali personali, portava immediatamente al padre Guardiano gli indumenti e i soldi ricevuti.

Dai Superiori dipendeva anche per le piccole cose: per esempio, padre Tarcisio Zullo lo vide chiedere all'economo con tutta umiltà qualche franco-

bollo da dare ai poverelli. Come pure conservava l'uso del noviziato di chiedere al Superiore il permesso di farsi la tonsura. Dal canto proprio, ricorda don Nello Castello, egli era sempre attento a non sprecare nulla: «L'ho visto più volte spegnere la luce che qualche confratello aveva lasciata accesa. Ai ricchi raccomandava di fare molta carità, ma lui non chiedeva mai direttamente e l'ho sentito dire: "Sfido chiunque a trovarmi uno a cui abbia chiesto dieci lire"».

A vari confratelli, Padre Pio raccontò un episodio della giovinezza che lo aveva colpito al cuore:

«Una vecchietta, nel corridoio del convento, mi offrì una carta da poche lire, precisando: "Queste le ho risparmiate andando ad accendere il fuoco da una vicina di casa, e così ho risparmiato i soldi per i fiammiferi!". Era l'obolo della vedova del santo Vangelo. Nel vedere la miseria di quella vecchietta, le dissi: "Non l'accetto! Tenetevela per voi: siete più povera di me!". A queste parole la donna reagì in modo inaspettato, dicendo delusa: "Voi non le accettate perché sono poche!". A questo punto allungai la mano verso quella della vecchietta ed esclamai: "Se pensate così, datemele qua! Le voglio!". E afferrai quella carta ed eccola, la porto sempre con me». Dicendo queste parole, il Padre metteva la mano nel taschino dell'abito e cacciava fuori la vecchia banconota ormai tutta sgualcita. Mostrandola all'interlocutore, si commuoveva e commentava: «Vedi i sacrifici della povera gente!».

Anche la cella dove viveva era lo specchio del suo clima di povertà, come si può tuttora vedere visitando il convento di San Giovanni Rotondo. Fino al 1935, ha testimoniato padre Torquato Cavaterri, Padre Pio aveva un saccone di paglia che di quando in quando assestava con un bastone. Più tardi ebbe un materasso di crine, perché così deci

sero i Superiori. Soltanto negli ultimi anni gli fu messo un materasso più moderno e la sua cella venne dotata di un lavandino.

La numero 5 era una delle celle più fredde d'inverno e più afose d'estate. Perciò i Superiori decisero a un certo punto di attrezzarla dapprima con un termosifone e poi con un condizionatore d'aria, donato da un figlio spirituale di Roma. Egli però fece sempre obiezioni a utilizzarli, e in particolare a padre Mariano Paladino diceva: «Come posso presentarmi davanti a san Francesco con questi aggeggi? San Francesco non sarà contento di me...».

Ogni aspetto della quotidianità di Padre Pio "sapeva di povertà". Mentre gli camminava a fianco, don Pierino Galeone notò sull'abito del Padre, al lato destro del petto, una larga toppa, mal rammendata. L'amico sacerdote restò colpito e chiese:

«Padre, chi vi ha fatto quel rammendo? Come sembrate male...». «Io stesso», rispose, «e ho fatto del mio meglio!». Don Galeone tacque, ancor più stupito e ammirato, mentre Padre Pio, sereno e indifferente, continuò a camminare pregando. Senza alcuna vanità, ma per rispetto alla Regola francescana, Padre Pio, ha confermato il signor Giovanni Scarparo, «nel vestito era sempre pulito e in ordine».

La delicatezza del Padre nel non dar fastidio ai confratelli, anche questo un segno di profondo spirito di povertà, ha potuto testimoniarla ancor più eloquentemente padre Innocenzo Cinicola Santoro, al quale nel luglio del 1945 capitò, mentre stava lavando la propria biancheria, di sentirsi dire da Padre Pio: «Beato te che puoi fare da te le cose tue. Io non posso...», e si guardava le mani doloranti.

giovedì 23 giugno 2011

Benedetto XVI: i Salmi, per pregare Dio in Cristo

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 22 Giugno 2011


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
 Mercoledì, 22 giugno 2011


Cari fratelli e sorelle,

nelle precedenti catechesi, ci siamo soffermati su alcune figure dell’Antico Testamento particolarmente significative per la nostra riflessione sulla preghiera. Ho parlato su Abramo che intercede per le città straniere, su Giacobbe che nella lotta notturna riceve la benedizione, su Mosè che invoca il perdono per il suo popolo, e su Elia che prega per la conversione di Israele. Con la catechesi di oggi, vorrei iniziare un nuovo tratto del percorso: invece di commentare particolari episodi di personaggi in preghiera, entreremo nel “libro di preghiera” per eccellenza, il libro dei Salmi. Nelle prossime catechesi leggeremo e mediteremo alcuni tra i Salmi più belli e più cari alla tradizione orante della Chiesa. Oggi vorrei introdurli parlando del libro dei Salmi nel suo complesso.

Il Salterio si presenta come un “formulario” di preghiere, una raccolta di centocinquanta Salmi che la tradizione biblica dona al popolo dei credenti perché diventino la sua, la nostra preghiera, il nostro modo di rivolgersi a Dio e di relazionarsi con Lui. In questo libro, trova espressione tutta l’esperienza umana con le sue molteplici sfaccettature, e tutta la gamma dei sentimenti che accompagnano l’esistenza dell’uomo. Nei Salmi, si intrecciano e si esprimono gioia e sofferenza, desiderio di Dio e percezione della propria indegnità, felicità e senso di abbandono, fiducia in Dio e dolorosa solitudine, pienezza di vita e paura di morire. Tutta la realtà del credente confluisce in quelle preghiere, che il popolo di Israele prima e la Chiesa poi hanno assunto come mediazione privilegiata del rapporto con l’unico Dio e risposta adeguata al suo rivelarsi nella storia. In quanto preghiere, i Salmi sono manifestazioni dell’animo e della fede, in cui tutti si possono riconoscere e nei quali si comunica quell’esperienza di particolare vicinanza a Dio a cui ogni uomo è chiamato. Ed è tutta la complessità dell’esistere umano che si concentra nella complessità delle diverse forme letterarie dei vari Salmi: inni, lamentazioni, suppliche individuali e collettive, canti di ringraziamento, salmi penitenziali, salmi sapienziali, ed altri generi che si possono ritrovare in queste composizioni poetiche.

Nonostante questa molteplicità espressiva, possono essere identificati due grandi ambiti che sintetizzano la preghiera del Salterio: la supplica, connessa al lamento, e la lode, due dimensioni correlate e quasi inscindibili. Perché la supplica è animata dalla certezza che Dio risponderà, e questo apre alla lode e al rendimento di grazie; e la lode e il ringraziamento scaturiscono dall’esperienza di una salvezza ricevuta, che suppone un bisogno di aiuto che la supplica esprime.

Nella supplica, l’orante si lamenta e descrive la sua situazione di angoscia, di pericolo, di desolazione, oppure, come nei Salmi penitenziali, confessa la colpa, il peccato, chiedendo di essere perdonato. Egli espone al Signore il suo stato di bisogno nella fiducia di essere ascoltato, e questo implica un riconoscimento di Dio come buono, desideroso del bene e “amante della vita” (cfr Sap11,26), pronto ad aiutare, salvare, perdonare. Così, ad esempio, prega il Salmista nel Salmo 31: «In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso […] Scioglimi dal laccio che mi hanno teso, perché sei tu la mia difesa» (vv. 2.5). Già nel lamento, dunque, può emergere qualcosa della lode, che si preannuncia nella speranza dell’intervento divino e si fa poi esplicita quando la salvezza divina diventa realtà. In modo analogo, nei Salmi di ringraziamento e di lode, facendo memoria del dono ricevuto o contemplando la grandezza della misericordia di Dio, si riconosce anche la propria piccolezza e la necessità di essere salvati, che è alla base della supplica. Si confessa così a Dio la propria condizione creaturale inevitabilmente segnata dalla morte, eppure portatrice di un desiderio radicale di vita. Perciò il Salmista esclama, nel Salmo 86: «Ti loderò, Signore, mio Dio, con tutto il cuore e darò gloria al tuo nome per sempre, perché grande con me è la tua misericordia: hai liberato la mia vita dal profondo degli inferi» (vv. 12-13). In tal modo, nella preghiera dei Salmi, supplica e lode si intrecciano e si fondono in un unico canto che celebra la grazia eterna del Signore che si china sulla nostra fragilità.

Proprio per permettere al popolo dei credenti di unirsi a questo canto, il libro del Salterio è stato donato a Israele e alla Chiesa. I Salmi, infatti, insegnano a pregare. In essi, la Parola di Dio diventa parola di preghiera - e sono le parole del Salmista ispirato - che diventa anche parola dell’orante che prega i Salmi. È questa la bellezza e la particolarità di questo libro biblico: le preghiere in esso contenute, a differenza di altre preghiere che troviamo nella Sacra Scrittura, non sono inserite in una trama narrativa che ne specifica il senso e la funzione. I Salmi sono dati al credente proprio come testo di preghiera, che ha come unico fine quello di diventare la preghiera di chi li assume e con essi si rivolge a Dio. Poiché sono Parola di Dio, chi prega i Salmi parla a Dio con le parole stesse che Dio ci ha donato, si rivolge a Lui con le parole che Egli stesso ci dona. Così, pregando i Salmi si impara a pregare. Sono una scuola della preghiera.

Qualcosa di analogo avviene quando il bambino inizia a parlare, impara cioè ad esprimere le proprie sensazioni, emozioni, necessità con parole che non gli appartengono in modo innato, ma che egli apprende dai suoi genitori e da coloro che vivono intorno a lui. Ciò che il bambino vuole esprimere è il suo proprio vissuto, ma il mezzo espressivo è di altri; ed egli piano piano se ne appropria, le parole ricevute dai genitori diventano le sue parole e attraverso quelle parole impara anche un modo di pensare e di sentire, accede ad un intero mondo di concetti, e in esso cresce, si relaziona con la realtà, con gli uomini e con Dio. La lingua dei suoi genitori è infine diventata la sua lingua, egli parla con parole ricevute da altri che sono ormai divenute le sue parole. Così avviene con la preghiera dei Salmi. Essi ci sono donati perché noi impariamo a rivolgerci a Dio, a comunicare con Lui, a parlarGli di noi con le sue parole, a trovare un linguaggio per l'incontro con Dio. E, attraverso quelle parole, sarà possibile anche conoscere ed accogliere i criteri del suo agire, avvicinarsi al mistero dei suoi pensieri e delle sue vie (cfr Is 55,8-9), così da crescere sempre più nella fede e nell’amore. Come le nostre parole non sono solo parole, ma ci insegnano un mondo reale e concettuale, così anche queste preghiere ci insegnano il cuore di Dio, per cui non solo possiamo parlare con Dio, ma possiamo imparare chi è Dio e, imparando come parlare con Lui, impariamo l'essere uomo, l'essere noi stessi.

A tale proposito, appare significativo il titolo che la tradizione ebraica ha dato al Salterio. Esso si chiama tehillîm, un termine ebraico che vuol dire “lodi”, da quella radice verbale che ritroviamo nell’espressione “Halleluyah”, cioè, letteralmente: “lodate il Signore”. Questo libro di preghiere, dunque, anche se così multiforme e complesso, con i suoi diversi generi letterari e con la sua articolazione tra lode e supplica, è ultimamente un libro di lodi, che insegna a rendere grazie, a celebrare la grandezza del dono di Dio, a riconoscere la bellezza delle sue opere e a glorificare il suo Nome santo. È questa la risposta più adeguata davanti al manifestarsi del Signore e all’esperienza della sua bontà. Insegnandoci a pregare, i Salmi ci insegnano che anche nella desolazione,anche nel dolore, la presenza di Dio rimane, è fonte di meraviglia e di consolazione; si può piangere, supplicare, intercedere, lamentarsi, ma nella consapevolezza che stiamo camminando verso la luce, dove la lode potrà essere definitiva. Come ci insegna ilSalmo 36: «È in Te la sorgente della vita, alla tua luce vedremo la luce» (Sal 36,10).

Ma oltre a questo titolo generale del libro, la tradizione ebraica ha posto su molti Salmi dei titoli specifici, attribuendoli, in grande maggioranza, al re Davide. Figura dal notevole spessore umano e teologico, Davide è personaggio complesso, che ha attraversato le più svariate esperienze fondamentali del vivere. Giovane pastore del gregge paterno, passando per alterne e a volte drammatiche vicende, diventa re di Israele, pastore del popolo di Dio. Uomo di pace, ha combattuto molte guerre; instancabile e tenace ricercatore di Dio, ne ha tradito l’amore, e questo è caratteristico: sempre è rimasto cercatore di Dio, anche se molte volte ha gravemente peccato; umile penitente, ha accolto il perdono divino, anche la pena divina, e ha accettato un destino segnato dal dolore. Davide così è stato un re, con tutte le sue debolezze, «secondo il cuore di Dio» (cfr 1Sam 13,14), cioè un orante appassionato, un uomo che sapeva cosa vuol dire supplicare e lodare. Il collegamento dei Salmi con questo insigne re di Israele è dunque importante, perché egli è figura messianica, Unto del Signore, in cui è in qualche modo adombrato il mistero di Cristo.

Altrettanto importanti e significativi sono il modo e la frequenza con cui le parole dei Salmi vengono riprese dal Nuovo Testamento, assumendo e sottolineando quel valore profetico suggerito dal collegamento del Salterio con la figura messianica di Davide. Nel Signore Gesù, che nella sua vita terrena ha pregato con i Salmi, essi trovano il loro definitivo compimento e svelano il loro senso più pieno e profondo. Le preghiere del Salterio, con cui si parla a Dio, ci parlano di Lui, ci parlano del Figlio, immagine del Dio invisibile (Col 1,15), che ci rivela compiutamente il Volto del Padre. Il cristiano, dunque, pregando i Salmi, prega il Padre in Cristo e con Cristo, assumendo quei canti in una prospettiva nuova, che ha nel mistero pasquale la sua ultima chiave interpretativa. L’orizzonte dell’orante si apre così a realtà inaspettate, ogni Salmo acquista una luce nuova in Cristo e il Salterio può brillare in tutta la sua infinita ricchezza.

Fratelli e sorelle carissimi, prendiamo dunque in mano questo libro santo, lasciamoci insegnare da Dio a rivolgerci a Lui, facciamo del Salterio una guida che ci aiuti e ci accompagni quotidianamente nel cammino della preghiera. E chiediamo anche noi, come i discepoli di Gesù, «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1), aprendo il cuore ad accogliere la preghiera del Maestro, in cui tutte le preghiere giungono a compimento. Così, resi figli nel Figlio, potremo parlare a Dio chiamandoLo “Padre Nostro”. Grazie

Saluti...

* * *

Rivolgo il mio cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare accolgo con gioia i fedeli della diocesi di Melfi-Rapolla-Venosa, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Gianfranco Todisco, e li esorto ad attingete dall'Eucaristia la forza per essere testimoni del Vangelo della carità, seguendo l'esempio del conterraneo san Giustino de’ Jacobis. Saluto poi con affetto il pellegrinaggio della Congregazione Orionina proveniente da Tortona e da Roma, con l’auspicio che questo incontro sia per tutti stimolo e incoraggiamento ad essere sempre più segni eloquenti dell'amore di Dio e missionari della sua pace. Saluto la Comunità dei Figli del Sacro Cuore di Gesù, qui convenuti con il loro Pastore Mons. Claudio Giuliodori, e li incoraggio a perseverare nei buoni propositi di fedeltà al Vangelo e alla Chiesa.

Saluto, ora, i giovani, i malati e gli sposi novelli. L’esempio e l’intercessione di San Luigi Gonzaga, di cui ieri abbiamo fatto memoria, solleciti voi, cari giovani, a valorizzare la virtù della purezza evangelica; aiuti voi, cari malati, ad affrontare la sofferenza trovando conforto in Cristo crocifisso; conduca voi, cari sposi novelli, a un amore sempre più profondo verso Dio e tra di voi.

Domani, festa del Corpus Domini, come ogni anno celebreremo alle ore 19 la Santa Messa a San Giovanni in Laterano. Al termine, seguirà la solenne processione che, percorrendo Via Merulana, si concluderà a Santa Maria Maggiore. Invito i fedeli di Roma e i pellegrini ad unirsi in questo atto di profonda fede verso l'Eucaristia, che costituisce il più prezioso tesoro della Chiesa e dell'umanità.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 22 giugno 2011

La presenza di Dio

La Summa Teologica - Venticinquesima parte - Se il bene differisca realmente dall'ente

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni: 

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

Il bene in generale

Se il bene differisca realmente dall'ente

Prima parte
Questione 5
Articolo 1
 
SEMBRA che il bene differisca realmente dall'ente. Infatti:
1. Dice Boezio: "nelle cose io scorgo che altra cosa è esser buono, ed altra cosa essere". Dunque il bene e l'ente differiscono realmente.
 
2. Niente è forma di se stesso. Ma il bene, come si ha nel libro De Causis, è determinazione formale dell'ente. Dunque il bene differisce realmente dall'ente.

3. Il bene può essere maggiore o minore; l'ente no. Dunque il bene è realmente distinto dall'ente.

IN CONTRARIO: S. Agostino dice: "In quanto siamo, siamo buoni".

RISPONDO: Il bene e l'ente si identificano secondo la realtà, ma differiscono solo secondo il concetto. Eccone la dimostrazione. La ragione di bene consiste in questo, che una cosa è desiderabile: infatti Aristotele dice che il bene è "ciò che tutte le cose desiderano". Ora è chiaro che una cosa è desiderabile nella misura che è perfetta, perché ogni cosa tende appunto a perfezionare se stessa. Ma in tanto una cosa è perfetta in quanto è in atto: e così è evidente che una cosa in tanto è buona in quanto è ente; l'essere infatti è l'attualità di ogni cosa, come appare da quanto si è detto in antecedenza. E così si dimostra che il bene e l'ente si identificano realmente; ma il bene esprime il concetto di appetibile, non espresso dall'ente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Nonostante che il bene e l'ente siano in realtà l'identica cosa, pure siccome differiscono nel loro concetto, una cosa è detta ente in senso assoluto (simpliciter), ed è detta bene in senso assoluto non alla stessa maniera. Siccome infatti ente indica che qualche cosa è propriamente in atto, e atto dice ordine alla potenza, diremo che una cosa è ente in senso pieno ed assoluto in forza di quell'elemento per cui originariamente viene a distinguersi da ciò che è solo in potenza. E questo è l'essere sostanziale di ogni realtà; quindi una cosa è detta ente in senso pieno e assoluto in forza del suo essere sostanziale. In forza degli atti sopraggiunti invece, si dice che una cosa è ente (secundum quid cioè) in qualche modo; così esser bianco significa essere in quella maniera: in realtà il fatto d'esser bianca non toglie una cosa dalla pura potenza ad esistere, dal momento che l'esser bianca viene ad aggiungersi a una realtà che preesiste già in atto. Il bene invece esprime l'idea di cosa perfetta, vale a dire desiderabile: e per conseguenza include il concetto di cosa ultimata. Perciò si chiama bene in senso pieno e assoluto ciò che si trova in possesso della sua ultima perfezione. Quello invece che non ha l'ultima perfezione che dovrebbe avere, sebbene abbia una certa perfezione in quanto è in atto, non si dice per questo perfetto in senso pieno ed assoluto, e neppure buono in senso pieno ed assoluto, ma solo buono in qualche modo. Così dunque in base all'essere primo e fondamentale, che è l'essere della sua sostanza, una cosa è detta ente in senso pieno ed assoluto e bene in qualche modo, cioè in quanto è una entità; al contrario, secondo la sua ultima attualità una cosa si dice ente in qualche modo, e buona in senso pieno ed assoluto. Quindi allorché Boezio afferma che "nelle cose altro è l'esser buone, altra cosa l'essere", si deve intendere dell'essere e del bene presi entrambi in senso pieno e assoluto: perché in forza dell'atto primo e fondamentale una cosa è ente in senso pieno e assoluto, ed è invece bene in tal senso in forza del suo atto ultimo. Al contrario, in forza della sua prima attualità è bene solo in qualche maniera, e in forza della sua ultima e perfetta attualità è solo in qualche modo ente.

2. Si può dire che il bene è come una forma nuova, in quanto si considera il bene in senso pieno e assoluto il quale consiste nell'ultima attualità.

 3. Ugualmente si risponde alla terza difficoltà; che cioè il bene può dirsi maggiore o minore in base alle attualità (o perfezioni) aggiunte, come potrebbero essere la scienza o la virtù.

martedì 21 giugno 2011

San Luigi Gonzaga

Riscoprire i Santi - San Luigi Gonzaga

Torna anche per questo martedì, l'appunto settimanale volto alla scoperta dei nostri cari Santi! Oggi scopriamo la storia di San Luigi Gonzaga, celebrato proprio in questa giornata dalla Chiesa Cattolica. Religioso, nato da stirpe di principi e a tutti noto per la sua purezza, lasciato al fratello il principato avito, si unì a Roma alla Compagnia di Gesù, ma, logorato nel fisico dall’assistenza da lui data agli appestati, andò ancor giovane incontro alla morte. E' stato dunque testimone di vera fede e di vera carità, capace di sacrificare la propria giovane vita per dar assistenza agli ammalati: sicuramente egli rappresenta un esempio per tutti i giovani del mondo che vivono la loro esistenza egoisticamente e senza fede. Scopriamone la storia attraverso il consueto tratto biografico (tratto dal sito Santi & Beati); a seguire la celebra lettera con cui prese commiato dalla madre:

Il matrimonio dei suoi genitori - il marchese Ferrante Gonzaga e Marta dei conti Tana di Chieri (Torino) - si è celebrato nel palazzo reale di Madrid, perché Ferrante è al servizio di re Filippo II di Spagna. Luigi è poi nato nel castello di famiglia: è il primo di sette figli, erede del titolo e naturalmente con un futuro di soldato. Perciò il padre lo porta in mezzo alla truppa già da bambino. Poi cominciano per lui i soggiorni in varie corti e gli studi.
Nel 1580, dodicenne, Luigi riceve la prima Comunione dalle mani di san Carlo Borromeo. Nel 1581 va a Madrid per due anni, come paggio di corte e studente. È di questa epoca un suo ritratto. Autore è il grande El Greco, che mostra il Luigi autentico (come pochi altri suoi ritratti), e ben diverso dal fragile piagnone raffigurato più tardi da tanta pittura per sentito dire, fuorviata dal fervore maldestro di oratori e biografi: purtroppo la sua austerità di vita (da lui contrapposta alla fiacchezza morale del gran mondo) sarà, per molto tempo, presentata come una sorta di avversione ossessiva nei confronti della donna.
In Spagna, Luigi è brillante alunno di lettere, scienza e filosofia e tiene la tradizionale dissertazione universitaria; insieme, legge testi spirituali e relazioni missionarie, si concentra nella preghiera, decide di farsi gesuita e – malgrado la contrarietà del padre – a 17 anni entra nel noviziato della Compagnia di Gesù a Roma, dove studia teologia e filosofia.
Nel 1589 (a 21 anni) lo mandano a Castiglione delle Stiviere per mettere pace tra suo fratello Rodolfo (al quale ha ceduto i propri diritti di primogenito) e il duca di Mantova. Obiettivo raggiunto: Luigi si muove bene anche in politica, anche se la sua salute è fragile (e le severe penitenze certamente non lo aiutano). Nel ritorno a Roma, un misterioso segnale gli annuncia vicina la morte. È il momento di staccarsi da tante cose. Ma non dalla sofferenza degli altri; non dalla lotta per difenderli. Nel 1590/91 un insieme di mali infettivi semina morte in tutta Roma, stende in 15 mesi tre Papi uno dopo l’altro (Sisto V, Urbano VII, Gregorio XIV) e migliaia di persone. Contro la strage si batte Camillo de Lellis con alcuni confratelli, e così fa Luigi Gonzaga. Ma siccome è malato anche lui da tempo, gli si ordina di dedicarsi ai casi non contagiosi. Però lui, trovato in strada un appestato in abbandono, se lo carica in spalla, lo porta in ospedale, incaricandosi di curarlo. Poi torna a casa e pochi giorni dopo è morto, a 23 anni. "In una commovente lettera, il 10 giugno, egli prese commiato dalla madre" (L. von Pastor).
 Nel 1726, papa Benedetto XIII lo proclamerà santo. Il suo corpo si trova nella chiesa di Sant’Ignazio in Roma, e il capo è custodito invece nella basilica a lui dedicata, in Castiglione delle Stiviere, suo paese natale.

Autore: Domenico Agasso

***

Canterò senza fine le grazie del Signore

Dalla «Lettera alla madre» di san Luigi Gonzaga (Acta SS., giugno, 5, 878)

Io invoco su di te, mia signora, il dono dello Spirito santo e consolazioni senza fine. Quando mi hanno portato la tua lettera, mi trovano ancora in questa regione di morti. Ma facciamoci animo e puntiamo le nostre aspirazioni verso il cielo, dove loderemo Dio eterno nella terra dei viventi. Per parte mia avrei desiderato di trovarmici da tempo e, sinceramente, speravo di partire per esso già prima d'ora.
La carità consiste, come dice san Paolo, nel «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e nel piangere con quelli che sono nel pianto». Perciò, madre illustrissima, devi gioire grandemente perché, per merito tuo, Dio mi indica la vera felicità e mi libera dal timore di perderlo. Ti confiderò, o illustrissima signora, che meditando la bontà divina, mare senza fondo e senza confini, la mia mente si smarrisce. Non riesco a capacitarmi come il Signore guardi alla mia piccola e breve fatica e mi premi con il riposo eterno e dal cielo mi inviti a quella felicità che io fino ad ora ho cercato con negligenza e offra a me, che assai poche lacrime ho sparso per esso, quel tesoro che è il coronamento di grandi fatiche e pianto.
O illustrissima signora, guardati dall'offendere l'infinita bontà divina, piangendo come morto chi vive al cospetto di Dio e che con la sua intercessione può venire incontro alle tue necessità molto più che in questa vita.
La separazione non sarà lunga. Ci rivedremo in cielo e insieme uniti all'autore della nostra salvezza godremo gioie immortali, lodandolo con tutta la capacità dell'anima e cantando senza fine le sue grazie. Egli ci toglie quello che prima ci aveva dato solo per riporlo in un luogo più sicuro e inviolabile e per ornarci di quei beni che noi stessi sceglieremmo.
 Ho detto queste cose solo per obbedire al mio ardente desiderio che tu, o illustrissima signora, e tutta la famiglia, consideriate la mia partenza come un evento gioioso. E tu continua ad assistermi con la tua materna benedizione, mentre sono in mare verso il porto di tutte le mie speranze. Ho preferito scriverti perché niente mi è rimasto con cui manifestarti in modo più chiaro l'amore ed il rispetto che, come figlio, devo alla mia madre.

lunedì 20 giugno 2011

Traccia di Riflessione: Santissima Trinità (A)

Omelia e Angelus di Papa Benedetto XVI - 19 Giugno 2011


VISITA PASTORALE ALLA DIOCESI DI SAN MARINO-MONTEFELTRO

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Stadio di Serravalle - Repubblica di San Marino
Domenica, 19 giugno 2011
Solennità della Santissima Trinità

 
Cari fratelli e sorelle!

E’ grande la mia gioia nel poter spezzare con voi il pane della Parola di Dio e dell’Eucaristia e potervi indirizzare, cari Sammarinesi, il mio più cordiale saluto. Rivolgo uno speciale pensiero ai Capitani Reggenti ed alle altre Autorità politiche e civili, presenti a questa celebrazione eucaristica; saluto con affetto il vostro Vescovo, Mons. Luigi Negri, che ringrazio per le cortesi parole rivoltemi, e, con lui, tutti i sacerdoti e fedeli della diocesi di San Marino-Montefeltro; saluto ciascuno di voi e vi esprimo la mia viva riconoscenza per la cordialità e l’affetto con cui mi avete accolto. Sono venuto per condividere con voi gioie e speranze, fatiche e impegni, ideali e aspirazioni di questa Comunità diocesana. So che anche qui non mancano difficoltà, problemi e preoccupazioni. A tutti voglio assicurare la mia vicinanza ed il mio ricordo nella preghiera, a cui unisco l’incoraggiamento a perseverare nella testimonianza dei valori umani e cristiani, così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della sua popolazione, con la sua fede granitica della quale ha parlato Sua Eccellenza.

Celebriamo oggi la festa della Santissima Trinità: Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, festa di Dio, del centro della nostra fede. Quando si pensa alla Trinità, per lo più viene in mente l’aspetto del mistero: sono Tre e sono Uno, un solo Dio in tre Persone. In realtà Dio non può essere altro che un mistero per noi nella sua grandezza, e tuttavia Egli si è rivelato: possiamo conoscerlo nel suo Figlio, e così anche conoscere il Padre e lo Spirito Santo La liturgia di oggi, invece, attira la nostra attenzione non tanto sul mistero, ma sulla realtà di amore che è contenuta in questo primo e supremo mistero della nostra fede. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono uno, perché amore e l’amore è la forza vivificante assoluta, l’unità creata dall’amore è più unità di un’unità puramente fisica. Il Padre dà tutto al Figlio; il Figlio riceve tutto dal Padre con riconoscenza; e lo Spirito Santo è come il frutto di questo amore reciproco del Padre e del Figlio. I testi della Santa Messa di oggi parlano di Dio e perciò parlano di amore; non si soffermano tanto sul mistero delle tre Persone, ma sull’amore che ne costituisce la sostanza e l’unità e trinità nello stesso momento.

Il primo brano che abbiamo ascoltato è tratto dal Libro dell’Esodo - su di esso mi sono soffermato in una recente Catechesi del mercoledì - ed è sorprendente che la rivelazione dell’amore di Dio avvenga dopo un gravissimo peccato del popolo. Si è appena concluso il patto di alleanza presso il monte Sinai, e già il popolo manca di fedeltà. L’assenza di Mosè si prolunga e il popolo dice: «Ma dov’è rimasto questo Mosé, dov’è il suo Dio?», e chiede ad Aronne di fargli un dio che sia visibile, accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo, invece di questo misterioso Dio invisibile, lontano. Aronne acconsente e prepara un vitello d’oro. Scendendo dal Sinai, Mosè vede ciò che è accaduto e spezza le tavole dell’alleanza, che è già spezzata, rotta, due pietre su cui erano scritte le “Dieci Parole”, il contenuto concreto del patto con Dio. Tutto sembra perduto, l’amicizia subito, fin dall’inizio, già spezzata. Eppure, nonostante questo gravissimo peccato del popolo, Dio, per intercessione di Mosè, decide di perdonare ed invita Mosè a risalire sul monte per ricevere di nuovo la sua legge, i dieci Comandamenti e rinnovare il patto. Mosè chiede allora a Dio di rivelarsi, di fargli vedere il suo volto. Ma Dio non mostra il volto, rivela piuttosto il suo essere pieno di bontà con queste parole: «Il Signore, Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,8). E questo è il Volto di Dio. Questa auto-definizione di Dio manifesta il suo amore misericordioso: un amore che vince il peccato, lo copre, lo elimina. E possiamo essere sempre sicuri di questa bontà che non ci lascia. Non ci può essere rivelazione più chiara. Noi abbiamo un Dio che rinuncia a distruggere il peccatore e che vuole manifestare il suo amore in maniera ancora più profonda e sorprendente proprio davanti al peccatore per offrire sempre la possibilità della conversione e del perdono.

Il Vangelo completa questa rivelazione, che ascoltiamo nella prima lettura, perché indica fino a che punto Dio ha mostrato la sua misericordia. L’evangelista Giovanni riferisce questa espressione di Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (3,16). Nel mondo c’è il male, c’è egoismo, c’è cattiveria e Dio potrebbe venire per giudicare questo mondo, per distruggere il male, per castigare coloro che operano nelle tenebre. Invece Egli mostra di amare il mondo, di amare l’uomo, nonostante il suo peccato, e invia ciò che ha di più prezioso: il suo Figlio unigenito. E non solo Lo invia, ma ne fa dono al mondo. Gesù è il Figlio di Dio che è nato per noi, che è vissuto per noi, che ha guarito i malati, perdonato i peccati, accolto tutti. Rispondendo all’amore che viene dal Padre, il Figlio ha dato la sua stessa vita per noi: sulla croce l’amore misericordioso di Dio giunge al culmine. Ed è sulla croce che il Figlio di Dio ci ottiene la partecipazione alla vita eterna, che ci viene comunicata con il dono dello Spirito Santo. Così, nel mistero della croce, sono presenti le tre Persone divine: il Padre, che dona il suo Figlio unigenito per la salvezza del mondo; il Figlio, che compie fino in fondo il disegno del Padre; lo Spirito Santo - effuso da Gesù al momento della morte - che viene a renderci partecipi della vita divina, a trasformare la nostra esistenza, perché sia animata dall’amore divino.

Cari fratelli e sorelle! La fede nel Dio trinitario ha caratterizzato anche questa Chiesa di San Marino-Montefeltro, nel corso della sua storia antica e gloriosa. L’evangelizzazione di questa terra è attribuita ai Santi scalpellini Marino e Leone, i quali alla metà del III secolo dopo Cristo sarebbero approdati a Rimini dalla Dalmazia. Per la loro santità di vita sarebbero stati consacrati l’uno sacerdote e l’altro diacono dal Vescovo Gaudenzio e da lui inviati nell’entroterra, l’uno sul monte Feretro, che poi prese il nome di San Leo, e l’altro sul monte Titano, che poi prese il nome di San Marino. Al di là delle questioni storiche – che non è nostro compito approfondire – interessa affermare come Marino e Leone portarono nel contesto di questa realtà locale, con la fede nel Dio rivelatosi in Gesù Cristo, prospettive e valori nuovi, determinando la nascita di una cultura e di una civiltà incentrate sulla persona umana, immagine di Dio e perciò portatore di diritti precedenti ogni legislazione umana. La varietà delle diverse etnie – romani, goti e poi longobardi – che entravano in contatto tra loro, qualche volta anche in modo molto conflittuale, trovarono nel comune riferimento alla fede un fattore potente di edificazione etica, culturale, sociale e, in qualche modo, politica. Era evidente ai loro occhi che non poteva ritenersi compiuto un progetto di civilizzazione fino a che tutti i componenti del popolo non fossero diventati una comunità cristiana vivente e ben strutturata e edificata sulla fede nel Dio Trinitario. A ragione, dunque, si può dire che la ricchezza di questo popolo, la vostra ricchezza, cari Sammarinesi, è stata ed è la fede, e che questa fede ha creato una civiltà veramente unica. Accanto alla fede, occorre poi ricordare l’assoluta fedeltà al Vescovo di Roma, al quale questa Chiesa ha sempre guardato con devozione ed affetto; come pure l’attenzione dimostrata verso la grande tradizione della Chiesa orientale e la profonda devozione verso la Vergine Maria.

Voi siete giustamente fieri e riconoscenti di quanto lo Spirito Santo ha operato attraverso i secoli nella vostra Chiesa. Ma voi sapete anche che il modo migliore di apprezzare un’eredità è quello di coltivarla e di arricchirla. In realtà, voi siete chiamati a sviluppare questo prezioso deposito in un momento tra i più decisivi della storia. Oggi, la vostra missione si trova a dover confrontarsi con profonde e rapide trasformazioni culturali, sociali, economiche, politiche, che hanno determinato nuovi orientamenti e modificato mentalità, costumi e sensibilità. Anche qui, infatti, come altrove, non mancano difficoltà e ostacoli, dovuti soprattutto a modelli edonistici che ottenebrano la mente e rischiano di annullare ogni moralità. Si è insinuata la tentazione di ritenere che la ricchezza dell’uomo non sia la fede, ma il suo potere personale e sociale, la sua intelligenza, la sua cultura e la sua capacità di manipolazione scientifica, tecnologica e sociale della realtà. Così, anche in queste terre, si è iniziato a sostituire la fede e i valori cristiani con presunte ricchezze, che si rivelano, alla fine, inconsistenti e incapaci di reggere la grande promessa del vero, del bene, del bello e del giusto che per secoli i vostri avi hanno identificato con l’esperienza della fede. Non vanno, poi, dimenticate la crisi di non poche famiglie, aggravata dalla diffusa fragilità psicologica e spirituale dei coniugi, come pure la fatica sperimentata da molti educatori nell’ottenere continuità formativa nei giovani, condizionati da molteplici precarietà, prima fra tutte quella del ruolo sociale e della possibilità lavorativa.

Cari amici! Conosco bene l’impegno di ogni componente di questa Chiesa particolare nel promuovere la vita cristiana nei suoi vari aspetti. Esorto tutti i fedeli ad essere come fermento nel mondo, mostrandovi sia nel Montefeltro che a San Marino cristiani presenti, intraprendenti e coerenti. I Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose vivano sempre nella più cordiale e fattiva comunione ecclesiale, aiutando ed ascoltando il Pastore diocesano. Anche presso di voi si avverte l’urgenza di una ripresa delle vocazioni sacerdotali e di speciale consacrazione: faccio appello alle famiglie ed ai giovani, perché aprano l’animo ad una pronta risposta alla chiamata del Signore. Non ci si pente mai ad essere generosi con Dio! A voi laici, raccomando di impegnarvi attivamente nella Comunità, così che, accanto ai vostri peculiari compiti civici, politici, sociali e culturali, possiate trovare tempo e disponibilità per la vita della fede, la vita pastorale. Cari Sammarinesi! Rimanete saldamente fedeli al patrimonio costruito nei secoli sull’impulso dei vostri grandi Patroni, Marino e Leone. Invoco la benedizione di Dio sul vostro cammino di oggi e di domani e tutti vi raccomando «alla grazia del Signore Gesù Cristo, all’amore di Dio e alla comunione dello Spirito Santo» (2Cor 13,11). Amen!


ANGELUS

Stadio di Serravalle - Repubblica di San Marino
Domenica, 19 giugno 2011
Solennità della Santissima Trinità

Cari fratelli e sorelle, mentre ci avviamo a concludere questa celebrazione, l’ora del mezzogiorno ci invita a rivolgerci in preghiera alla Vergine Maria. Anche in questa terra, la nostra Madre Santissima è venerata in diversi Santuari, antichi e moderni. A lei affido tutti voi e l’intera popolazione Sammarinese e Montefeltrina, in modo particolare le persone sofferenti nel corpo e nello spirito. Un pensiero di speciale riconoscenza dirigo in questo momento a tutti coloro che hanno cooperato alla preparazione e organizzazione di questa mia visita. Grazie di cuore!

Sono lieto di ricordare che quest’oggi a Dax, in Francia, viene proclamata Beata Suor Marguerite Rutan, Figlia della Carità. Nella seconda metà del secolo diciottesimo, ella lavorò con grande impegno all’Ospedale di Dax, ma, nelle tragiche persecuzioni seguite alla Rivoluzione, fu condannata a morte per la sua fede cattolica e per la sua fedeltà alla Chiesa.

Je participe spirituellement à la joie des Filles de la Charité et de tous les fidèles qui, à Dax, prennent part à la Béatification de Sœur Marguerite Rutan, témoin lumineux de l’amour du Christ pour les pauvres.

Infine, desidero ricordare che domani ricorre la Giornata Mondiale del Rifugiato. In tale circostanza, quest’anno si celebra il sessantesimo anniversario dell’adozione della Convenzione internazionale che tutela quanti sono perseguitati e costretti a fuggire dai propri Paesi. Invito quindi le Autorità civili ed ogni persona di buona volontà a garantire accoglienza e degne condizioni di vita ai rifugiati, in attesa che possano ritornare in Patria liberamente e in sicurezza.

Angelus Domini…

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 19 giugno 2011

Video Vangelo: Santissima Trinità (A)

Vita senza frontiere

Santissima Trinità
(Gv 3,16-18)

Cos’è la SS Trinità? Un Dio fuori di sé per troppo amore, cioè una perfetta comunione di persone che non
rivendicano nulla per sé stesse: tutto ciò che il Padre è (e non solo ha) lo dona al Figlio che è così, la
sapienza sussistente. Tutto ciò che il Figlio ha, non solo la vita, ma il suo stesso Spirito, ce lo dona
continuamente.

• Addizione o moltiplicazione?

Un Dio tutto fuori di sé, cioè non 1+1+1 = 1 (vecchia formula per spiegare la S. Trinità) perché così i conti
non tornano, ma, diceva don Tonino Bello, 1x1x1 = 1. Uno per l’altro, non uno più l’altro.
Guardiamo dunque un po’ da vicino questa sovrabbondanza di vita dalla quale tutto procede, compresi noi
stessi. Perché diciamo sempre: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, cioè primo il Padre,
secondo il Figlio e terzo lo Spirito Santo?
Perché non si potrebbe mai dire che il Figlio è la prima Persona, lo Spirito Santo la seconda e il Padre la
terza? Perché nel mistero trinitario c’è un ordine intrinseco, non cronologico, ma ontologico. Infatti il Padre
non potrà essere che la prima Persona perché è il principio senza principio, Colui che non procede da
nessuno perché non è mai stato creato da nessuno. Esiste da sempre, non ha mai avuto un inizio. Vita senza
frontiere.
Il Figlio o Verbo è la seconda Persona perché procede dal Padre come il raggio procede dal Sole. E’ cioè
della sua stessa natura. Il Verbo o Logos è la conoscenza che Dio ha di sé stesso. Nell’atto di conoscersi,
Dio genera questa seconda Persona che è il Figlio. Quindi deve per forza essere seconda rispetto al Padre, in
ordine all’essere.
Lo Spirito Santo è la terza Persona perché procede, non dalla conoscenza, ma dall’amore reciproco del
Padre e del Figlio, quindi presuppone l’esistenza delle altre due Persone, dal cui amore procede. E deve
perciò essere la terza Persona.
Per cui in principio, non poteva essere che il Padre, l’origine originante di tutto ciò che esiste. Il Figlio viene
in secondo luogo perché procede dalla CONOSCENZA che il Padre ha di sé stesso e lo Spirito Santo viene
in terzo luogo perché procede dall’AMORE del Padre e del Figlio.

• Tutto circola

Dio trino dunque, ma Dio è anche uno: qual è il mistero dell’unità nella Trinità? C’è un’unica sapienza,
un’unica esistenza, un unico amore per tutti e Tre. Cioè: il Padre, il Figlio e Lo Spirito Santo, non hanno
ognuno una propria vita, una propria sapienza , un proprio amore e così per tutti gli attributi, ma c’è una vita
sola che circola ininterrottamente in tutti e Tre e non finisce mai. Noi invece, abbiamo solo un fazzolettino
di esistenza che serve solo a noi: una madre che vede morire il figlio, vorrebbe potergli dare la propria vita
ma non può perché ne ha appena per sé stessa. Come uno scienziato, la sua sapienza, una volta che egli
muore, se la porta via con sé, non può lasciarla in eredità a nessuno. Invece in Dio c’è un’unica sapienza
infinita che è continuamente comunicata ai Tre come c’è un’unica esistenza infinita che circola
ininterrottamente nelle Tre Persone. E la vita eterna sarà che questa esistenza infinita, circolerà anche in
noi: non vivremo più del nostro fazzolettino di esistenza, di sapienza , di carità ecc. ma di quella di Dio che
ci verrà comunicata per l’eternità.

• Vita oltre ogni confine

Altro che vita eterna come riposo eterno o eterna noia! Sarà una sovrabbondanza e un’esplosione di vita
incredibile. Dio Trinità è atto puro, cioè attività continua (basti pensare al Big Bang e all’infinita varietà di
creature che non solo ha creato, ma che mantiene continuamente nell’esistenza) di fronte alla quale, le
nostre povere energie dispiegate fosse anche per andare sulla Luna , sono niente, rispetto alla visione
beatifica: Anzi, tutte le nostre opere, lungi dal non servire più a niente e di essere messe a riposo eterno
appena giunti nell’al di là, sarà proprio dalla contemplazione della SS Trinità che riceveranno la loro totale
realizzazione. La toccata e fuga di Bach, la Pietà di Michelangelo, la conquista del Polo Nord e via di questo
passo fino alle nostre più umili e sconosciute attività, lungi dall’essere messe da parte in un mondo dove si
crede che non ci sarà più nulla da fare, né da costruire, riceveranno solo allora - quando vedremo Dio faccia
a faccia - il loro pieno compimento e sviluppo. Sarà Dio stesso che darà loro quello splendore che noi , mai
riusciremmo a dare loro. La vita eterna è essere abitati dalla Santissima Trinità: è fare l’esperienza degli
orizzonti infiniti dell’anima. L’universo interiore è infinitamente più vasto di quello esteriore (anche se
quest’ultimo si estende per miliardi di anni–luce) perché, una volta abitato da Dio, spariscono tutte le
frontiere.

Pensiero

Volete essere perdonati, guariti e rinnovati come aquile?
Allora ricordatevi sempre di benedire il Signore e di non dimenticare le tante grazie ricevute.
“Benedici il Signore anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici;
egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie,
salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e misericordia.
Egli sazia di beni i tuoi giorni
E tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.
Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore,
Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno”
.
Salmo 103