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domenica 31 luglio 2011

Video vangelo: XVIII Ordinario (A)

Alle sette fonti

(Mt 14,13-21)
XVIII Domenica Tempo Ordinario

La moltiplicazione dei pani è avvenuta in una località sul lago di Tiberiade dove Gesù ha vissuto la maggior parte della sua vita pubblica, località chiamata Tabga che originariamente in greco, significa “7 fonti”, numero che simboleggia la pienezza. Il posto è magnifico, pacificante con quei declivi verdi che scendono fino al lago.

• …si va a piedi

Gesù partì in barca: aveva intenzione di appartarsi per pregare, ma la gente saputolo, partì a piedi e seguì la barca, arrivando addirittura prima, cosicché quando Egli scese vide tantissima gente venuta dalle varie città, apposta per ascoltarlo: 5000 uomini senza contare le donne e i bambini. Folla immensa per quei tempi: bastava a svuotare interi paesi. E Gesù sul far della sera, fece quel famoso gesto di moltiplicare pochi pani e pochi pesci che poi non finivano più…Fatto che deve aver colpito tantissimo se lo riportano tutti e quattro gli evangelisti.
Venne dunque tutto un popolo che portava il peso e la fatica del vivere quotidiano. Venivano con i loro cuori feriti, le loro angosce, i loro malati, sicuri che questo Maestro tutto speciale, li avrebbe sollevati dai loro pesi: non aveva forse detto: ”Venite a me voi che siete affaticati e oppressi “?
E Gesù vide tutta questa pena che ognuno portava in fondo al cuore ed ebbe compassione di loro. E guarì i loro malati e, per loro, moltiplicò i pani e i pesci. PER LORO! Per sé stesso non lo fece, quando dopo i 40 giorni di digiuno al deserto, ebbe fame e il tentatore subdolamente gli disse: ”Dì che queste pietre diventino pani”. Ma Egli rispose: ”Vattene via da me! Non di solo pane vive l’uomo”. Ma ora a questi uomini affamati che ha davanti, non dice ‘non di solo pane vive l’uomo’, ma moltiplica per loro pani e pesci in abbondanza.

• Dov’è Tabga?

Tabga è la parrocchia, la casa, l’ufficio, insomma ogni luogo del tuo vivere quotidiano, dove hai bisogno che il Signore moltiplichi i tuoi pochi pani e pesci… quelli dell’energia, dell’entusiasmo, della pazienza per affrontare la tua battaglia di ogni giorno: ognuno ha il suo fronte dove combattere la buona battaglia e condurla a buon fine. A volte vorresti usare “quintali di insetticida” contro le seccature e i seccatori… mentre ti occorrono quintali di pazienza per vincere la tua battaglia. Tabga, l’unica zona verde, cioè pacifica, vicino all’acqua, dove Dio ti aspetta per moltiplicare le tue riserve esaurite… e ridare pace al tuo cuore.

• Radunate i frammenti

Alla fine Gesù disse: ”Raccogliete i pezzi avanzati” che in greco suona piuttosto “radunate i frammenti”. Il significato è ben diverso: sta ad indicare il nostro essere che, dopo il peccato originale e… post-originale (cioè il nostro), è esploso in mille schegge. Siamo frantumati: abbiamo centomila desideri diversi e, a volte, contrastanti: la volontà vuole una cosa e la sensibilità vuole l’esatto contrario; la ragione dice una cosa, il cuore ne dice un’altra e via di questo passo. Un giorno vogliamo vedere gente, il giorno dopo, no: insomma non sappiamo ciò che vogliamo perché siamo troppo in balia dei nostri alti e bassi. Per sfuggire alla frammentazione dobbiamo fissarci sul bene che fa bene agli altri, non sui nostri comodi che pensiamo ci facciano star bene, ma in realtà ci fanno stare tremendamente scomodi “dentro”. Se rendiamo felici gli altri con un’attenzione, una parola buona, un gesto che magari ci costa anche, poi saremo più felici noi e diffonderemo gioia tutto intorno: ecco la buona novella: questa è vera evangelizzazione. Ma il primo da evangelizzare è il nostro cuore che va liberato da egoismi vari e fatto uscire da sé per renderlo attento all’altro. E così, di colpo, arriveremo in cima alla scala, perché ci saremo fatti anche tanti amici e “chi perde un amico scende di uno scalino” dice un proverbio africano, mentre chi lo trova, sale…

Wilma Chasseur

 

sabato 30 luglio 2011

La tua vita è un dono! Grazie Gesù per ogn talento!

In difesa della vita - Evangelium vitae - XXII

Torna l'appuntamento con la Lettera Enciclica "Evangelium vitae", in difesa della vita. Anche oggi continua l'approfondimento più importante relativo al comandamento fondamentale noto come "non uccidere". Tale comandamento non va, infatti, inteso solo in senso lato, ma bisona guardare alle diverse sfacettature: in sostanza bisogna tener conto di ogni azione che incide sulla vita altrui, ponendola a rischio (aborto ed eutanasia sono le due forme attuali con le quali si può incidere sulla vita altrui). In queste righe, il Beato Giovanni Paolo II ci ricorda come nostro Signore domanderà conto della vita dell'uomo, ritenuta sacra ed inviolabile, all'uomo:  

CAPITOLO III

NON UCCIDERE

LA LEGGE SANTA DI DIO 

«Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo» (Gn 9, 5): la vita umana è sacra e inviolabile

53. «La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente».41 Con queste parole l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di Dio sulla sacralità e inviolabilità della vita umana.

La Sacra Scrittura, infatti, presenta all'uomo il precetto «non uccidere» come comandamento divino (Es 20, 13; Dt 5, 17). Esso — come ho già sottolineato — si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto nell'originaria alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del diluvio, provocato dal dilagare del peccato e della violenza (cf. Gn 9, 5-6).

Dio si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore. Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del comandamento «non uccidere», posto alle basi dell'intera convivenza sociale. Egli è il «goel», ossia il difensore dell'innocente (cf. Gn 4, 9-15; Is 41, 14; Ger 50, 34; Sal 19/18, 15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei viventi (cf. Sap 1, 13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2, 24). Egli, che è «omicida fin da principio», è anche «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44): ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte, presentati come mete e frutti di vita.

54. Esplicitamente, il precetto «non uccidere» ha un forte contenuto negativo: indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente, però, esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che si dona, accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e contraddizioni, ha conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento, preparandosi così al grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento simile a quello dell'amore di Dio; «da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (cf. Mt 22, 36-40). «Il precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento — sottolinea san Paolo — si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te stesso"«(Rm 13, 9; cf. Gal 5, 14). Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il precetto «non uccidere» rimane come condizione irrinunciabile per poter «entrare nella vita» (cf. Mt 19, 16-19). In questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola dell'apostolo Giovanni: «Chiun- que odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (1 Gv 3, 15).

Sin dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa — come testimonia la Didachè, il più antico scritto cristiano non biblico — ha riproposto in modo categorico il comandamento «non uccidere»: «Vi sono due vie, una della vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe!».42

Procedendo nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre unanimemente insegnato il valore assoluto e permanente del comandamento «non uccidere». È noto che, nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi — insieme all'apostasia e all'adulterio — e si esigeva una penitenza pubblica particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida pentito venissero concessi il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale.

venerdì 29 luglio 2011

San Pio da Pietralcina - Preghiera e parola

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Quarantanovesimo appuntamento

 Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Continuiamo a vedere il clima ostile che circondò la vita di Padre Pio e che culminò persino con l'introduzione di un registratore in convento:  
XX

Visitatori e "persecutori" 

Un registratore in convento

Fino al 1960, anche se continuavano le visite di ricognizione a San Giovanni Rotondo di inviati romani, Padre Pio fu lasciato libero di esercitare il ministero sacerdotale e di portare avanti le proprie iniziative. Nella primavera di quell'anno cominciarono i tempi della persecuzione più dura, con l'ingresso in campo di monsignor Umberto Terenzi, parroco del santuario mariano del Divino Amore a Roma.

C'è tuttora il dubbio sulla reale motivazione dell'operato di monsignor Terenzi: la convinzione che Padre Pio tenesse comportamenti scorretti con le figlie spirituali, il rancore per non aver ottenuto da lui un prestito per i lavori in corso presso il suo santuario, il desiderio di fare bella figura con i Superiori vaticani ed essere così nominato vescovo. O forse un intreccio fra tutto ciò.

Fatto sta che, con l'autorizzazione ufficiosa del cardinale Alfredo Ottaviani, responsabile del Sant'Offizio, monsignor Terenzi e alcuni frati registrarono numerose conversazioni di Padre Pio, e in particolare quelle con l'amministratore della Casa Sollievo, Angelo Battisti, e con le cosiddette "pie donne": le figlie spirituali Cleonice Morcaldi, Caterina Giostrelli Telfner e Clementina Belloni. A suo parere, dalle registrazioni emergeva che con il primo Padre Pio trattava discutibili affari della clinica e con le altre il Padre scambiava illecite effusioni.

Una Commissione pontificia esaminerà in seguito quei nastri magnetici (almeno 25, secondo un testimone diretto): come confidò uno dei membri a padre Carmelo Durante, «dall'esame attento e ripetuto delle registrazioni operate non risultò nulla d'incriminabile per Padre Pio». Intanto, però, alle insinuazioni di Terenzi avevano dato credito sia il cardinale Ottaviani che il suo vice, monsignor Pietro Parente, i quali ne parlarono con Giovanni XXIII, chiedendogli di poter inviare un ulteriore visitatore apostolico a San Giovanni Rotondo.

Pure il Ministro generale dei cappuccini, padre Clemente da Milwaukee (anch'egli a conoscenza della vicenda dei registratori), aveva nel frattempo sollecitato un'ispezione della Santa Sede per verificare la correttezza nella gestione amministrativa della Casa Sollievo e per controllare l'equa ripartizione delle offerte fra il convento e la clinica. A tali vicende non era poi estraneo il fallimento del finanziere Giuffrè, in cui la Provincia cappuccina di Foggia aveva perso cifre notevoli, a copertura delle quali era stato chiesto un prestito proprio alla Casa Sollievo.

1130 luglio 1960 giunse a San Giovanni Rotondo il visitatore apostolico monsignor Carlo Maccari, con l'incarico di «regolare alcuni aspetti del funzionamento del convento dei Frati minori cappuccini di Santa Maria delle Grazie in San Giovanni Rotondo e della Casa Sollievo della Sofferenza, nonché di tutte le associazioni e opere dipendenti dai due enti soprannominati».

Durante la cinquantina di giorni della sua presenza nel paese, incontrò nove volte Padre Pio e dieci volte Angelo Battisti, oltre a numerosi cappuccini e a diverse altre persone, fra cui le tre figlie spirituali "incriminate". 115 novembre consegnò al cardinale Ottaviani la relazione di 208 pagine, più due cartelle di documenti. Alcuni anni dopo, per incarico dello stesso Sant'Offizio, monsignor Mario Crovini rilesse e sintetizzò il testo, e il suo commento fu: «La stesura del lavoro è tendenziosa, in quanto procede più come una tesi da dimostrare che come un fatto su cui indagare».

Evidentemente però in quei tempestosi giorni i pareri del Sant'Offizio erano orientati in diverso senso, tanto che, il 31 gennaio 1961, il cardinale Ottaviani firmò la lettera che indicava i sei provvedimenti da eseguire d'urgenza: ricondurre Padre Pio, con la carità voluta dalle sue condizioni di età e di salute, alla regolare osservanza conventuale; interdire ai sacerdoti e ai vescovi di servire la Messa del Padre; variare per quanto possibile l'orario della sua Messa; far rispettare la distanza fra il confessionale di Padre Pio e i fedeli in attesa per la confessione; evitare l'assiduità eccessiva dei devoti, e specialmente delle devote, di San Giovanni Rotondo al confessionale del Padre; inibire al Padre di ricevere donne da solo nel parlatorio del convento o altrove.

Poche settimane dopo, con una lettera del 24 aprile 1961 firmata questa volta dall'assessore monsignor Parente, il Sant'Offizio tornava sull'argomento, ribadendo le precedenti disposizioni e ordinando che «Padre Pio celebri la Messa in mezz'ora o al massimo in quaranta minuti e venga invitato ad ottemperare a questa regola in virtù dell'ubbidienza religiosa e, nel caso di una deprecabile inadempienza, non si escluda l'uso delle pene canoniche».

Soltanto nel 1963, dopo la morte di Giovanni XXIII (3 giugno), cominciò la definitiva riabilitazione di Padre Pio, con la lettera del 20 luglio nella quale il cardinale Ottaviani faceva giungere al Guardiano di San Giovanni Rotondo, padre Rosario d'Aliminusa, l'invito a «essere largo il più possibile» con la gente che andava a vedere Padre Pio. Il 30 gennaio 1964, lo stesso cardinale convocò il Provinciale di Foggia, padre Clemente da Santa Maria in Punta, per comunicargli, su mandato di Paolo VI, che Padre Pio veniva autorizzato a svolgere il proprio ministero in piena libertà.

Ha testimoniato nel processo canonico padre Carmelo Durante: «In un colloquio privato di fine dicembre 19630 inizio 1964, Paolo VI, al termine di una rievocazione degli avvenimenti di San Giovanni Rotondo del 1960, così si espresse: "L'essenziale in tutta questa vicenda è di restituire, immacolata, alla Chiesa la figura di Padre Pio. Tutto il resto è marginale"». Con l'elevazione di Padre Pio all'onore degli altari, l'auspicio di Papa Montini ha finalmente trovato compimento.

Lo vuoi capire che io sono responsabile delle anime che il Signore mi manda e debbo far loro del bene e non del male?». Conferma Giovanni Binda:

«Era capace di rimproverare qualche suo figlio per un piccolo difetto e di abbracciare un grosso peccatore. Il risultato però era che il peccatore si convertiva e il buono cercava di diventare perfetto».

Dalle risposte che Padre Pio diede in gioventù ai "casi di morale" si individua quella che per lui era la figura ideale di confessore: un sacerdote «serio, attento, retto, accorto, molto prudente, fermo, deciso, sicuro, amoroso, paterno, comprensivo, paziente, caritatevole, esperto», che deve «formarsi alla capacità di accoglienza; possedere la capacità di ascolto; esortare a vivere il Vangelo e a rispettare gli insegnamenti della Chiesa; spogliarsi delle proprie idee e presentare la genuina morale cattolica; essere sempre aggiornato per conoscere e quindi tradurre nella pratica le norme morali; avere il coraggio di rettificare le idee e gli atteggiamenti sbagliati dei suoi penitenti esercitando con competenza l'ufficio di maestro».

Quando Padre Pio aveva una fila di molte confessioni, per sbrigarne il più possibile era lui che diceva al penitente: «Tu rispondi sì o no», e gli diceva tutti i peccati che aveva commessi. Il preside Antonio Bianchi una volta reagì: «La formulazione della domanda dimostra che lei già conosce quanto chiede. Senza perder tempo: lei ha chiesto, lei risponda». E il Padre: «Anche il medico nel vedere il malato non dubita della bontà della sua diagnosi. Tuttavia fa parlare il malato per verificare l'esattezza della sua intuizione. Quindi a te, rispondi».

Diversamente dal medico, ha commentato Bianchi, «Padre Pio non domandava per verificare la sua idea: la gioia di ascoltare una risposta aperta e piena di fiducia gli accendeva un ineffabile sorriso e gli illuminava lo sguardo». Se invece i penjtenti gli resistevano, ne soffriva profondamente: «E perché constato la mancanza di disposizioni che sono così accasciato e mi sento tanto male», confidò una sera a padre Rosario da Aliminusa.

giovedì 28 luglio 2011

Giovanni Paolo II - Jesus Christ You are my life

Udienza Generale Beato Giovanni Paolo II - 8 agosto 1990

Continuiamo, in questo mese di sospensione delle Udienze Papali, la lettura approfondita delle Udienze Generali tenute dal Beato Giovanni Paolo II: oggi ci soffermiamo sull'Udienza datata   8 agosto 1990 il cui oggetto concerne ancora la missione del Cristo che è culminata con la Resurrezione: 

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 8 agosto 1990


1. L’apostolo Pietro afferma nella sua prima Lettera: “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli in giusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello Spirito” (1 Pt 3, 18). Anche l’apostolo Paolo afferma la stessa verità nell’introduzione alla Lettera ai Romani, dove si presenta come l’annunziatore del Vangelo di Dio stesso. E scrive: “Questo (il Vangelo) è riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1, 3-4). Al riguardo ho scritto nell’enciclica Dominum et vivificantem (n. 24): “Si può dire così che l’“elevazione” messianica di Cristo nello Spirito Santo raggiunga il suo zenit nella risurrezione, nella quale egli si rivela anche come Figlio di Dio “pieno di potenza””.

Gli studiosi ritengono che in questo passo della Lettera ai Romani - come anche in quello della Lettera di Pietro - sia contenuta una professione di fede precedente, ripresa dai due apostoli dalla fonte viva della prima comunità cristiana. Tra gli elementi di questa professione di fede, si trova l’affermazione che lo Spirito Santo operante nella risurrezione è lo “Spirito di santificazione”. Possiamo dunque dire che il Cristo, che era il Figlio di Dio sin dal momento del suo concepimento nel grembo di Maria per opera dello Spirito Santo, nella risurrezione viene “costituito” come fonte di vita e di santità: “pieno di potenza di santificazione” per opera dello stesso Spirito Santo.

Si rivela così in tutto il suo significato il gesto che Gesù compie la sera stessa del giorno della risurrezione, “il primo dopo il sabato” quando, comparendo agli apostoli, mostra loro le mani e il costato, alita loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 22).

2. A questo proposito, particolare attenzione merita la prima Lettera di Paolo ai Corinzi. Abbiamo visto a suo tempo, nelle catechesi cristologiche, che in essa si trova la prima annotazione storica circa le testimonianze sulla risurrezione di Cristo, che per l’apostolo appartengono ormai alla tradizione della Chiesa: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor 15, 3-5). A questo punto l’apostolo elenca diverse cristofanie che seguirono dopo la risurrezione, ricordando alla fine quella sperimentata da lui stesso.

Si tratta di un testo molto importante che documenta non solo la persuasione dei primi cristiani circa la risurrezione di Gesù, ma anche la predicazione degli apostoli, la tradizione in formazione, e lo stesso contenuto pneumatologico ed escatologico di quella fede della Chiesa primitiva.

Nella sua Lettera, infatti, collegando la risurrezione di Cristo alla fede nell’universale “risurrezione del corpo”, l’apostolo stabilisce il rapporto tra Cristo e Adamo in questi termini: “Il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15, 45). Scrivendo di Adamo che divenne “un’anima vivente” Paolo cita il testo della Genesi (2, 7), secondo cui Adamo “divenne un’anima vivente” grazie all’“alito di vita” che Dio “soffiò nelle sue narici”; Paolo poi sostiene che Gesù Cristo, come uomo risorto, supera Adamo: possiede infatti la pienezza dello Spirito Santo, che in modo nuovo deve dar vita all’uomo così da renderlo un essere spirituale. Se il nuovo Adamo è diventato “spirito datore di vita”, ciò non significa che egli si identifichi come persona con lo Spirito Santo che “dà la vita” (divina), ma che, possedendo come uomo la pienezza di questo Spirito, lo dà agli apostoli, alla Chiesa e all’umanità. È “spirito che dà vita” per mezzo della sua morte e della sua risurrezione, ossia del sacrificio offerto sulla croce.

3. Il testo dell’apostolo fa parte dell’istruzione di Paolo sul destino del corpo umano, di cui è principio vitale l’anima (“psyché” in greco, “nefesh” in ebraico). È un principio naturale, dal quale il corpo appare abbandonato al momento della morte, evento davanti a cui si pone, come problema di esistenza prima ancora che di riflessione filosofica, l’interrogativo sull’immortalità.

Secondo l’apostolo, la risurrezione di Cristo risponde a questo interrogativo con una certezza di fede. Il corpo di Cristo, colmato di Spirito Santo nella risurrezione, è la fonte della nuova vita dei corpi risuscitati: “Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale”. Il corpo “animale” (cioè animato dalla “psyché”) è destinato a scomparire per cedere il posto al corpo “spirituale”, animato dal “pneuma”, lo Spirito, che è principio di nuova vita già durante la presente vita mortale, ma raggiungerà la sua piena efficacia dopo la morte. Allora sarà autore della risurrezione del “corpo animale” nell’integrale realtà del “corpo pneumatico” mediante l’unione con Cristo risuscitato, uomo celeste e “Spirito vivificante” (1 Cor 15, 44. 45-49).

La futura risurrezione dei corpi è dunque legata alla loro spiritualizzazione a somiglianza del corpo di Cristo, vivificato dalla potenza dello Spirito Santo. Questa è la risposta dell’apostolo all’interrogativo che egli stesso si pone: “Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?”. “Stolto! - esclama Paolo -. Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio, o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito . . . così anche la risurrezione dei morti . . .: si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale” (1 Cor 15, 35. 36-44).

4. Secondo l’apostolo, dunque, la vita in Cristo è nello stesso tempo la vita nello Spirito Santo: “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”. La vera libertà si trova in Cristo e nel suo Spirito, “perché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8, 9. 2). La santificazione in Cristo è nello stesso tempo la santificazione nello Spirito Santo. Se Cristo “intercede per noi”, allora anche lo Spirito Santo “intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili . . . Intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8, 34. 26-27).

Come si rileva da questi testi paolini, lo Spirito Santo, che ha agito nella risurrezione di Cristo, già infonde nel cristiano la nuova vita, nella prospettiva escatologica della futura risurrezione. Vi è una continuità tra la risurrezione di Cristo, la vita nuova del cristiano liberato dal peccato e reso partecipe del mistero pasquale, e la futura ricostituzione dell’unità di corpo e anima nella risurrezione da morte: l’autore di tutto lo sviluppo della vita nuova in Cristo è lo Spirito Santo.

5. Si può dire che la missione di Cristo raggiunge veramente il suo zenit nel mistero pasquale, dove lo stretto rapporto tra la cristologia e la pneumatologia si apre, dinanzi allo sguardo del credente e alla ricerca del teologo, sull’orizzonte escatologico. Ma questa prospettiva include anche il piano ecclesiologico: perché “la Chiesa . . . annuncia colui che dà . . . vita: lo Spirito vivificatore; lo annuncia e con lui coopera nel dare la vita. Infatti, se “il corpo è morto a causa del peccato . . ., lo Spirito è vita a causa della giustificazione” (Rm 8, 10), operata da Cristo crocifisso e risorto. E in nome della risurrezione di Cristo la Chiesa serve la vita che proviene da Dio stesso, in stretta unione e in umile servizio allo Spirito” (Dominum et vivificantem, 58).

6. Al centro di questo servizio si trova l’Eucaristia. Questo sacramento, nel quale continua e si rinnova incessantemente il dono redentore di Cristo, contiene nello stesso tempo la vivificante potenza dello Spirito Santo. L’Eucaristia è, dunque, il sacramento nel quale lo Spirito continua a operare e a “rivelarsi” come principio vitale dell’uomo nel tempo e nell’eternità. È sorgente di luce per l’intelligenza e di forza per la condotta, secondo la parola di Gesù a Cafarnao: “È lo Spirito che dà la vita . . . Le parole che vi ho dette (sul “pane che scende dal cielo”) sono spirito e vita” (Gv 6, 63).

mercoledì 27 luglio 2011

Dio è la nostra forza

La Summa Teologica - Ventinovesima parte

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni: 

Prima parte
 Trattato relativo all'essenza di Dio

Il bene in generale

Se la natura del bene consista nel modo, nella specie e nell'ordine
 
Prima parte
Questione 5
Articolo 5

SEMBRA che la natura propria del bene non consista nel modo, nella specie e nell'ordine. Infatti:
1. Il bene e l'ente concettualmente differiscono, come è già stato detto. Ora, modo, specie e ordine sembrano piuttosto appartenere al concetto di ente, poiché si dice nella Scrittura: "tutte le cose (o enti) hai disposto in misura, numero e peso"; e a questi tre elementi si riducono il modo, la specie e l'ordine, come spiega lo stesso S. Agostino, il quale appunto scrive: "La misura determina a ciascuna cosa il suo modo; il numero offre a ogni cosa la sua specie; e il peso trae ogni cosa al suo riposo e alla sua stabilità". Dunque non l'essenza del bene consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.

2. Modo, specie ed ordine sono anch'essi dei beni. Se dunque il bene consiste nel modo, nella specie e nell'ordine, bisogna che ognuna di queste cose abbia e modo e specie e ordine. Si andrebbe così all'infinito.

3. Il male consiste nella privazione del modo, della specie e dell'ordine. Ora, il male non toglie totalmente il bene. Dunque il bene non consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.

4. Non può dirsi cattivo ciò che forma l'essenza del bene. Ora, si dice: malo modo, cattiva specie, ordine difettoso. In essi dunque non può consistere l'essenza del bene.

5. Modo, specie e ordine, derivano dal peso, dal numero e dalla misura com'è evidente dal brano citato di S. Agostino. Ora, non tutte le cose buone hanno numero, peso e misura; S. Ambrogio infatti dice che "la natura della luce consiste nel non essere stata creata in numero, peso e misura". Dunque il bene non consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.

IN CONTRARIO: Scrive S. Agostino: "Queste tre cose: il modo, la specie e l'ordine sono come dei beni generali nelle cose fatte da Dio: per cui, dove queste tre cose sono grandi, vi sono grandi beni; dove piccole, piccoli beni; dove non ci sono, non c'è alcun bene". Ciò non sarebbe se in esse non consistesse l'essenza del bene. Dunque il bene consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.

RISPONDO: Una cosa è detta buona nella misura che è perfetta, perché per questo è desiderabile, come si è dimostrato sopra. Perfetto infatti è ciò cui niente manca stando al modo della sua perfezione. Siccome poi ogni essere è quello che è in forza della sua forma, e siccome ogni forma ha i suoi presupposti e le sue conseguenze necessarie; affinché una cosa sia perfetta e buona è necessario che abbia la sua forma, i prerequisiti di essa e ciò che ne deriva. Ora, ogni forma preesige l'esatta determinazione o commensurazione dei suoi principi tanto materiali che efficienti; e ciò viene espresso dal modo: per cui si dice che la misura predetermina il modo. La forma stessa è indicata dalla specie, perché mediante la forma ogni cosa è costituita nella sua specie. E per questo si dice che il numero fornisce la specie; perché, al dire di Aristotele, le definizioni che esprimono la specie sono come i numeri: come infatti un'unità aggiunta o sottratta cambia la specie del numero, così nelle definizioni una differenza aggiunta o sottratta (cambia la specie della cosa definita). Dalla forma poi deriva la tendenza al fine, o all'azione o ad altre cose di questo genere; perché ogni essere agisce in quanto è in atto, e tende verso ciò che gli si confà secondo la sua forma. Tutto ciò è indicato dal peso e dall'ordine. Cosicché la nozione di bene, come consiste nella perfezione, consiste pure nel modo, nella specie e nell'ordine.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ. 1. Queste tre cose (numero, peso e misura) non accompagnano l'ente se non in quanto è perfetto: e sotto quest'aspetto l'ente è buono o bene.

2. Modo, specie e ordine si dicono beni nella stessa maniera che si dicono enti: non perché essi siano realtà sussistenti, ma perché per mezzo di essi altre cose sono enti e beni. Quindi non è necessario che essi abbiano altri principi per esser buoni. Infatti non son detti buoni come se formalmente fossero buoni per mezzo di altri principi; ma perché per mezzo di essi certe cose sono formalmente buone; come la bianchezza, p. es., non si dice che è un'entità perché è costituita da qualche cosa, ma perché per mezzo di essa una cosa ha un certo modo di essere, vale a dire è bianca.

3. Ogni essere è costituito secondo una certa forma, e perciò a seconda del vario modo di essere di ciascuna cosa, vi sarà un modo, una specie, un ordine: così, un uomo, in quanto uomo, ha un modo, una specie, un ordine; ugualmente in quanto bianco ha una specie, un modo e un ordine; così pure in quanto è virtuoso e sapiente, e così per ogni altro suo attributo. Ora, il male priva di un certo essere, p. es., la cecità priva dell'entità della vista: perciò non toglie ogni modo, specie e ordine, ma soltanto il modo, la specie e l'ordine propri dell'entità della vista.

4. Come spiega S. Agostino: "Ogni modo, in quanto modo, è buono" (e altrettanto può dirsi della specie e dell'ordine); (perciò quando si dice:) "malo modo, cattiva specie, ordine difettoso, si vuole soltanto dire o che in un dato soggetto non ci sono in quel grado in cui ci dovrebbero essere, o che non sono adattati a quelle cose alle quali devono essere adattati; cosicché (modo, specie e ordine) si dicono cattivi perché sono fuori di posto e sconvenienti".

5. La luce è detta da S. Ambrogio senza numero, senza peso e misura, non in senso assoluto, ma in confronto ad altri corpi, perché essa si estende a tutti i corpi; essendo una qualità attiva del primo corpo alterante, cioè del cielo.

martedì 26 luglio 2011

Santi Anna e Gioacchino, il Papa: i nonni tornino a essere presenza viva...

Riscoprire i Santi - Santi Anna e Gioacchino

Torna anche per questo martedì, l'appunto settimanale volto alla scoperta dei nostri cari Santi! Oggi, in occasione della celebrazione dei Santi Anna e Gioacchino, vi riproponiamo la storia di Sant'Anna, Madre della Beata Vergine Maria e nome molto vicino ai fondatori di questo spazio cattolico. Ne riscopriamo la storia, anche se non molto dettagliata, attraverso il consueto tratto biografico (tratto dal sito Santi & Beati); a seguire preghiamo per la sua intercessione:

Nonostante che di s. Anna ci siano poche notizie e per giunta provenienti non da testi ufficiali e canonici, il suo culto è estremamente diffuso sia in Oriente che in Occidente.
Quasi ogni città ha una chiesa a lei dedicata, Caserta la considera sua celeste Patrona, il nome di Anna si ripete nelle intestazioni di strade, rioni di città, cliniche e altri luoghi; alcuni Comuni portano il suo nome.
La madre della Vergine, è titolare di svariati patronati quasi tutti legati a Maria; poiché portò nel suo grembo la speranza del mondo, il suo mantello è verde, per questo in Bretagna dove le sono devotissimi, è invocata per la raccolta del fieno; poiché custodì Maria come gioiello in uno scrigno, è patrona di orefici e bottai; protegge i minatori, falegnami, carpentieri, ebanisti e tornitori.
Perché insegnò alla Vergine a pulire la casa, a cucire, tessere, è patrona dei fabbricanti di scope, dei tessitori, dei sarti, fabbricanti e commercianti di tele per la casa e biancheria.
È soprattutto patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, è invocata nei parti difficili e contro la sterilità coniugale.
Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia) e non è ricordata nei Vangeli canonici; ne parlano invece i vangeli apocrifi della Natività e dell’Infanzia, di cui il più antico è il cosiddetto “Protovangelo di san Giacomo”, scritto non oltre la metà del II secolo.
Questi scritti benché non siano stati accettati formalmente dalla Chiesa e contengono anche delle eresie, hanno in definitiva influito sulla devozione e nella liturgia, perché alcune notizie riportate sono ritenute autentiche e in sintonia con la tradizione, come la Presentazione di Maria al tempio e l’Assunzione al cielo, come il nome del centurione Longino che colpì Gesù con la lancia, la storia della Veronica, ecc.
Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”.
Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili.
L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni.
Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio.
Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”.
Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia ‘prediletta del Signore’”.
Altri vangeli apocrifi dicono che Anna avrebbe concepito la Vergine Maria in modo miracoloso durante l’assenza del marito, ma è evidente il ricalco di un altro episodio biblico, la cui protagonista porta lo stesso nome di Anna, anch’ella sterile e che sarà prodigiosamente madre di Samuele.
Gioacchino portò di nuovo al tempio con la bimba, i suoi doni: dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia.
L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche.
I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio.
Dopo i tre anni Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi, che dicono visse fino all’età di ottanta anni, inoltre si dice che Anna rimasta vedova si sposò altre due volte, avendo due figli la cui progenie è considerata, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, come la “Santa Parentela” di Gesù.
Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di s. Anna.
L’affermazione del culto in Occidente fu graduale e più tarda nel tempo, la sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di s. Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494).
Gioacchino fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta, nel 1913 si stabilì il 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio.
Artisti di tutti i tempi hanno raffigurato Anna quasi sempre in gruppo, come Anna, Gioacchino e la piccola Maria oppure seduta su una alta sedia come un’antica matrona con Maria bambina accanto, o ancora nella posa ‘trinitaria’ cioè con la Madonna e con Gesù bambino, così da indicare le tre generazioni presenti.
Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo.
Dalla santità del frutto, cioè di Maria, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino.

Autore: Antonio Borrelli

Preghiera a Sant'Anna protettrice delle mamme in attesa e dei genitori

O cara sant''Anna che dopo lunga attesa hai prodigiosamnete ottenuto il dono della fecondità e sei diventata madre di Maria, ti preghiamo di vegliare su di noi come nonna del cielo e di insegnarci a leggere e ad amare la parola di Dio nella Bibbia. In particolare assisti le mamme in attesa, che portano in grembo il dono di una vita nuova. Fà che ogni bimbo, gioisamnente accolto, cresca sano di corpo e di mente come Gesù. Rendi i genitori saggi educatori dei loro figli e aiutali in ogni difficoltà coniugale. Ottieni alle nostre famiglie la prosperità e la pace. Dona conforto alle vedove e fà che non manchino ai nonni l''affetto e le cure dei familiari. Tieni per mano i ragazzi, perchè non perdano l''innocenza e fà che i giovani si orientino ai più alti valori umani e cristiani, rifiutando di concedersi alle ingannevoli ebbrezze del nostro tempo. Offri a tutti la sicurezza che deriva da una vita spesa bene, all''insegna della fede che spera e ama, dalla quale dipende la nostra felicità nella vita presente e in quella senza fine. Amen

lunedì 25 luglio 2011

Angelus Papa Benedetto XVI - 24 Luglio 2011

Angelus di Papa Benedetto XVI - 24 Luglio 2011

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
 Domenica, 24 luglio 2011


Cari fratelli e sorelle!

Quest’oggi, nella Liturgia, la Lettura dell’Antico Testamento ci presenta la figura del re Salomone, figlio e successore di Davide. Ce lo presenta all’inizio del suo regno, quando era ancora giovanissimo. Salomone ereditò un compito molto impegnativo, e la responsabilità che gravava sulle sue spalle era grande per un giovane sovrano. Per prima cosa egli offrì a Dio un solenne sacrificio – “mille olocausti”, dice la Bibbia. Allora il Signore gli apparve in visione notturna e promise di concedergli ciò che avrebbe domandato nella preghiera. E qui si vede la grandezza dell'animo di Salomone: egli non domanda una lunga vita, né ricchezze, né l’eliminazione dei nemici; dice invece al Signore: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1 Re 3,9). E il Signore lo esaudì, così che Salomone divenne celebre in tutto il mondo per la sua saggezza e i suoi retti giudizi.

Egli dunque pregò Dio di concedergli “un cuore docile”. Che cosa significa questa espressione? Sappiamo che il “cuore” nella Bibbia non indica solo una parte del corpo, ma il centro della persona, la sede delle sue intenzioni e dei suoi giudizi. Potremmo dire: la coscienza. “Cuore docile” allora significa una coscienza che sa ascoltare, che è sensibile alla voce della verità, e per questo è capace di discernere il bene dal male. Nel caso di Salomone, la richiesta è motivata dalla responsabilità di guidare una nazione, Israele, il popolo che Dio ha scelto per manifestare al mondo il suo disegno di salvezza. Il re d’Israele, pertanto, deve cercare di essere sempre in sintonia con Dio, in ascolto della sua Parola, per guidare il popolo nelle vie del Signore, la via della giustizia e della pace. Ma l’esempio di Salomone vale per ogni uomo. Ognuno di noi ha una coscienza per essere in un certo senso “re”, cioè per esercitare la grande dignità umana di agire secondo la retta coscienza operando il bene ed evitando il male. La coscienza morale presuppone la capacità di ascoltare la voce della verità, di essere docili alle sue indicazioni. Le persone chiamate a compiti di governo hanno naturalmente una responsabilità ulteriore, e quindi – come insegna Salomone – hanno ancora più bisogno dell’aiuto di Dio. Ma ciascuno ha la propria parte da fare, nella concreta situazione in cui si trova. Una mentalità sbagliata ci suggerisce di chiedere a Dio cose o condizioni di favore; in realtà, la vera qualità della nostra vita e della vita sociale dipende dalla retta coscienza di ognuno, dalla capacità di ciascuno e di tutti di riconoscere il bene, separandolo dal male, e di cercare pazientemente di attuarlo e così contribuire alla giustizia ed alla pace.

Chiediamo per questo l’aiuto della Vergine Maria, Sede della Sapienza. Il suo “cuore” è perfettamente “docile” alla volontà del Signore. Pur essendo una persona umile e semplice, Maria è una regina agli occhi di Dio, e come tale noi la veneriamo. La Vergine Santa aiuti anche noi a formarci, con la grazia di Dio, una coscienza sempre aperta alla verità e sensibile alla giustizia, per servire il Regno di Dio. 

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,
Ancora una volta purtroppo giungono notizie di morte e di violenza. Proviamo tutti un profondo dolore per i gravi atti terroristici accaduti venerdì scorso in Norvegia. Preghiamo per le vittime, per i feriti e per i loro cari. A tutti voglio ancora ripetere l’accorato appello ad abbandonare per sempre la via dell’odio e a fuggire dalle logiche del male.

Saluto con particolare affetto i fedeli riuniti a Les Combes, che hanno partecipato alla Santa Messa presieduta dal Card. Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato, presente nonostante il lutto familiare che lo ha colpito. Saluto e ringrazio il Vescovo di Aosta, il Rettor Maggiore dei Salesiani, come pure le Autorità civili e militari della Regione e i benefattori che hanno contribuito a rinnovare l’accogliente residenza. Ricordo con particolare affetto il tempo trascorso in quel luogo incantevole, plasmato dall’amore di Dio Creatore e santificato dalla presenza del Beato Giovanni Paolo II. Ai giovani e ai ragazzi della parrocchia del Beato Pier Giorgio Frassati di Torino e a tutti i villeggianti auguro una serena estate.

{Je suis heureux d’accueillir les pèlerins francophones, ici à Castel Gandolfo, et tout spécialement les membres du camp international des Scouts de la région de Cluses. Dans l’évangile de ce dimanche, Jésus compare le Royaume de Dieu à un trésor caché dans un champ. Comment le découvrir et l’acquérir ? Nous sommes invités à profiter de ce temps des vacances pour rechercher Dieu et lui demander de nous libérer tout ce qui nous encombre inutilement. Demandons donc au Seigneur un cœur intelligent et sage qui saura le trouver. Que l’exemple de la Vierge Marie, nous aide ! Bon dimanche à tous et bonnes vacances !

I am pleased to welcome the English-speaking visitors gathered for this Angelus prayer. In today’s Gospel, the Lord urges us to see the Kingdom of God as the most important thing in our lives, a treasure which will last to life eternal. May we welcome Christ ever more fully into our hearts and allow his grace to transform our lives. Upon you and your families I cordially invoke the joy and peace of God’s heavenly Kingdom!

Gerne heiße ich alle deutschsprachigen Gäste beim Angelusgebet hier in Castel Gandolfo willkommen. In den Schrifttexten des heutigen Sonntags ist die Rede davon, daß es auf ein hörendes, ein verständiges Herz ankommt, das sich von Gottes Wort berühren läßt. Wer bereit ist, auf Gott zu hören, der findet den Weg zum richtigen Leben; der entdeckt in Jesus Christus, dem menschgewordenen Wort, dem Sohn Gottes, den wahren Schatz des Lebens. Der Herr lädt uns ein, ihm unser Herz zu öffnen, sein Wort in unserem Leben Gestalt werden zu lassen und die Freude seiner Gegenwart unseren Mitmenschen weiterzugeben. Gottes Geist geleite euch allezeit.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana. La parábola del tesoro escondido que escuchamos en el Evangelio de hoy, nos recuerda la importancia decisiva y suprema del Señor en nuestra vida, invitándonos a supeditar todo lo demás a este inefable tesoro que Dios ha puesto en nosotros. Que también en esta época veraniega nos cuidemos de fortalecer nuestra fe, sin disipar la atención en aspectos caducos. Que la Virgen María nos ayude a seguir incondicionalmente a su divino Hijo. Feliz domingo.

Pozdrawiam serdecznie obecnych tu Polaków. W dzisiejszej Ewangelii słyszymy przypowieści o skarbie, o perle i o sieci. Przypominają one, że w życiu człowieka najważniejszą sprawą winna być troska o zdobycie królestwa niebieskiego. Jest to zachęta i zarazem nasze zadanie. Pamiętajmy o tym we wszystkich okolicznościach naszego życia: w czasie pracy, modlitwy i odpoczynku. Z serca wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i Polacchi qui presenti. Nel Vangelo di oggi ascoltiamo le parabole del tesoro nascosto, della perla preziosa e della rete. Esse ci ricordano che nella vita dell’uomo la cosa più importante è lo sforzo per acquistare il Regno del cieli. Questo è un invito e nello stesso tempo un nostro impegno. Ricordiamo questo in tutte le circostanze della nostra vita: durante il lavoro, durante la preghiera e nei momenti di riposo. Vi benedico di cuore.]}
***

Desidero rivolgere infine un saluto cordiale ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai cresimandi e al gruppo catechistico della parrocchia di Sant’Egidio Abate in Latronico e alle Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso, riunite per il Capitolo Generale. A tutti estendo l’invito a seguire Gesù, il vero tesoro dell’esistenza quotidiana. Buona domenica a tutti. Grazie di cuore per le vostre preghiere. Il Signore vi benedica.


© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 24 luglio 2011

Video vangelo: XVII ordinario (A)

Caccia al tesoro...

XVII Domenica del tempo ordinario 
(Mt 13,44-52)   
 
Il tema dominante del Vangelo di oggi è ancora quello del regno dei cieli che “è simile a un tesoro nascosto in un campo e a una perla preziosa: l’uomo e il mercante che li trovano, vendono tutti i loro averi per comprarli.

• Perché vendono tutto?

Ma perché vendono tutto? Perché hanno scoperto il “di più”, e hanno scoperto che tutti i loro beni in confronto non valgono niente. Il tesoro nascosto e la perla preziosa, fanno loro scoprire che tutto ciò a cui prima erano attaccati, ora, in confronto, ha solo più sapore di cenere. O, per dirla con san Paolo, è come spazzatura, rispetto al vero bene che è il regno dei cieli.
Ma che cos’è questo “di più”? O meglio: CHI e’? E’ quel Qualcuno che abita dentro di noi e che non siamo noi, e non sono neanche tutte quelle cose a cui siamo visceralmente attaccati e ci sembrano indispensabili per essere felici.
Oggettivamente parlando, il di più è DIO. Egli è il “di più” in quanto a essere (solo Lui è l’essere), in quanto ad amore, in quanto a bene e così per tutti gli attributi.

• Testa da revisionare…

Solo che oggi, abbiamo un’intelligenza malata, che tende a credere che il criterio di verità sia soggettivo: se a uno per esempio piace l’odore e il gusto di pesce avariato, quello è un bene, perché a lui piace così! Invece quello è e rimane un male, perché il pesce avariato ha odore e gusto sgradevole! Semmai sarà la testa di quel tale che va revisionata, perché non è più in grado di percepire l’esattezza degli odori e dei sapori.
Quindi la verità soggettiva, non è una vera e propria verità, ma piuttosto un’opinione che può andare bene per uno, ma può anche non essere condivisa da un altro. Mentre la verità oggettiva, non può non essere condivisa da tutti, perché è vera per tutti. Ed è l’unica che ci vede tutti d’accordo. Per esempio nessuno dirà che la neve non è bianca e non è fredda, perché è effettivamente così.
Ora la verità oggettiva (uguale per tutti) per eccellenza è DIO. Ed è anche il di più per eccellenza.
Egli è l’essere supremamente sapiente, intelligente, onnipotente, amorevole ecc. che ci sia. E nella misura in cui uno fa esperienza di questo “di più”, è chiaro che, per una retta gerarchia dei valori, dà l’importanza più grande a questo di più e vende tutto il resto.

• …e anche il cuore

Ma se si continua a dare la massima importanza al “di meno” che sono i beni perituri, e rimanervi avvinghiati come l’edera al tronco, è chiaro che non si farà mai l’esperienza del di più per il semplice fatto che non interessa e non lo si va a cercare. E allora non siamo neanche nella giusta gerarchia dei valori perché diamo l’importanza più grande a ciò che oggettivamente non ce l’ha.
Ecco perché abbiamo un’intelligenza e un cuore malati. Siamo tutti malati di cuore e di testa = non sappiamo più riconoscere il vero bene e preferirlo a tutti gli altri. Il cuore non sa più –o non vuole più– mettere DIO al primo posto. Gli riserviamo un angolino, o qualche briciola di tempo quando non abbiamo nient’altro da fare. E tutto finisce lì! Ecco perché pure il cuore è da revisionare…
Altro che vendere tutto!… Continuiamo a rimanere dei grandi incompetenti per quanto riguarda il regno di lassù, mentre accumuliamo competenze su competenze e specializzazioni su specializzazioni per tutto ciò che riguarda il regno di quaggiù…
Ed è chiaro che così, non sappiamo gestire bene neanche i beni di quaggiù e neppure noi stessi perché finché non diamo a Dio il primo posto, restiamo nello squilibrio e gli altri beni minori rischiano di darci alla testa. Ma quando avremo messo Dio al primo posto, il rapporto con le cose e con le creature andrà automaticamente a posto da sé, perché le considereremo come un mezzo e non come un fine e saremo finalmente padroni di noi stessi perché finalmente sganciati dalla schiavitù delle cose e dell’avere. E saremo pronti per sperimentare e gustare quel regno dei cieli che è già dentro di noi.

Wilma Chasseur 

sabato 23 luglio 2011

"Non uccidere"!

In difesa della vita - Evangelium vitae - XXI

Torna l'appuntamento con la Lettera Enciclica "Evangelium vitae", in difesa della vita. Il Beato Giovanni Paolo II ci introduce al comandamento che più di tutti tutela la vita: non uccidere. Oggi, purtroppo, ci sono molte forme di omicidio, alcune persino legalizzate e tra queste spicca senza dubbio l'aborto, a cui si tenta di aggiungere anche l'eutanasia. Eppure la Legge Santa di Dio ci trasmette il valore essenziale della vita, da tutelarsi sempre ed in ogni occasione: e noi non siamo solo responsabili della nostra vita, ma anche delle vite altrui ed infatti saremo chiamati a risponderne proprio dinanzi al Tribunale dell'Altissimo: 

CAPITOLO III

NON UCCIDERE

LA LEGGE SANTA DI DIO

«Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17): Vangelo e comandamento

52. «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?"«(Mt 19, 16). Gesù rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento «non uccidere». Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: «Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare..."«(Mt 19, 18).

Il comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. Come tale, costituisce un aspetto essenziale e un elemento irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come «vangelo», ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine nella persona libera e chiede di essere accolto, custodito e valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la vita, Dio esige dall'uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono.

L'uomo, immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e signore. «Dio ha fatto l'uomo — scrive san Gregorio di Nissa — in modo tale che potesse svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a immagine di Colui che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo è re. Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è l'immagine viva che partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino modello».38 Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la terra e a dominare sugli esseri infraumani (cf. Gn 1, 28), l'uomo è re e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se stesso 39 e, in un certo senso, della vita che gli è donata e che egli puó trasmettere mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel rispetto del disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una signoria assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all'amore incommensurabili di Dio. E ciò avviene con l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono dono di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il suo bene, per la custodia della sua dignità personale e per il perseguimento della sua felicità.

Come già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita, l'uomo non è padrone assoluto e arbitro insindacabile, ma — e in questo sta la sua impareggiabile grandezza — è «ministro del disegno di Dio».40

La vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere, come un talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (cf. Mt 25, 14-30; Lc 19, 12-27).

venerdì 22 luglio 2011

Quando nasce un Santo - Omaggio a San Pio da Pietrelcina

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Quarantottesimo appuntamento

Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Continuiamo a vedere il clima ostile che circondò la vita di Padre Pio sino all'impedimento più devastante per lui e cioè il divieto di confessare (ancora una volta grande è la dimostrazione di obbedienza ed umiltà, sia verso i superiori e sia verso Dio):

XX

Visitatori e "persecutori"
 
Una rivoltella puntata sul petto

A dimostrazione del clima che si viveva in quei mesi, al termine della benedizione eucaristica del 10 agosto 1923, mentre Padre Pio stava per rientrare in sacrestia, gli si parò dinanzi un giovane il quale, puntandogli la rivoltella sul petto, gridò:

«Meglio morto per noi che vivo per gli altri». Fortunatamente i fedeli presenti riuscirono a disarmarlo.

Dal 1924 al 1931, si manifestò un'escalation di provvedimenti del Sant'Offizio. Il 24 luglio 1924 ammonì «con più gravi parole i fedeli di astenersi dal mantenere qualunque relazione, sia pure epistolare, a scopo di devozione con Padre Pio». 1115 luglio 1925 ordinò che ogni bimestre il padre Provinciale di Foggia inviasse una relazione su Padre Pio. L'11 luglio 1926 rinnovò ai fedeli il dovere «di astenersi dall'andare a visitarlo, o mantenere con lui relazioni anche semplicemente epistolari».

Fra il 1927 e il 1928 vennero finalmente svolte due visite apostoliche nella diocesi di Manfredonia, a cura dei monsignori Felice Bevilacqua e Giuseppe Bruno, per appurare la verità sul comportamento dell' arcivescovo Gagliardi, dell'arciprete Giuseppe Prencipe e dei canonici Domenico Palla-dino e Michele De Nittis, anch'essi oggetto di accuse da parte di confratelli della zona. In seguito alle due inchieste, monsignor Gagliardi venne costretto alle dimissioni e don Palladino fu allontanato dal paese.

Ciò nonostante, la situazione per Padre Pio non migliorò di molto, tanto che il successore in diocesi, il vescovo Alessandro Macchi, sollecitò nuovamente al Sant'Offizio il trasferimento del Padre.

Il 23 maggio 1931 il Sant'Offizio decise che Padre Pio avrebbe dovuto celebrare da solo, nella cappella interna del convento. La disposizione, che comprendeva anche l'impedimento a confessare, venne attuata dall'li giugno. Ha testimoniato padre Raffaele da Sant'Elia a Pianisi: «Quando gli comunicai la notizia, Padre Pio alzò gli occhi al cielo e disse: "Sia fatta la volontà di Dio". Poi si copri gli occhi con le mani, chinò il capo e più non fiatò».

Cominciò allora una nascosta e spietata lotta fra i nemici di Padre Pio, che desideravano seppellirlo nel silenzio, e i suoi sostenitori, fra i quali spiccava Emanuele Brunatto, che giunse anche al ricatto -minacciando la pubblicazione di un libro nel quale venivano denunciati scandali ed episodi poco edificanti di alcune personalità ecclesiastiche - se il Sant'Offizio non avesse rivisto le proprie posizioni. Nel frattempo era divenuto arcivescovo di Manfredonia monsignor Alfredo Cesarano, il quale cercò, pur fra alterne vicissitudini, di appianare il contrasto.

Il 16 luglio 1933 Padre Pio tornò a celebrare la Messa in pubblico, ma dovettero passare diversi mesi prima che potesse riprendere a confessare gli uomini, il 25 marzo 1934, e le donne, il 12 maggio successivo. Alla figlia spirituale Lucia Iadanza che gli diceva: «Quanto è stato brutto questo periodo»; Padre Pio rispose: «Per voi? E per me?! Gesù mi ha mandato per la salvezza delle anime: che cosa ho fatto in questi tre anni? Ho pregato, ma la preghiera non è sufficiente al compito che mi è stato affidato. Aiutatemi: ho bisogno del vostro aiuto. Chiediamo a Gesù che questo non avvenga più. Gesù ha bisogno di anime. Gesù ha bisogno di salvare anime».

giovedì 21 luglio 2011

Non abbiate paura!!!

Udienza Generale Beato Giovanni Paolo II - 1° giugno 1988

Continuiamo, in questo mese di sospensione delle Udienze Papali, la lettura approfondita delle Udienze Generali tenute dal Beato Giovanni Paolo II: oggi ci soffermiamo sull'Udienza datata 1 Giugno 1988 il cui oggetto concerne la manifestazione e la missione di Gesù Cristo; da sottolineare la conclusione del Beato Giovanni Paolo II che ci ricorda che non saranno altre rivelazioni prima del ritorno di Gesù Cristo:
 

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° giugno 1988


1. “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio . . .” (Eb 1, 1 s). Con queste parole, ben conosciute dai fedeli grazie alla liturgia natalizia, l’autore della lettera agli Ebrei parla della missione di Gesù Cristo, presentandola sullo sfondo della storia dell’antica alleanza. Vi è, da un lato, una continuità tra la missione dei profeti e la missione di Cristo; dall’altro lato però salta subito agli occhi una chiara differenza. Gesù non è soltanto l’ultimo, oppure il più grande tra i profeti: il profeta escatologico, com’era da alcuni chiamato e atteso. Egli si distingue da tutti gli antichi profeti in modo essenziale e supera infinitamente il livello della loro personalità e della loro missione. Egli è il Figlio del Padre, il Verbo-Figlio consostanziale al Padre.

2. Questa è la verità chiave per comprendere la missione di Cristo. Se egli è stato mandato per annunziare la buona novella (il Vangelo) ai poveri, se insieme con lui “è venuto a noi” il Regno di Dio, entrando in modo definitivo nella storia dell’uomo, se Cristo è colui che rende testimonianza alla verità attinta alla sua stessa fonte divina, come abbiamo visto nelle precedenti catechesi, ora possiamo ricavare dal testo della lettera agli Ebrei, appena riportato, la verità che unifica tutti gli aspetti della missione di Cristo: Gesù rivela Dio nel modo più autentico, perché basato sull’unica fonte assolutamente sicura e indubitabile: l’essenza stessa di Dio. La testimonianza di Cristo ha dunque il valore della verità assoluta.

3. Nel Vangelo di Giovanni troviamo la stessa affermazione della lettera agli Ebrei, espressa in modo più conciso. Leggiamo infatti alla fine del prologo: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18).

In questo consiste l’essenziale differenza tra la rivelazione di Dio che si trova nei profeti e in tutto l’Antico Testamento, e quella portata da Cristo che dice di se stesso: “Ora qui c’è più di Giona” (Mt 12, 41). Qui a parlare di Dio è Dio stesso fattosi uomo: “Il Verbo che si fece carne” (cf. Gv 1, 14). Quel Verbo che “è nel seno del Padre” (cf. Gv 1, 18), diventa “la luce vera” (cf. Gv 1, 9), “la luce del mondo” (cf. Gv 8, 12). Lui stesso dice di sé: “Io sono la via, la verità e la vita” (cf. Gv 14, 6).

4. Cristo conosce Dio come il Figlio che conosce il Padre e nello stesso tempo è conosciuto da lui: “Come il Padre conosce me (“ginoskei”) e io conosco il Padre . . .”, leggiamo nel Vangelo di Giovanni (cf. Gv 10, 15), e quasi identicamente nei sinottici: “Nessuno conosce (“epiginoskei”) il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27; cf. Lc 10, 22).

Dunque il Cristo, il Figlio che conosce il Padre, rivela il Padre. E nello stesso tempo il Figlio viene rivelato dal Padre. Gesù stesso, dopo la confessione di Cesarea di Filippo, lo fa notare a Pietro, che lo riconosce come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato - gli dice - ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16, 17).

5. Se l’essenziale missione di Cristo è di rivelare il Padre, che è il “Dio nostro” (cf. Gv 20, 17), nello stesso tempo egli stesso viene rivelato dal Padre come Figlio. Questo Figlio essendo “una cosa sola con il Padre” (Gv 10, 30), può dunque dire: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9). In Cristo Dio è diventato “visibile”: in Cristo si attua la “visibilità” di Dio. Lo ha detto concisamente sant’Ireneo: “La realtà invisibile del Figlio era il Padre, e la realtà visibile del Padre era il Figlio” (S. Irenaei “Adv. haer.”, IV, 6, 6).

Dunque in Gesù Cristo si realizza in tutta la pienezza l’autorivelazione di Dio. Al momento opportuno verrà poi rivelato lo Spirito che procede dal Padre (Gv 15, 26), e che il Padre manderà nel nome del Figlio (cf. Gv 14, 26).

6. Nella luce di questi misteri della Trinità e dell’incarnazione, acquista un adeguato significato la beatitudine proclamata da Gesù per i suoi discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono” (Lc 10, 23-24).

Quasi una viva eco di queste parole del maestro sembra risonare nella prima lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostri mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna . . .), quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 Gv 1, 1-3). Nel prologo del suo Vangelo lo stesso Apostolo scrive, “. . . noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14).

7. In riferimento a questa verità fondamentale della nostra fede, il Concilio Vaticano II nella Costituzione sulla divina rivelazione dice: “La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione” (Dei Verbum, 2). Qui abbiamo la piena dimensione di Cristo, rivelazione di Dio, perché questa rivelazione di Dio è, nello stesso tempo, la rivelazione dell’economica salvifica di Dio nei riguardi dell’uomo e del mondo. In essa, come dice san Paolo a proposito della predicazione degli apostoli, si tratta di “far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo” (Ef 3, 9). È il mistero del piano della salvezza, che Dio ha concepito dall’eternità nell’intimità della vita trinitaria, nella quale ha contemplato, amato, voluto, creato e “ri-creato” le cose del cielo e della terra legandole all’incarnazione e quindi a Cristo.

porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre” (cf. Gv 5, 36; 17, 4). Egli, “col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte, e risuscitarci per la vita eterna”.

“L’economia cristiana, dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà mai e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo” (cf. 1 Tm 6, 14 et Tt 2, 13) (Dei Verbum, 4).

mercoledì 20 luglio 2011

Papa: Siate mediatori di verità, indicando l''unico Dio.

La Summa Teologica - Ventottesima parte

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni: 

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

Il bene in generale 

Se il bene abbia il carattere di causa finale

Prima parte
Questione 5
 Articolo 4

SEMBRA che il bene più che di causa finale rivesta il carattere di altre cause. Infatti: 1. Dice Dionigi: "Il bene è lodato come bellezza". Ora, il bello appartiene alla causa formale. Dunque anche il bene.

2. Il bene è diffusivo del suo essere, come abbiamo dalle parole di Dionigi, dove dice che "il bene è ciò da cui deriva che le cose sussistono e sono". Ora, essere diffusivo è proprio della causa efficiente. Dunque il bene ha il carattere di causa efficiente. 

3. S. Agostino afferma che "noi esistiamo perché Dio è buono". Ora, noi siamo da Dio come da causa efficiente. Dunque il bene ha il carattere di causa efficiente. 

IN CONTRARIO: Aristotele dice che "lo scopo per cui una cosa esiste è come il fine ed il bene di tutto il resto". Quindi il bene ha carattere di causa finale.

 RISPONDO: Bene si dice quanto è comunque desiderato, e ciò implica l'idea di fine; è evidente quindi che il bene presenta il carattere di causa finale. Nondimeno l'idea di bene presuppone l'idea di causa efficiente e quella di causa formale. Noi infatti vediamo che le cose riscontrate come prime nel causare sono le ultime nel causato: p. es., il fuoco, prima di comunicare la sua natura di fuoco, riscalda, sebbene il calore nel fuoco sia dovuto alla sua forma sostanziale. Ora, nell'ordine delle cause, prima si riscontra il bene - il fine - che mette in movimento la causa efficiente; poi, viene l'azione della causa efficiente, che muove alla (nuova) forma; finalmente si ha (nel soggetto) la forma. Nell'effetto causato invece si ha un ordine inverso; cioè, prima si ha la forma, che costituisce l'essere; poi, in questa forma si riscontra una virtù attiva, che appartiene all'essere perfetto (perché, come insegna Aristotele, una cosa è perfetta quando può produrre il suo simile): finalmente segue la ragione di bene, su cui si fonda la perfezione dell'ente.
 
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ. 1. Veramente il bello ed il buono nel soggetto in cui esistono si identificano, perché fondati tutti e due sulla medesima cosa, cioè sulla forma; e per questo il bene viene lodato come bellezza. Ma nel loro concetto proprio differiscono. Il bene riguarda la facoltà appetitiva, essendo il bene ciò che ogni ente appetisce, e quindi ha il carattere di fine, poiché l'appetire è come un muoversi verso una cosa. Il bello, invece, riguarda la facoltà conoscitiva; belle infatti sono dette quelle cose che viste destano piacere. Per cui il bello consiste nella debita proporzione; poiché i nostri sensi si dilettano nelle cose ben proporzionate, come in qualche cosa di simile a loro; il senso infatti come ogni altra facoltà conoscitiva, è una specie di proporzione. E poiché la conoscenza si fa per assimilazione, e la somiglianza d'altra parte riguarda la forma, il bello propriamente si ricollega all'idea di causa formale.

2. Si dice che il bene tende a diffondere il proprio essere (non come causa agente ma) nel senso stesso in cui si dice che il fine muove.

3. L'agente volontario (p. es., l'uomo) si dice buono in quanto ha la volontà buona, perché noi facciamo uso di tutto quello che è in noi mediante la volontà. Quindi non si dice buono un uomo che ha buona intelligenza, ma un uomo che ha buona la volontà. Ora, la volontà ha per proprio oggetto il fine; e quindi la frase (di S. Agostino) "noi esistiamo perché Dio è buono" si riferisce alla causa finale.

martedì 19 luglio 2011

San Camillo de Lellis e i Camilliani nel mondo

Riscoprire i Santi - San Camillo De Lellis

Anche per questo martedì torniamo a riscoprire i nostri amati Santi! Oggi riscopriamo la figura santa di Camillo De Lellis, incarnazione del vero spirito di carità e donazione totale. San Camillo de Lellis fu sacerdote, nato vicino a Chieti in Abruzzo, dopo aver seguito fin dall’adolescenza la vita militare ed essersi mostrato incline ai vizi del mondo, maturò la conversione e si adoperò con zelo nel servire i malati nell’ospedale degli incurabili come fossero Cristo stesso; ordinato sacerdote, fondò a Roma la Congregazione dei Chierici regolari Ministri degli Infermi. Oggi possiamo addentrarci in questa meravigliosa storia attraverso il racconto tratto "RITRATTI DI SANTI" di Antonio Sicari ed. Jaca Book:

Nel 1574, a ventiquattro anni d'età, Camillo De Lellis, d'origine abruzzese, era un uomo finito.

Era nato da una madre molto anziana, " già bianca di capelli e con la faccia crespa " dicono le cronache, tanto che la gioia della gravidanza si mescolava un po' alla vergogna. Aveva sessant'anni. La gente, ricordando il Vangelo, la chiamava S. Elisabetta. E la donna sentiva talmente il miracolo di quella nascita insperata che, quando fu l'ora, e il parto si annunciava assai difficile, scese nella stalla per vedere di far nascere il bambino su una mangiatoia, " come Gesù e S. Francesco ". E lì il bambino nacque la domenica di Pentecoste dell'anno Santo 1550 mentre le campane suonavano a festa al momento della Elevazione. Era un bambino molto più robusto e più alto del normale (da grande sopravvanzerà quasi tutti dalla testa in su) ma la madre aveva anche il cuore stretto a causa della tarda età e di qualche triste premonizione.

Di fatto, nessuno riuscì ad educarlo. Il padre, quasi sempre lontano, era capitano di fanteria e militava nella tristemente celebre masnada dl Fabrizio Maramaldo.

Lui personalmente, Giovanni De Lellis, era pero' considerato come uomo dabbene e anche, in qualche modo, " buon cristiano ", anche se iniziò la sua carriera militare partecipando al terribile Sacco di Roma nel 1527 e la concluse con un episodio analogo nel 1559.

Non riuscì comunque ad essere un buon genitore. Gli morì la moglie quando Camillo aveva solo tredici anni ed era già allora un piccolo ribelle irriducibile; così il bambino iniziò ad accompagnare il padre da un presidio militare all'altro, assimilando da lui una passione distruttiva per il gioco dei dadi e delle carte, e, dall'ambiente un atteggiamento da bravaccio involgarito.

Il padre morì, mentre a 70 anni suonati cercava di arruolarsi nella guerra contro i Turchi, dopo aver arruolato il figlio nella sua compagnia. Aveva perso tutto. Al figlio lasciava soltanto la spada e il pugnale.

Camillo era giudicato da tutti " fantastico, liberotto e bizzarro ", ciò che nel linguaggio del tempo vuol dire: scriteriato e violento, non senza impeti di generosità, tuttavia. Per alcuni anni, salvo una pausa preoccupante, di cui diremo, visse la vita del soldato di ventura, giocandosi la vita nelle battaglie, nelle risse, per potersi poi giocare i soldi così guadagnati.

Di compagnia in compagnia scenderà sempre più la scala della dignità, anche militare, arruolandosi in bande malfamate. Nel 1574 scampò ad un naufragio e, sceso a terra a Napoli, fu preso da una tale frenesia da giocarsi letteralmente tutto; la liquidazione del congedo, la spada, l'archibugio, i fiaschi della polvere il mantello. Dire che " perse anche la camicia " non fu un modo di dire.

Finì randagio come un cane, vagabondando senza meta, con vergogna, rubando, elemosinando davanti alle chiese con " infinito rossore ". Alla fine dovette adattarsi a lavorare per la costruzione di un convento di cappuccini conducendo due giumenti carichi di pietre, calce e acqua per i muratori.

Rifiutava la fatica con tale violenza da mordersi le mani per la rabbia, tentato, come confiderà più tardi, di scannare i due giumenti e fuggire. Ma la vicinanza di quei frati, appena riformati e ancora nel loro pieno fervore, non gli era indifferente. Già nel passato quando si era preso in battaglia qualche terribile spavento, aveva fatto un mezzo voto, subito rimangiato, di farsi frate.

Durante un viaggio al convento di S. Giovanni Rotondo, era l'anno Santo 1575, incontrò un frate che se lo prese in disparte per dirgli:

" Dio è tutto. Il resto è nulla. Bisogna salvare l'anima che non muore...". Nel lungo viaggio di ritorno, tra gli anfratti del Gargano, Camillo meditava. Ad un tratto scese di sella, si buttò a terra piangendo:

" Signore, ho peccato. Perdona a questo gran peccatore! Me infelice che per tanti anni non ti ho conosciuto e non ti ho amato. Signore, dammi tempo per piangere a lungo i miei peccati ".

Chiese di diventare cappuccino, ma per due volte venne dimesso dal convento, e il motivo è legato a quell'episodio che finora ho omesso di raccontare. Già al tempo delle sue scorribande guerresche con Il padre, nella gamba di Camillo s'era aperta una piaga che resterà incurabile per tutta la vita e diverrà sempre più orribile. Un medico che lo visiterà a Genova dirà poi che era " un'ulcera putrida, corrosiva e cava grandissima "

Qualcuno pensa oggi che si trattasse del terribile male del secolo: la sifilide acquisita o ereditaria, dovuta ai suoi vizi o a quelli del padre. La maggior parte dei biografi lo esclude e si parla solo di ulcere distrofiche.

Comunque Camillo apparteneva ormai alla categoria degli '"incurabili ". Era già stato per un periodo all'Ospedale romano di S. Giacomo, dove si trattavano appunto le più orribili malattie e vi si era perfino impiegato per curare gli altri malati.

Avevano dovuto cacciarlo via perché era soprattutto " malato di molto terribile cervello ": attaccabrighe, prepotente, negligente, sempre alla ricerca di soddisfare la passione del gioco.

Si calava persino dalle finestre, nottetempo, per andare a cercare barcaioli e facchini con cui intrattenersi fino all'alba, giocando.

Tornò, per la seconda volta, all'ospedale come novizio cappuccino. L'atteggiamento era assai diverso, caritatevole, però riservato. Camillo pensava soprattutto al suo convento. Finalmente poté tornarvi e la piaga ricominciò ancora a suppurare. I Cappuccini decisero la sua definitiva dimissione. E Camillo tornò a quell'ospedale a cui la malattia sembrava incatenarlo.

E' bene qui fermarsi a descrivere qual era la situazione degli ospedali del tempo, sapendo che comunque quelli di Roma erano i migliori del mondo.

All'ospedale degli incurabili giungevano i malati più ripugnanti, i rifiuti della società, spesso orribili a vedersi, che venivano addirittura scaricati sulla porta dell'edificio.

Normalmente vi erano disponibili una settantina di letti, che diventavano cinquecento ad anni alterni quando si somministrava una cura radicale (la cura dell'acqua del legno, costosa e celebre a quel tempo). Era soprattutto la cura della sifilide, ma anche di chi pensava di doversi in qualche modo " smorbare". La vollero anche Torquato Tasso per il suo " umore malinconico " e Aldo Manuzio per gli occhi. Durava 40 giorni.

Ma se gli ospedali erano abbastanza celebri dal punto di vista della medicina di allora, erano terribili per un altro verso. A mala pena trovava chi volesse prendersi cura di quegli esseri ripugnanti, perfino i preti rifuggivano dall'assistenza religiosa. E i malati erano in mano a dei mercenari; alcuni, delinquenti costretti a quel lavoro con forza, altri, per non aver diversa possibilità di guadagno. Ciò che veniva è per noi inimmaginabile.

Ecco una pagina di un cronista del '600:

" Erano forzati... a servirsi, per così dire, della feccia del mondo cioè de Ministri ignoranti, banditi o inquisiti d'alcun delitto, confinandoli per penitenza e castigo dentro li suddetti luoghi...

Almeno certa cosa era che li poveri agonizzanti stavano allora o tre giorni interi, stentando e penando nelle loro penose agonie se ch'alcuno mai gli dicesse una pur minima parola di consolatione o conforto...

Quante volte... per mancamento di chi gli aiutasse e cibasse passavano li giorni interi che non gustavano alcuna sorta di cibo? Quanti poveri gravi, per non essergli rifatti i letti appena qualche volta tutta la settimana, si marcivano ne' vermi e nelle bruttezze?

Quanti poveri fiacchi levando da letto per alcun loro bisogno, cascando in terra morivano o si ferivano malamente? Quanti spasimandosi della sete non potevano haver un poco d'acqua per sciacquarsi rinfrescarsi la bocca? Onde molti come arrabbiati dal grande ardore sappiamo che si bevevano l'orina...

Ma questa che dirò hora chi la crederebbe mai? Quanti poveri morenti non ancor finiti di morire erano da quei giovani mercenari poco accorti pigliati subito da' letti e portati così mezzi vivi tra' corpi morti per essere poi sepolti vivi?...".

Non sono esagerazioni, perché riscontri simili abbiamo da altri ospedali.

Quando Camillo e i suoi cominceranno a lavorare nell'ospedale maggiore di Milano (la " Ca' granda ") troveranno che i luoghi di decenza sono in tale stato che Camillo li considera " causa di morte":

" Iddio sa quanti ne morirono l’anno per questo andare a quelli sporchi, fetosi e fangosi lochi! ".

Oltre ad una generale incuria, ci sono poi le violenze fisiche con cui i mercenari trattano i malati e li costringono letteralmente con pugni e schiaffi a prendere le medicine previste. A volte li sollevano dai letti con tale violenza che i malati gli muoiono in braccio.

Agli " Incurabili " Camillo è ormai noto per la sua conversione. Ben presto lo nominano Maestro di Casa, colui cioè che ha la responsabilità immediata dell'andamento economico ed organizzativo. Comincia a mettere ordine.

Sa per esperienza come e fatta quella " diavolata gente anormale ", conosce i trucchi degli scioperati per averli lui stesso esercitati, e diviene onnipresente. Notte e giorno. Compare quando nessuno se lo aspetta: richiama, rimprovera, costringe ognuno a far il suo lavoro e bene.

Controlla gli acquisti, litiga con i mercanti, rimanda indietro le partite di merce avariata. E, per quello che non può imporre, offre come modello se stesso.

Si tratta della " tenerezza ". Lo vedono pulire a mani nude i volti dei poverelli divorati dal cancro, e baciarli.

Introduce, e cura lui personalmente il rito dell'accoglienza: ogni malato viene ricevuto alla porta, abbracciato, gli vengono lavati e baciati i piedi, viene spogliato dei suoi stracci, rivestito di biancheria pulita, sistemato in un letto ben rifatto.

Spiega ai mercenari che: " I poveri infermi sono pupilla et cuore di Dio et... quello che facevano alli detti poverelli era fatto allo stesso Dio ".

Comincia a radunare intorno a sé i più sensibili, prega con loro e a loro comunica (lui che a mala pena sa leggere e scrivere) i primi principi di una teologia della sofferenza.

Un pensiero fisso lo va ormai ossessionando; bisogna sostituire tutti i mercenari con persone disposte a stare coi malati solo per amore.

Vuole gente che " non per mercede, ma volontariamente e per amore d'Iddio gli servissero con quell'amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi ". Questo è il progetto. E desta subito preoccupazione. Quei pochi amici che sì ritrovano a pregare e a discutere sull'argomento sono isolati: c'è chi intravede già che interessi e abitudini verranno messi in discussione, altri sospettano che Camillo voglia impadronirsi dell'ospedale, altri ancora considerano il progetto irrealizzabile.

Lo stesso S. Filippo Neri, confessore di Camillo, lo sconsiglia perché crede che quell'uomo ignorante e senza lettere non è atto né sufficiente a governare gente congregata assieme ".

Da parte sua Camillo è tranquillo: " Mi pareva che tutto l'inferno non mi poteva disturbare né impedire l'incominciata impresa ". È convinto che gliela chiede lo stesso Cristo Crocifisso.

Capisce tuttavia che, per acquistare credibilità, lui e i suoi devono imboccare la strada del sacerdozio Riesce miracolosamente a farsi ordinare anche se di teologia speculativa non sa quasi nulla e non riesce nemmeno a scrivere una pagina senza fare molteplici e ridicolissimi errori di ortografia.

Lascia l'ospedale degli " Incurabili " dove ormai non lo vogliono più e raduna i suoi in una poverissima casetta dove hanno due coperte in tre, e la notte devono fare a turno per coprirsi; Cominciano la loro libera attività nel grande ospedale romano di Santo Spirito.

È il glorioso Hospitium Apostolorurn, l'ospedale voluto direttamente dal Papa e da lui affidato ai religiosi di S. Spirito. L'ha fondato Innocenzo III, il grande Papa del '200, perché in esso " abitassero i padroni (cioè i malati) e i servi (cioè tutti gli altri cristiani) ".

I frati che lo dirigono hanno fatto voto di essere " servi " dei loro padroni, gli infermi, per tutta la vita ".

Purtroppo, ai tempi di Camillo, questi " servi " sono ridotti a pochi e sono tornati ad essere più che padroni.

Sisto IV, il Papa della Cappella Sistina, rinnova l'ospedale con una tale magnificenza da riproporre almeno idealmente il valore originario.

Non molti sanno che, oltre alla Cappella Sistina, esiste anche una Corsia Sistina, quella di S. Spirito, che è una delle opere più belle di Roma.

Nessuna chiesa di Roma, nemmeno la Cappella Sistina, ha un ingresso così magnifico. Si è introdotti così in una corsia immensa: 120 metri di lunghezza, 12 di larghezza, 13 di altezza, col soffitto a cassettoni come quello delle più belle basiliche romane e al centro una splendida cupola ottagonale. Le pareti sono affrescate in alto, e in basso ricoperte da cuoio arabescato. Lungo le pareti due file dì letti per i malati, sopraelevati, ognuno con baldacchino a colonne, come dei troni.

In fondo alla corsia un'edicola del Palladio dove è esposta l'Eucaristia. Poi un grande organo su cui per due volte alla settimana si eseguono concerti, per i malati, durante i pasti.

L'ingresso nella corsia è libero. Chi entra tutte le mattine per ascoltare la Messa può poi servire quel Gesù che ha adorato nella Eucarestia, nel corpo malato dei suoi fratelli. Infatti all'ospedale di S. Spirito accedono liberamente tutti coloro che vogliono esercitare la carità:

l'assistenza volontaria è permessa e suggerita ai pellegrini che vengono a Roma, ai religiosi, ai sacerdoti, ai cardinali, ai letterati, agli artigiani, ai penitenti, ai peccatori che devono espiare, ai santi...

Con l'ospedale di S. Spirito è attuato anche strutturalmente quello che tutti gli ospedali dovrebbero essere secondo la concezione cristiana. Sul portale dell'ospedale Maggiore di Torino, e di molti altri, era scritto:

" Culto d'amore dovuto a Cristo, Dio e uomo, ammalato nei poveri ".

Al " S. Spirito " questa dichiarazione di fede era resa strutturalmente evidente.

Purtroppo, come vi si manifestava la fede grande della Chiesa, vi si manifestava anche la sua miseria terrena.

Gli uomini si mostravano di fatto indegni di quella solenne struttura: il problema dei mercenari era simile a quello che abbiamo già osservato per gli altri ospedali, i problemi igienici e il sudiciume umiliavano notevolmente quello splendore, il volontariato si tramutava in disordine, l'ideale in meschinità quotidiana.

Il " Santo Spirito " era una sorta di concretizzazione estrema del mistero e del paradosso della Chiesa.

In quel luogo, la cui riforma " umana " era ritenuta " impossibile ", per trent'anni lavoreranno Camillo e i suoi amici divenendo pian piano una nuova congregazione religiosa: l'ordine dei Ministri degli infermi.

Per essi l'ospedale è tutto, e vi lavorano cominciando lentamente ad assorbire su di sé tutta la fatica, imprimendovi la qualità carismatica della tenerezza.

A Camillo piace la musica. Qualche volta va nelle chiese a sentire dei concerti, ma quando esce dice:

" A me però di più gusta un altro genere di musica... quella che fanno i poveri infermi nell'ospedale quando molti assieme chiamano e dicono; Padre, dammi da sciacquare la bocca, rifammi il letto, riscaldami i piedi..."

Una notte lo vedono (citiamo nel nell'italiano antico):

" stare ingenocchiato vicino a un povero infermo ch'aveva un così pestifero e puzzolento canchero in bocca, che non era possibile tolerarsi tanto fetore, e con tutto ciò esso Camillo standogli appresso a fiato a flato, gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell'amor suo, chiamandolo particolarmente: Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio? pensando egli che fosse l'amato suo Signore Giesù Christo...".

" L'ho visto più volte, dice un testimone, piangere per la veemente commozione che nel poverello fosse Cristo, cosicché adorava l'infermo come la persona del Signore ".

Non voleva giorni di riposo. Quando lo obbligavano, perché non si sfinisse, tornava di nascosto. Si portava addosso attaccato alla veste tutto ciò che poteva servire ai suoi malati: dall'acqua benedetta, al libro per raccomandare l'anima degli agonizzanti, all'acqua da bere, agli orinali; e perfino una " concolina di rame dove potessero, senza loro incomodo, sputare ".

Erano i paramenti e gli strumenti della sua liturgia.

A volte mentre imbocca i malati, Camillo racconta loro i suoi peccati perché è convinto di raccontarli direttamente al Signore. Ascoltiamo ancora le testimonianze.
" Quando pigliava alcuno di loro in braccio per mutargli le lenzuola, lo faceva con tanto affetto e diligenza che pareva maneggiare la persona stessa di Gesù Cristo ".

E non lasciava mai un malato che aveva servito senza baciargli le mani o il volto. Non sapeva più cosa fare per loro. Chi lo conosceva diceva che " se cento mani havesse egli havuto, tutte e cento le havrebbe impiegate e occupate in quel servizio "

E non è che ricevesse sempre in cambio riconoscenza.

Divenuto vecchio, dirà ai suoi frati: " Ho ricevuto spesso pugni, schiaffi, sputi e villanie di ogni genere dagli infermi, con mio grande contento del testo e allegria, perché gli infermi mi possono non solo comandate ma far bravate, dirmi ingiurie e villanie come miei legittimi padroni ".

Un giorno si portava appresso uno dei suoi fraticelli più giovani per insegnargli a pulire i malati e si trovò con le mani imbrattate. Il fraticello osservava con schifo. Camillo lo guardò: " Il Signore Iddio, disse, mi faccia la grazia di farmi morire con le mani impastate di questa santa pasta di carità ".

E a un altro faceva rimestare ben bene la paglia nei materassi dicendogli: " Vedi, è color dell'oro ed è veramente oro perché con questo si compra il cielo ". Si scusava di non saper parlare d'altro che di carità verso gli Infermi, di essere, diceva, come un prete di campagna che sa leggere solo il messale: " così io non so dire altro che questo ".

Quando qualche sera tornava in convento, chiamava i suoi frati in capitolo, metteva un letto in mezzo alla sala, ammucchiava materassi e coperte, chiedeva a uno di distendersi, e poi insegnava agli altri come si rifaceva un letto senza disturbare troppo il malato, come si cambiava la biancheria, come bisognava atteggiare il volto verso i sofferenti. Poi li faceva provare e riprovare. Ogni tanto gridava: " Più cuore, voglio vedere più affetto materno " Oppure: " Più anima nelle mani ".

Un giorno, arriva in Ospedale il Commendatore di S. Spirito (la più alta autorità') che chiede impazientemente di parlare con Camillo, ma lui sta imboccando un infermo: " Dite a Monsignore, fa rispondere, che adesso sono occupato con Giesù Christo, appena avrò finito mi presenterò dinanzi a Sua Signoria illustrissima ". E non lo dice per puntiglio, ma perché ne è davvero convinto.

" Sembrava, dice il suo biografo che non vivesse più in se stesso. Soltanto Gesù e i poverelli vivevano in lui ".

Pian piano aumentano i giovani che gli si affidano per condividere la sua vita e Camillo comincia a " occupare " gli altri ospedali.

Giunge fino a Napoli, Genova, Milano, Mantova. Anzi, proprio a Milano scoppia la dura questione degli ospedali. Camillo di testa sua, senza consultarsi con nessuno, coglie l'occasione propizia per farsi affidare tutto l'ospedale, per curare cioè non solo l'assistenza ai malati ma l'intera gestione materiale di tutto.

Per Camillo non c'è distinzione tra materiale e spirituale. Tutto ciò che riguarda i malati lo vuole fare lui. I suoi frati non sono d'accordo perché, e con ragione, pensano che così si finisce per aiutare non i malati ma gli amministratori che risparmiano sulle spese, mentre i frati si distruggono letteralmente di fatica.

Ma per Camillo qualunque cosa riguarda anche lontanamente i suoi poverelli è sacra ed è da accogliere.

Intanto egli per primo si sfinisce.

Restò celebre lo straripamento del Tevere nel Natale 1598, quando Camillo davanti al pericolo, mentre frati e servi mugugnano e dicono che non c'è tanto rischio, li obbliga a trasportare al piano superiore tutti e trecento i malati con le loro robe.

Quando ha trasferito l'ultimo malato, il Tevere irrompe e l'acqua giunge a tre metri di altezza dal pavimento, sommergendo tutto. Ma i malati sono salvi.

A Camillo si ricorre per ogni emergenza, soprattutto in tempo di peste e di carestia, che scoppiano qua e là con violenza incredibile, quando i morti (che non si riesce a seppellire) sembrano " uccidere i vivi ".

Al termine della sua vita Camillo avrà fondato quattordici conventi, avrà preso la responsabilità di otto ospedali (quattro, completamente) e avrà con lui 80 novizi e 242 religiosi professi.

- Ormai vecchio si ritira da ogni incarico di superiore e chiede di potere abitare e morire nell'ospedale di S. Spirito per poter chiudere gli occhi tra i suoi poverelli.

Al generale dei Carmelitani Scalzi che va a trovarlo, dice: " Sono stato un gran peccatore, giocatore e uomo di mala vita ".

Ma può anche dire di sé: " Da che Dio mi ha illuminato e chiamato al suo servizio non mi ricordo, per grazia del Signore, d'aver mai commesso peccato mortale e neppure veniale volontario ".

Una sera un frate mette dentro la testa nell'infermeria dove Camillo si sta spegnendo e lo vede che sta contemplando un quadro dove lui stesso è ritratto ai piedi del Crocifisso.

" Che fo?, risponde Camillo, Sto aspettando una buona nuova dal Signore: 'Venite benedetti del Padre mio perché ero infermo e mi avete visitato' ".

Muore a 64 anni, ma prima ha voluto scrivere il suo testamento per lasciare in eredità tutto se stesso. Lo fa firmare dai suoi frati e chiede che glielo mettano al collo e lo lascino così fin dentro la tomba. Il testamento è una totale e minuziosa consegna di se stesso:

" Io Camillo de Lellis... lascio il mio corpo di terra alla medesima terra di dove è stato prodotto. ...Lascio al Demonio, tentatore iniquo, tutti i peccati e tutte le offese che ho commesso contro Dio e mi pento sin dentro l'anima...

ltem lascio al mondo tutte le vanità... e desidero cambiare questa terrena vita con la certezza del Paradiso... tutte le robbe mie con gli eterni beni, tutti gli amici con la compagnia dei Santi, tutti li parenti con la dolcezza degli Angeli e finalmente tutte le curiosità mondane con la vera visione della faccia di Dio.

Item lascio et dono l'anima mia e ciascheduna potestà di quella al mio amato Gesù e alla sua S, Madre... e all'angelo mio Custode

Item lascio la mia volontà nelle mani di Maria Vergine Madre dello Onnipotente Iddio e intendo non volere se non quello che la Regina degli Angeli vuole.

Finalmente lascio a Giesù Christo Crocefisso tutto me stesso in anima e corpo e confido che, per sua immensa bontà e misericordia, mi riceva e mi perdoni come perdonò alla Maddalena, e mi sarà piacevole come lo fu al buon ladrone nell'estremo di sua vita stando in Croce...".

Infatti spirò sorridendo proprio mentre il Sacerdote che lo assisteva pronunciava queste parole delle preghiere degli agonizzanti: " Mitis atque festivus Christi Jesu tibi aspectus appareat ", " Cristo ti mostri il suo volto mite e festevole "

Oggi l'azione di Camillo de Lellis che riempì l'Italia intera della sua carità per i malati può sembrare lontana nel tempo e non più così necessaria.

I nostri ospedali, i nostri malati, si dice, non sono più in quelle tragiche condizioni in cui Camillo si immerse con la sua violenta tenerezza.

In realtà le cose non stanno proprio così. Alcuni episodi che si raccontano di S. Camillo de Lellis, ad esempio, li possiamo rileggere tali e quali nella vita di Madre Teresa di Calcutta e delle sue suore che hanno abbracciato e fatto morire " come angeli " migliaia di poverelli trovati agonizzanti nelle strade e nelle fogne, e si offrono ancora, da sole, per riconoscere Cristo in tutti gli appestati dei nostri giorni.

Tuttavia, almeno in occidente, gli ospedali non sono più quei luoghi terribili che abbiamo stasera descritto, almeno finché riusciremo a contenere le epidemie e le infezioni mortali.

Non sappiamo infatti come, noi uomini moderni, reagiremo se dovesse tornare quel giorno in cui la cura dei malati volesse dire concretamente rischio quotidiano della propria vita da parte di medici, infermieri, inservienti ecc. I segnali in proposito non sono certo incoraggianti, e il panico e l'egoismo farebbero rapidamente ripiombare nel caos innominabile anche le nostre moderne strutture. Allora occorrerebbero soltanto dei Santi e soltanto la Chiesa potrebbe fornirli.

Ma ancora più grave è l'orrore umano che permane sotto la scorza della nostra igiene sanitaria e della nostra bravura medica.

I peccati che la Chiesa denuncia oggi (il massacro degli innocenti attraverso l'aborto, la manipolazione degli embrioni, l'eutanasia nascostamente o apertamente praticata) se venissero descritti e osservati nella loro concreta fatticità e disumanità, non ci apparirebbero meno crudeli e ripugnanti. Anzi. Ciò che abbiamo guadagnato sui secoli scorsi è la capacità di far scomparire velocemente le tracce.

Del resto perfino quei malati che oggi sono ancora ben ospitati e ben curati (e si va già dicendo qua e là che dovrà essere lo Stato prima o poi a determinare chi merita questo trattamento, dato che bisognerà decidersi ad applicare ferree leggi economiche anche alla sanità), spesso lamentano d'essere non delle persone, ma delle " parti " malate consegnate ai medici e infermieri con la speranza che le restituiscano risanate.

Né l'uomo malato riceve una considerazione integrale, né chi lo cura gli si offre interamente: l'incontro, nel migliore dei casi, tra una malattia e una competenza; il resto è anonimo, e la solitudine è amara. Anche su questo l'antica " totalitarietà " vissuta e insegnata da S. Camillo, la sua capacità di condivisione da persona a persona, risplendono alte come un sole.

Anche i nostri ospedali osserva giustamente un moderno biografo del nostro Santo, non sono più luoghi consacrati al dolore e all'incontro tra gli uomini, ma spesso soltanto " case profanate e contaminate dai calcoli dell'interesse, dall'ambizione, dalla insensibilità dei sani ".

In ogni caso il problema non sarà risolto fin quando il malato non sarà considerato come persona sacra.

Oggi, in tempo di incombente eutanasia, non possiamo non ricordare che a Bologna e a Piacenza i figli di S. Camillo furono chiamati dal popolo " Padri della buona morte ", e a Firenze e in Toscana:

" I Padri del bel morire ".

Per tutti i problemi degli uomini, la Chiesa ha risposte che sono conservate non solo nella sua intelligenza, ma soprattutto nella sua memoria, nel ricordo cioè dei suoi Santi che hanno talmente amato Cristo da immergersi totalmente, con carità, in tutto ciò che è umano.

Un ministro del governo indiano, paragonando i risultati ottenuti da Madre Teresa a quelli ottenuti dall'assistenza pubblica, un giorno le disse con ammirazione e un po' di tristezza: la differenza tra noi e voi è questa: " noi lo facciamo per qualcosa voi lo fate a qualcuno ".

È questo tutto il segreto e lo splendore del cristianesimo: che tutto e tutti sono segni di Qualcuno che di tutto e di tutti è il Redentore.

Vorrei leggervi quest'ultimo piccolo episodio della vita di Camillo come conclusione di tutto, quasi per fissare un'immagine: " Una volta... vedendo egli che molti poveri stavano buttati per terra sopra la paglia, per essere i letti pieni, e stando esso rimirandogli fu addimandato perché stesse così addolorato. Egli rispose: io sto mangiando pane di dolore, per vedere patire questi membri di Giesù Christo ".

Per lui vivere significava " morire a se stessi per vivere a Gesù Cristo crocifisso nei malati ".