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venerdì 30 settembre 2011

Video dedica a San Pio da Pietrelcina con il canto di mons. Marco Frisina: Charitatis Hostia

Elvira - Figlia spirituale di Padre Pio - IV

Continuiamo a scoprire la figura di Elvira, figlia spirituale di San Pio da Pietrelcina. Vediamo i momenti che hanno preceduto l'incontro e quelli dell'incontro stesso con il Santo frate che diventerà in seguito suo padre spirituale:


L'INCONTRO CON PADRE PIO


Preoccupata per l'età avanzata di Padre Antonio, che da anni era il suo Direttore Spirituale, un giorno Elvira osò manifestargli il timore di rimanere senza sostegno morale dopo la sua morte:

"Come farò, Padre, quando Lei non ci sarà più?"

"Non temere, avrai per confessore un Santo" la confortò lui e le parlò di Padre Pio da Pietralcina che Elvira non aveva mai sentito nominare.

Quando Padre Antonio morì, Elvira lo sognò, una not­te, in compagnia di un frate che lei non conosceva, poi, recatasi qualche giorno dopo in casa di una signora, rivide quel frate del sogno in un portaritratti posato su un tavolo. La signora le disse che era Padre Pio, il famoso Cappuccino del Gargano, e le diede da leggere la biografia di lui scritta da Del Fante. Da quel momento Elvira sentì un gran biso­gno di andare personalmente a conoscere quel frate su cui aveva udito già tante meraviglie e si diede a cercare una persona che l'accompagnasse. Trovò subito disposta Anita Zanotti, un'anima bella che si trasferirà poi a vivere a S. Giovanni Rotondo.

Questo viaggio però non era tanto semplice come sem­brava, perché subito Elvira si trovò davanti un muro invalicabile: l'opposizione dell'autorità ecclesiastica. In se­guito alla campagna diffamatoria suscitata contro Padre Pio, nel 1924 era venuto ai fedeli, da parte del Santo Uffizio, questo severo monito:

"...ritiene suo dovere esortare i fedeli affinchè si astengano dall’andare a visitare, devotionis causa, Padre Pio e dall'intrat­tenere con lui qualsiasi relazione, anche epistolare".

Era un'esortazione che aveva il tono di una condanna. Nel luglio del 1933 i decreti del Sant'Uffizio venivano revocati e successivamente restituita a Padre Pio la piena libertà del suo ministero sacerdotale. Questa ritrattazione risaliva ad appena un anno addietro ed Elvira, come mem­bro dell'Azione Cattolica, si era creduta in dovere, volendo andare a conoscere Padre Pio, di chiedere prima un regolare permesso. Nessun sacerdote della Diocesi, però, aveva volu­to accordarglielo e nemmeno il Vescovo. Sarà solo il consen­so datole da un sacerdote forestiero, venuto a predicare in Duomo, che le metterà la coscienza in pace. Così, chiamata la madre, perché si prendesse cura dei figli ancora piccoli, cominciò i preparativi per la partenza. Era il 1934.

È proprio il caso di pensare che il diavolo si fosse messo in agitazione per la prospettiva di quell'incontro che gli doveva fruttare una così lunga serie di sconfitte e che si fosse messo a tormentare Elvira, facendole venire mille dubbi, nel tentativo di toglierle quell'idea dalla testa. Senza ragione infatti, Elvira cominciò a dibattersi nell'incertezza. Non vedeva più l'opportunità di quel viaggio e tornò da Anita a dirle che non aveva più intenzione di partire. (Avrebbero dovuto prendere il treno la mattina dopo).

"Ebbene, non fa nulla - disse l'amica - Andremo un ‘altra volta"

Elvira però non aveva pace e mentre tornava a casa, passan­do davanti alla Chiesa di Santa Chiara, dove si venera l'immagine della Madonna della Misericordia, fu costretta a fermarsi. La porta era chiusa, perchè erano le 9 di sera, ma lei si inginocchiò sul gradino esterno e, piena d'angoscia, pregò la Madonna che la illuminasse.

A casa la prima spinta a partire le venne dalla madre, la quale protestò che non avrebbe potuto, un'altra volta, pre­disporre le cose in modo da prestarle il suo aiuto, presa com'era anche lei, dalle cure dei propri figliuoli. Che fare? Elvira si tormentava nell'indecisione. Era seduta sul letto, ma qualcosa la tratteneva dallo spogliarsi e mettersi a dor­mire. Chiedeva angosciosamente a Padre Pio un segno... un segno che la convincesse a partire. Ed ecco che, all'im­provviso, vide davanti a se Padre Pio in persona che, senza dire una parola, le porgeva le stigmate da baciare.

La mattina dopo corse a casa dell'amica a dirle che era risoluta a partire e quella sera stessa presero il treno per le Puglie. Viaggiarono tutta la notte e al mattino si fermarono a Lucera per salutare il Carmelitano Padre Antonio Maria Rossi, che era un'anima bella molto vicina a Padre Pio, e per assistere alla sua Messa. Si trattennero con lui fino all'ora di pranzo, quindi proseguirono per S. Giovanni Rotondo, dove arrivarono verso le 5 del pomeriggio.

Fissarono l'alloggio in paese e poi si avviarono su per la mulattiera che portava al Convento. Fuori della Chiesa videro Pietruccio, che allora era un bambino, e lo inviarono come messaggero da Padre Pio per annunziargli che erano arrivate due pellegrine da Rimini. Per tutta risposta si sen­tirono riferire che tornassero giù in paese immediatamente. Obbedirono senza chiedere il perché e, quando furono quasi arrivate, scoppiò un temporale da far paura, senza che nulla prima lo avesse fatto presagire.

Acqua a catinelle, fragore di tuoni, fulmini, buio pesto... (Sarebbe azzardato pensare che fosse il demonio a sfogare così il suo livore infernale?)

La mattina dopo Elvira potè incontrarsi col Padre e da quell'incontro doveva aver inizio il suo Grande Apostolato.

giovedì 29 settembre 2011

Il Papa: "Solo Dio da' alla vita il senso più profondo"

Udienza Generale di Papa Bendetto XVI - 28 Settembre 2011

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
 Mercoledì, 28 settembre 2011



Viaggio Apostolico in Germania

Cari fratelli e sorelle!

Come sapete, da giovedì a domenica scorsi ho compiuto una Visita Pastorale in Germania; sono lieto, perciò, come di consueto, di cogliere l’occasione dell’odierna Udienza per ripercorrere insieme con voi le intense e stupende giornate trascorse nel mio Paese d’origine. Ho attraversato la Germania dal nord al sud, dall’est all’ovest: dalla capitale Berlino ad Erfurt e all’Eichsfeld e infine a Freiburg, città vicina al confine con la Francia e la Svizzera. Ringrazio anzitutto il Signore per la possibilità che mi ha offerto di incontrare la gente e parlare di Dio, di pregare insieme e confermare i fratelli e le sorelle nella fede, secondo il particolare mandato che il Signore ha affidato a Pietro e ai suoi successori. Questa visita, svoltasi sotto il motto “Dov’è Dio, là c’è futuro”, è stata davvero una grande festa della fede: nei vari incontri e colloqui, nelle celebrazioni, specialmente nelle solenni Messe con il popolo di Dio. Questi momenti sono stati un prezioso dono che ci ha fatto percepire di nuovo come sia Dio a dare alla nostra vita il senso più profondo, la vera pienezza, anzi, che solo Lui dona a noi, dona a tutti un futuro.

Con profonda gratitudine ricordo l’accoglienza calorosa ed entusiasta come anche l’attenzione e l’affetto dimostratimi nei vari luoghi che ho visitato. Ringrazio di cuore i Vescovi tedeschi, specialmente quelli delle Diocesi che mi hanno ospitato, per l’invito e per quanto hanno fatto, insieme con tanti collaboratori, per preparare questo viaggio. Un sentito grazie va ugualmente al Presidente Federale e a tutte le autorità politiche e civili a livello federale e regionale. Sono profondamente grato a quanti hanno contribuito in vario modo al buon esito della Visita, soprattutto ai numerosi volontari. Così essa è stata un grande dono per me e per tutti noi e ha suscitato gioia, speranza e un nuovo slancio di fede e di impegno per il futuro.

Nella capitale federale Berlino, il Presidente Federale mi ha accolto nella sua residenza e mi ha dato il benvenuto a nome suo e dei miei connazionali, esprimendo la stima e l’affetto nei confronti di un Papa nativo della terra tedesca. Da parte mia, ho potuto tracciare un breve pensiero sul rapporto reciproco tra religione e libertà, ricordando una frase del grande Vescovo e riformatore sociale Wilhelm von Ketteler: “Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione.”

Ben volentieri ho accolto l’invito a recarmi al Bundestag, quello che è stato certamente uno dei momenti di grande portata del mio viaggio. Per la prima volta un Papa ha tenuto un discorso davanti ai membri del Parlamento tedesco. In tale occasione ho voluto esporre il fondamento del diritto e del libero Stato di diritto, cioè la misura di ogni diritto, inscritto dal Creatore nell’essere stesso della sua creazione. E’ necessario perciò allargare il nostro concetto di natura, comprendendola non solo come un insieme di funzioni ma oltre questo come linguaggio del Creatore per aiutarci a discernere il bene dal male. Successivamente ha avuto luogo anche un incontro con alcuni rappresentanti della comunità ebraica in Germania. Ricordando le nostre comuni radici nella fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, abbiamo evidenziato i frutti ottenuti finora nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo in Germania. Ho avuto modo ugualmente di incontrare alcuni membri della comunità musulmana, convenendo con essi circa l’importanza della libertà religiosa per uno sviluppo pacifico dell’umanità.

La Santa Messa nello stadio olimpico a Berlino, a conclusione del primo giorno della Visita, è stata una delle grandi celebrazioni liturgiche che mi hanno dato la possibilità di pregare insieme con i fedeli e di incoraggiarli nella fede. Mi sono molto rallegrato della numerosa partecipazione della gente! In quel momento festoso e impressionante abbiamo meditato sull’immagine evangelica della vite e dei tralci, cioè sull’importanza di essere uniti a Cristo per la nostra vita personale di credenti e per il nostro essere Chiesa, suo corpo mistico.

La seconda tappa della mia Visita è stata in Turingia. La Germania, e la Turingia in modo particolare, è la terra della riforma protestante. Quindi, fin dall’inizio ho voluto ardentemente dare particolare rilievo all’ecumenismo nel quadro di questo viaggio, ed è stato mio forte desiderio vivere un momento ecumenico ad Erfurt, perché proprio in tale città Martin Lutero è entrato nella comunità degli Agostiniani e lì è stato ordinato sacerdote. Perciò mi sono molto rallegrato dell’incontro con i membri del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania e dell’atto ecumenico nell’ex-Convento degli Agostiniani: un incontro cordiale che, nel dialogo e nella preghiera, ci ha portato in modo più profondo a Cristo. Abbiamo visto di nuovo quanto sia importante la nostra comune testimonianza della fede in Gesù Cristo nel mondo di oggi, che spesso ignora Dio o non si interessa di Lui. Occorre il nostro comune sforzo nel cammino verso la piena unità, ma siamo sempre ben consapevoli che non possiamo “fare” né la fede né l’unità tanto auspicata. Una fede creata da noi stessi non ha alcun valore, e la vera unità è piuttosto un dono del Signore, il quale ha pregato e prega sempre per l’unità dei suoi discepoli. Solo Cristo può donarci quest’unità, e saremo sempre più uniti nella misura in cui torniamo a Lui e ci lasciamo trasformare da Lui.

Un momento particolarmente emozionante è stata per me la celebrazione dei Vespri mariani davanti al santuario di Etzelsbach, dove mi ha accolto una moltitudine di pellegrini. Già da giovane avevo sentito parlare della regione dell’Eichsfeld – striscia di terra rimasta sempre cattolica nelle varie vicissitudini della storia – e dei suoi abitanti che si sono opposti coraggiosamente alle dittature del nazismo e del comunismo. Così sono stato molto contento di visitare questa Eichsfeld e la sua gente in un pellegrinaggio all’immagine miracolosa della Vergine Addolorata di Etzelsbach, dove per secoli i fedeli hanno affidato a Maria le proprie richieste, preoccupazioni, sofferenze, ricevendo conforto, grazie e benedizioni. Altrettanto toccante è stata la Messa celebrata nella magnifica piazza del Duomo a Erfurt. Ricordando i santi patroni della Turingia – Santa Elisabetta, San Bonifacio e San Kilian – e l’esempio luminoso dei fedeli che hanno testimoniato il Vangelo durante i sistemi totalitari, ho invitato i fedeli ad essere i santi di oggi, validi testimoni di Cristo, e a contribuire a costruire la nostra società. Sempre, infatti, sono stati i santi e le persone pervase dall’amore di Cristo a trasformare veramente il mondo. Commovente è stato anche il breve incontro con Mons. Hermann Scheipers, l’ultimo sacerdote tedesco vivente sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau. Ad Erfurt ho avuto anche occasione di incontrare alcune vittime di abuso sessuale da parte di religiosi, alle quali ho voluto assicurare il mio rammarico e la mia vicinanza alla loro sofferenza.

L’ultima tappa del mio viaggio mi ha portato nel sud-ovest della Germania, nell’Arcidiocesi di Freiburg. Gli abitanti di questa bella città, i fedeli dell’Arcidiocesi e i numerosi pellegrini venuti dalle vicine Svizzera e Francia e da altri Paesi mi hanno riservato un’accoglienza particolarmente festosa. Ho potuto sperimentarlo anche nella veglia di preghiera con migliaia di giovani. Sono stato felice di vedere che la fede nella mia patria tedesca ha un volto giovane, che è viva e ha un futuro. Nel suggestivo rito della luce ho trasmesso ai giovani la fiamma del cero pasquale, simbolo della luce che è Cristo, esortandoli: “Voi siete la luce del mondo”. Ho ripetuto loro che il Papa confida nella collaborazione attiva dei giovani: con la grazia di Cristo, essi sono in grado di portare al mondo il fuoco dell’amore di Dio.

Un momento singolare è stato l’incontro con i seminaristi nel Seminario di Freiburg. Rispondendo in un certo senso alla toccante lettera che essi mi avevano fatto pervenire qualche settimana prima, ho voluto mostrare a quei giovani la bellezza e grandezza della loro chiamata da parte del Signore e offrire loro qualche aiuto per proseguire il cammino della sequela con gioia e in profonda comunione con Cristo. Sempre nel Seminario ho avuto modo di incontrare in un’atmosfera fraterna anche alcuni rappresentanti delle Chiese ortodosse e ortodosse orientali, alle quali noi cattolici ci sentiamo molto vicini. Proprio da questa ampia comunanza deriva anche il compito comune di essere lievito per il rinnovamento della nostra società. Un amichevole incontro con rappresentanti del laicato cattolico tedesco ha concluso la serie di appuntamenti nel Seminario.

La grande celebrazione eucaristica domenicale all’aeroporto turistico di Freiburg è stata un altro momento culminante della Visita pastorale, e l’occasione per ringraziare quanti si impegnano nei vari ambiti della vita ecclesiale, soprattutto i numerosi volontari e i collaboratori delle iniziative caritative. Sono essi che rendono possibili i molteplici aiuti che la Chiesa tedesca offre alla Chiesa universale, specie nelle terre di missione. Ho ricordato anche che il loro prezioso servizio sarà sempre fecondo, quando deriva da una fede autentica e viva, in unione con i Vescovi e il Papa, in unione con la Chiesa. Infine, prima del mio ritorno, ho parlato ad un migliaio di cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, suggerendo alcune riflessioni sull’azione della Chiesa in una società secolarizzata, sull’invito ad essere libera da fardelli materiali e politici per essere più trasparente a Dio.

Cari fratelli e sorelle, questo Viaggio Apostolico in Germania mi ha offerto un’occasione propizia per incontrare i fedeli della mia patria tedesca, per confermarli nella fede, nella speranza e nell’amore, e condividere con loro la gioia di essere cattolici. Ma il mio messaggio era rivolto a tutto il popolo tedesco, per invitare tutti a guardare con fiducia al futuro. È vero, “Dov’è Dio, là c’è futuro”. Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno reso possibile questa Visita e quanti mi hanno accompagnato con la preghiera. Il Signore benedica il popolo di Dio in Germania e benedica voi tutti. Grazie.

{Saluti in varie lingue: Je salue les pèlerins francophones, particulièrement les pèlerins de Paris, de Nantes, et de Russ, ainsi que ceux venus de Tournai et du Bénin, pays que je vais visiter bientôt. Chers amis, le Christ-Jésus donne à notre vie son sens le plus profond. C’est Lui notre présent et notre avenir. Redécouvrons la joie de croire en Lui et restons unis à Lui dans l’Église ! Je vous bénis de tout cœur.

I offer a warm welcome to all the English-speaking visitors present at today’s Audience, especially those from England, Norway, Sweden, Kenya, South Africa, Samoa, Indonesia, Japan, South Korea and the United States of America. My affectionate greeting goes to the students of both the Venerable English College and the Pontifical Irish College as they take up their studies for the priesthood. I also greet the ecumenical groups from the Nordic countries and the pilgrims from Samoa. I thank the choirs, including the children’s choir from South Korea, for their praise of God in song. Upon all of you I invoke Almighty God’s blessings of joy and peace.

Gerne grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache, vor allem die vielen Jugendlichen. Mit zahlreichen Begegnungen und feierlichen Gottesdiensten war mein Besuch in Deutschland ein Fest des Glaubens. Wir durften erneut spüren, daß Gott uns führt, daß er wirklich Erfüllung, den tiefsten Sinn des Lebens und Zukunft schenkt. Diese Zuversicht wollen wir an unsere Mitmenschen weitergeben. Der Herr segne euch alle!

Saludo a los peregrinos de lengua española, en particular a las Religiosas de la Compañía de Santa Teresa de Jesús que celebran su Capítulo General; a los fieles de las Diócesis de Teruel y Albarracín; a los peregrinos de la Arquidiócesis de Santo Domingo, junto a su Obispo Auxiliar; a los sacerdotes de la Arquidiócesis de Medellín, así como a los demás grupos venidos de España, Colombia, Chile, República Dominicana, México y otros países latinoamericanos. Invito a todos a dar gracias al Señor por esta Visita Apostólica a Alemania, suplicándole que, cuanto he podido sembrar en estos días, ayude a percibir cada vez más cómo Dios ofrece a todos un futuro. Muchas gracias.

Amados peregrinos de língua portuguesa, cordiais saudações para todos vós, de modo especial para os fiéis de Piracicaba e Belo Horizonte, de Bauru e Apucarana: convido-vos a olhar com confiança o vosso futuro em Deus. Com a graça de Cristo, sois capazes de levar ao mundo o fogo do amor de Deus. Sobre vós e vossas famílias desça a minha Bênção.

Saluto in lingua polacca:

Serdecznie pozdrawiam polskich pielgrzymów. Dziękuję Wam za modlitewne wsparcie podczas mojej wizyty w rodzinnych Niemczech. Dziękuję również tym wszystkim Polakom, którzy byli obecni w Berlinie, Erfurcie, Fryburgu i innych miejscach, jednocząc się z braćmi Niemcami i ubogacając się wzajemnie świadectwem wiary. Niech Bóg wam błogosławi!

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Vi ringrazio per l’orante sostegno durante la mia visita nella nativa Germania. Ringrazio anche tutti i Polacchi, che sono stati presenti a Berlin, Erfurt, Feiburg e in altri luoghi, unendosi ai fratelli tedeschi e arricchendosi a vicenda della testimonianza della Fede. Dio vi benedica!

Saluto in lingua croata:

Srdačno pozdravljam sve hrvatske hodočasnike, a osobito vjernike iz župe Svetog Nikole Tavelića iz Zagreba. Dragi prijatelji, po primjeru apostola i tolikih svetaca iz vašega naroda, budite oduševljeni za Krista i slijedite Ga u ljubavi. Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini croati ed in modo particolare i fedeli della parrocchia di San Nicola Tavelić di Zagabria. Cari amici, sull’esempio degli Apostoli e di tanti santi del vostro popolo, siate appassionati a Cristo e seguiteLo nell’amore. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua ceca:

Srdečně zdravím české poutníky, zvláště skupinu ze Štípy. Drazí přátelé, modlím se za vás a vaše rodiny a všem vám žehnám. Chvála Kristu!

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua ceca, in particolare al gruppo proveniente da Stipa. Cari amici, assicuro un ricordo nella preghiera per voi e per le vostre famiglie e tutti vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ungherese:

Nagy szeretettel üdvözlöm a magyar zarándokokat, különösen is a közép-európai Mária-út alapítóit és a kunszentmiklósi híveket. A római bazilikákba vezető utatok és az Örök Város hagyományával való találkozástok erősítsen meg benneteket a hitben és legyen a lelki gyarapodás forrása.
A szent főangyalok közbenjárását kérve szívesen adom Rátok Apostoli Áldásomat. Dicsértessék a Jézus Krisztus!

Traduzione italiana:

Saluto con grande affetto i pellegrini di lingua ungherese, specialmente i fondatori della Via Mariana dell’Europa Centro-orientale ed i fedeli che sono arrivati da Kunszentmiklós. Il vostro pellegrinaggio alle Basiliche di Roma e l’incontro con la tradizione della Città Eterna rafforzino la vostra fede e diventino fonte della crescita spirituale. Chiedendo la intercessione dei santi Arcangeli imparto volentieri a voi la Benedizione Apostolica. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ucraina:

Щиро вітаю український молодіжний хор з Перемишля. Дорогі друзі, через спів ви також поширюєте найвищі людські та християнські цінності. Всім вам уділяю своє благословення.

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente il coro giovanile ucraino, proveniente da Przemysl. Cari amici anche attraverso il canto, diffondete i più alti valori umani e cristiani. A tutti voi la mia benedizione.}

* * *

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, sono lieto di accogliere i sacerdoti del Pontificio Collegio San Pietro, provenienti da vari Paesi, come pure le Suore Benedettine della Divina Provvidenza, che ricordano significativi anniversari, ed auguro a ciascuno di continuare con fervore la testimonianza evangelica nella Chiesa e nel mondo. Saluto poi i fedeli della diocesi di Belluno-Feltre, che, insieme al loro Vescovo Mons. Giuseppe Andrich, sono venuti a Roma per fare grata e orante memoria del mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo I, nell’anniversario della sua scomparsa. Saluto il pellegrinaggio della diocesi di Ascoli Piceno, guidato dal Vescovo Mons. Silvano Montevecchi, ed auspico che questa sosta presso le tombe degli Apostoli segni per l’intera Comunità diocesana una rinnovata vitalità spirituale nella fedele adesione a Cristo e sotto lo sguardo materno della celeste patrona la Beata Vergine delle Grazie.

Come di consueto, il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Tutti invito ad essere sempre fedeli all’ideale evangelico per realizzarlo nella vita di ogni giorno, sperimentando così la gioia della presenza di Cristo.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 28 settembre 2011

Dio ci fa esistere, godiamoci la Vita!! ... e lo sanno anche gli atei!!

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La Summa Teologica - Trentottesima parte

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni:

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

L'infinità di Dio >  Se nella realtà si possa dare un infinito numerico

Prima parte
Questione 7
Articolo 4

SEMBRA che sia possibile un numero infinito in atto. Infatti: 1. Ciò che è in potenza a essere ridotto in atto non è cosa impossibile. Ora il numero è moltiplicabile all'infinito. Dunque non è impossibile che si dia un numero infinito in atto.

2. È possibile che di ogni specie vi sia qualche individuo in atto. Ma le specie delle figure geometriche sono infinite. Dunque è possibile che vi siano infinite figure.

3. Cose che tra loro non sono opposte, neppure si ostacolano a vicenda. Ora, dato un certo numero di cose, se ne possono fare ancora molte altre non opposte alle prime; dunque non è impossibile che ce ne possano essere insieme con esse anche delle altre, e così via all'infinito. È dunque possibile che ve ne siano infinite in atto.

IN CONTRARIO: È detto nel libro della Sapienza: "Tutto tu disponesti in misura, numero e peso".

RISPONDO: Su questo punto ci furono due opinioni. Alcuni, come Avicenna e Algazel, hanno sostenuto che una moltitudine numerica attualmente infinita per se è impossibile; ma che esista un numero infinito per accidens non è impossibile. Si dice che una moltitudine numerica è infinita per se, quando si richiede all'esistenza stessa di qualche cosa un numero di enti infinito. E questo è impossibile, perché in tal modo una cosa dovrebbe dipendere da infinite cause e quindi non si produrrebbe mai, non potendosi percorrere e attraversare l'infinito.
Una moltitudine numerica si chiama invece infinita per accidens, quando non è richiesta all'esistenza di una qualche realtà un'infinità numerica, ma capita di fatto così. Si può chiarire la cosa in questa maniera, prendendo come esempio l'opera di un fabbro, per la quale si richiede una certa molteplicità numerica necessariamente (per se), cioè l'arte, la mano che muove e il martello. Se questi elementi si moltiplicassero all'infinito, il lavoro del fabbro mai verrebbe a compimento, perché dipenderebbe da cause infinite. Ma la molteplicità dei martelli che si verifica perché se ne rompe uno e se ne piglia un altro, è molteplicità contingente (per accidens): poiché capita di fatto, che il fabbro lavori con molti martelli, ma è del tutto indifferente che lavori con uno, o con due o con più o anche con infiniti martelli, dato che lavori per un tempo infinito. Così quei filosofi ammisero come possibile una moltitudine attualmente infinita per accidens, intesa in questo senso.
Ma ciò è insostenibile. Infatti, ogni molteplicità appartiene necessariamente a una qualche specie di molteplicità: ora, le specie della molteplicità corrispondono alle specie dei numeri: d'altra parte nessuna specie del numero è infinita, perché ogni numero non è altro che una moltitudine misurata dall'unità. Perciò è impossibile che si dia una molteplicità infinita in atto, sia per se, che per accidens. - Ancora: la molteplicità esistente nella natura delle cose è creata; tutto ciò che è creato è compreso sotto una certa intenzione del Creatore, altrimenti l'agente opererebbe invano: quindi è necessario che tutti gli esseri creati siano compresi sotto un numero determinato. È dunque impossibile una moltitudine attualmente infinita, anche solo per accidens.
È però possibile una molteplicità numerica infinita in potenza; perché l'aumento del numero consegue alla divisione dell'estensione quantitativa. Infatti, quanto più una cosa si divide, tanto più numerose sono le parti che ne risultano. Per cui, come si ha l'infinito in potenza dividendo la quantità continua, perché si procede verso la materia, secondo la dimostrazione già fatta; per la stessa ragione si ha l'infinito in potenza anche aumentando il numero.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tutto ciò che è in potenza si riduce all'atto, ma in conformità al proprio modo di essere: il giorno infatti non si riduce all'atto in modo da esistere tutto insieme, ma successivamente. Del pari: un infinito numerico non si riduce all'atto in maniera da essere tutto simultaneamente, ma successivamente, perché dopo un numero qualsiasi, se ne può prendere sempre un altro e così all'infinito.

2. Le specie delle figure partecipano dell'infinità del numero: difatti le specie delle figure sono il triangolo, il quadrato, ecc. Quindi, come una moltitudine numerica infinita non si riduce in atto in modo da esistere tutta insieme, così nemmeno la moltitudine delle figure.

3. Sebbene sia vero che poste alcune cose, se ne possono ammettere delle altre, senza creare delle opposizioni; tuttavia ammetterne infinite si oppone a qualsiasi specie di molteplicità. Perciò non è possibile che ci sia una molteplicità infinita in atto.

martedì 27 settembre 2011

Lode popolare a San Vincenzo de' Paoli

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Riscoprire i Sant - San Vincenzo de' Paoli

Torna anche per questo martedì, l'appunto settimanale volto alla scoperta dei nostri cari Santi! Oggi vogliamo riscoprire la storia di San Vincenzo dé Paoli: sacerdote, che, pieno di spirito sacerdotale, a Parigi si dedicò alla cura dei poveri, riconoscendo nel volto di ogni sofferente quello del suo Signore. Riscopriamone la storia attraverso il consueto tratto biografico seguito da una profonda riflessione del Santo che ci ricorda come servire i poveri equivalga a servire Gesù:

Nella storia della cristianità, fra le innumerevoli schiere di martiri e santi, spiccano in ogni periodo storico delle figure particolari, che nel proprio campo di apostolato, sono diventate dei colossi, su cui si fonda e si perpetua la struttura evangelica, caritatevole, sociale, mistica, educativa, missionaria, della Chiesa.
E fra questi suscitatori di Opere, fondatori e fondatrici di Congregazioni religiose, pastori zelanti di ogni grado, ecc., si annovera la luminosa figura di san Vincenzo de’ Paoli, che fra i suoi connazionali francesi era chiamato “Monsieur Vincent”.

Gli anni giovanili
Vincenzo Depaul, in italiano De’ Paoli, nacque il 24 aprile del 1581 a Pouy in Guascogna (oggi Saint-Vincent-de-Paul); benché dotato di acuta intelligenza, fino ai 15 anni non fece altro che lavorare nei campi e badare ai porci, per aiutare la modestissima famiglia contadina.
Nel 1595 lasciò Pouy per andare a studiare nel collegio francescano di Dax, sostenuto finanziariamente da un avvocato della regione, che colpito dal suo acume, convinse i genitori a lasciarlo studiare; che allora equivaleva avviarsi alla carriera ecclesiastica.
Dopo un breve tempo in collegio, visto l’ottimo risultato negli studi, il suo mecenate, giudice e avvocato de Comet senior, lo accolse in casa sua affidandogli l’educazione dei figli.
Vincenzo ricevette la tonsura e gli Ordini minori il 20 dicembre 1596, poi con l’aiuto del suo patrono, poté iscriversi all’Università di Tolosa per i corsi di teologia; il 23 settembre 1600 a soli 19 anni, riuscì a farsi ordinare sacerdote dall’anziano vescovo di Périgueux (in Francia non erano ancora attive le disposizioni in materia del Concilio di Trento), poi continuò gli studi di teologia a Tolosa, laureandosi nell’ottobre 1604.
Sperò inutilmente di ottenere una rendita come parroco, nel frattempo perse il padre e la famiglia finì ancora di più in ristrettezze economiche; per aiutarla Vincent aprì una scuola privata senza grande successo, anzi si ritrovò carico di debiti.
Fu di questo periodo la strabiliante e controversa avventura che gli capitò; verso la fine di luglio 1605, mentre viaggiava per mare da Marsiglia a Narbona, la nave fu attaccata da pirati turchi ed i passeggeri, compreso Vincenzo de’ Paoli, furono fatti prigionieri e venduti a Tunisi come schiavi.
Vincenzo fu venduto successivamente a tre diversi padroni, dei quali l’ultimo, era un frate rinnegato che per amore del denaro si era fatto musulmano.
La schiavitù durò due anni, finché riacquistò la libertà fuggendo su una barca insieme al suo ultimo padrone da lui convertito; attraversando avventurosamente il Mediterraneo, giunsero il 28 giugno 1607 ad Aigues-Mortes in Provenza.
Ad Avignone il rinnegato si riconciliò con la Chiesa, nelle mani del vicedelegato pontificio Pietro Montorio, il quale ritornando a Roma, condusse con sé i due uomini.
Vincenzo rimase a Roma per un intero anno, poi ritornò a Parigi a cercare una sistemazione; certamente negli anni giovanili Vincenzo de’ Paoli non fu uno stinco di santo, tanto che alcuni studiosi affermano, che i due anni di schiavitù da lui narrati, in realtà servirono a nascondere una sua fuga dai debitori, per la sua fallimentare conduzione della scuola e pensionato privati.
Riuscì a farsi assumere tra i cappellani di corte, ma con uno stipendio di fame, che a stento gli permetteva di sopravvivere, senza poter aiutare la sua mamma rimasta vedova.

Parroco e precettore


Finalmente nel 1612 fu nominato parroco di Clichy, alla periferia di Parigi; in questo periodo della sua vita, avvenne l’incontro decisivo con Pierre de Bérulle, che accogliendolo nel suo Oratorio, lo formò a una profonda spiritualità; nel contempo, colpito dalla vita di preghiera di alcuni parrocchiani, padre Vincenzo ormai di 31 anni, lasciò da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e prese ad insegnare il catechismo, visitare gli infermi ed aiutare i poveri.
Lo stesso de Brulle, gli consigliò di accettare l’incarico di precettore del primogenito di Filippo Emanuele Gondi, governatore generale delle galere.
Nei quattro anni di permanenza nel castello dei signori Gondi, Vincenzo poté constatare le condizioni di vita che caratterizzavano le due componenti della società francese dell’epoca, i ricchi ed i poveri.
I ricchi a cui non mancava niente, erano altresì speranzosi di godere nell’altra vita dei beni celesti, ed i poveri che dopo una vita stentata e disgraziata, credevano di trovare la porta del cielo chiusa, a causa della loro ignoranza e dei vizi in cui la miseria li condannava.
Anche la signora Gondi condivideva le preoccupazioni del suo cappellano, pertanto mise a disposizione una somma di denaro, per quei religiosi che avessero voluto predicare una missione ogni cinque anni, alla massa di contadini delle sue terre; ma nessuna Congregazione si presentò e il cappellano de’ Paoli, intimorito da un compito così grande per un solo prete, abbandonò il castello senza avvisare nessuno.

Gli inizi delle sue fondazioni – Le “Serve dei poveri”
Le fondazioni di Vincenzo de’ Paoli, non scaturirono mai da piani prestabiliti o da considerazioni, ma bensì da necessità contingenti, in un clima di perfetta aderenza alla realtà.
Lasciato momentaneamente il castello della famiglia Gondi, Vincenzo fu invitato dagli oratoriani di de Bérulle, ad esercitare il suo ministero in una parrocchia di campagna a Chatillon-le-Dombez; il contatto con la realtà povera dei contadini, che specie se ammalati erano lasciati nell’abbandono e nella miseria, scosse il nuovo parroco.
Dopo appena un mese dal suo arrivo, fu informato che un’intera famiglia del vicinato, era ammalata e senza un minimo di assistenza, allora lui fece un appello ai parrocchiani che si attivassero per aiutarli, appello che fu accolto subito e ampiamente.
Allora don Vincenzo fece questa considerazione: “Oggi questi poveretti avranno più del necessario, tra qualche giorno essi saranno di nuovo nel bisogno!”. Da ciò scaturì l’idea di una confraternita di pie persone, impegnate a turno ad assistere tutti gli ammalati bisognosi della parrocchia; così il 20 agosto 1617 nasceva la prima ‘Carità’, le cui associate presero il nome di “Serve dei poveri”; in tre mesi l’Istituzione ebbe un suo regolamento approvato dal vescovo di Lione.
La Carità organizzata, si basava sul concetto che tutto deve partire da quell’amore, che in ogni povero fa vedere la viva presenza di Gesù e dall’organizzazione, perché i cristiani sono tali solo se si muovono coscienti di essere un sol corpo, come già avvenne nella prima comunità di Gerusalemme.
La signora Gondi riuscì a convincerlo a tornare nelle sue terre e così dopo la parentesi di sei mesi come parroco a Chatillon-les-Dombes, Vincenzo tornò, non più come precettore, ma come cappellano della massa di contadini, circa 8.000, delle numerose terre dei Gondi.
Prese così a predicare le Missioni nelle zone rurali, fondando le ‘Carità’ nei numerosi villaggi; s. Vincenzo avrebbe voluto che anche gli uomini, collaborassero insieme alle donne nelle ‘Carità’, ma la cosa non funzionò per la mentalità dell’epoca, quindi in seguito si occupò solo di ‘Carità’ femminili.
Quelle maschili verranno riprese un paio di secoli dopo, nel 1833, da Emanuele Bailly a Parigi, con un gruppo di sette giovani universitari, tra cui la vera anima fu il beato Federico Ozanam (1813-1853); esse presero il nome di “Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli”.
Intanto nel 1623 Vincenzo de’ Paoli, si laureò in diritto canonico a Parigi e restò con i Gondi fino al 1625.

Le “Dame della Carità”
Vincenzo de’ Paoli, vivendo a Parigi si rese conto che la povertà era presente, in forma ancora più dolorosa, anche nelle città e quindi fondò anche a Parigi le ‘Carità’; qui nel 1629 le “Suore dei poveri” presero il nome di “Dame della Carità”.
Nell’associazione confluirono anche le nobildonne, che poterono dare un valore aggiunto alla loro vita spesso piena di vanità; ciò permise alla nobiltà parigina di contribuire economicamente alle iniziative fondate da “monsieur Vincent”.
L’istituzione cittadina più importante fu quella detta dell’”Hotel Dieu” (Ospedale), che s. Vincenzo organizzò nel 1634, essa fu il più concreto aiuto al santo nelle molteplici attività caritative, che man mano lo vedevano impegnato; trovatelli, galeotti, schiavi, popolazioni affamate per la guerra e nelle Missioni rurali.
Fra le centinaia di associate a questa meravigliosa ‘Carità’, vi furono la futura regina di Polonia Luisa Maria Gonzaga e la duchessa d’Auguillon, nipote del Primo Ministro, cardinale Richelieu.
Le prime ‘Carità’ vincenziane sorsero in Italia a Roma (1652), Genova (1654), Torino (1656).

I “Preti della Missione” o “Lazzaristi”
Anche in questa fondazione ci fu l’intervento munifico dei signori Gondi; la sua origine si fa risalire alla fortunata predicazione che il fondatore tenne a Folleville il 25 gennaio 1617; le sue parole furono tanto efficaci che non bastarono i confessori.
Il bene ottenuto in quel villaggio, indusse la signora Gondi ad offrire una somma di denaro a quella comunità che si fosse impegnata a predicare periodicamente ai contadini; come già detto non si presentò nessuno, per cui dopo il suo ritorno a Parigi, Vincenzo de’ Paoli prese su di sé l’impegno, aggregandosi con alcuni zelanti sacerdoti e cominciò dal 1618 a predicare nei villaggi.
Il risultato fu ottimo, ed altri sacerdoti si unirono a lui, i signori Gondi aumentarono il finanziamento e anche l’arcivescovo di Parigi diede il suo appoggio, assegnando a Vincenzo ed ai suoi missionari rurali, una casa nell’antico Collegio dei Bons-Enfants in via S. Vittore; il contratto fra Vincenzo de’ Paoli ed i signori Gondi porta la data del 17 aprile 1625.
La nuova comunità, si legge nel contratto, doveva fare vita comune, rinunziare alle cariche ecclesiastiche, e predicare nei villaggi di campagna; inoltre occuparsi dell’assistenza spirituale dei forzati e insegnare il catechismo nelle parrocchie nei mesi estivi.
La “Congregazione della Missione” come si chiamò, fu approvata il 24 aprile 1626 dall’arcivescovo di Parigi, dal re di Francia nel maggio 1627 e da papa Urbano VIII il 12 gennaio 1632.
Intanto i missionari si erano spostati nel priorato di San Lazzaro, da cui prenderanno anche il nome di “Lazzaristi”.
In seguito Vincenzo accettò che i suoi Preti della Missione o Lazzaristi, riuniti in una Congregazione senza voti, si dedicassero alla formazione dei sacerdoti, con Esercizi Spirituali, dirigendo Seminari e impegnandosi nelle Missioni all’estero come in Madagascar, nell’assistenza agli schiavi d’Africa.
Quando morì nel 1660, la sola Casa di San Lazzaro, aveva già dato 840 missioni e un migliaio di persone si erano avvicendate in essa, per turni di Esercizi Spirituali.

Le “Figlie della Carità”
La feconda predicazione nei villaggi, suscitò la vocazione all’apostolato attivo, prima nelle numerose ragazze delle campagne poi in quelle della città; desiderose di lavorare nelle ‘Carità’ a servizio dei bisognosi, ma anche consacrandosi totalmente.
Vincenzo de’ Paoli intuì la grande opportunità di estendere la sua opera assistenziale, lì dove le “Dame della Carità” per la loro posizione sociale, non potevano arrivare personalmente.
Affidò il primo gruppo per la loro formazione, ad una donna eccezionale s. Luisa de Marillac (1591-1660) vedova Le Gras, era il 29 novembre 1633; Luisa de Marillac le accolse in casa sua e nel luglio dell’anno successivo le postulanti erano già dodici.
La nuova Congregazione prese il nome di “Figlie della Carità”; i voti erano permessi ma solo privati ed annuali, perché tutte svolgessero la loro missione nella più piena libertà e per puro amore; l’approvazione fu data nel 1646 dall’arcivescovo di Parigi e nel 1668 dalla Santa Sede.
Nel 1660, anno della morte del fondatore e della stessa cofondatrice, le “Figlie della Carità” avevano già una cinquantina di Case.
Con il loro caratteristico copricapo, che le faceva assomigliare a degli angeli, e a cui le suore hanno dovuto rinunciare nel 1964 per un velo più pratico, esse allargarono la loro benefica attività d’assistenza ai malati negli ospedali, ai trovatelli, agli orfani, ai forzati, ai vecchi, ai feriti di guerra, agli invalidi e ad ogni sorta di miseria umana.
Ancora oggi le Figlie della Carità, costituiscono la Famiglia religiosa femminile più numerosa della Chiesa.

La formazione del clero
Attraverso l’Opera degli Esercizi Spirituali, i Preti della Missione divennero di fatto, i più prestigiosi e qualificati formatori dei futuri sacerdoti, al punto che l’arcivescovo di Parigi dispose che i nuovi ordinandi, trascorressero quindici giorni di preparazione nelle Case dei Lazzaristi, in particolare nel Collegio dei Bons-Enfants di cui Vincenzo de’ Paoli era superiore.
Più tardi, nel priorato di San Lazzaro, l’Opera degli Esercizi Spirituali si estese a tutti gli ecclesiastici che avessero voluto fare un ritiro annuale e anche a folti gruppi di laici.
Da ciò scaturì nei sacerdoti il desiderio di riunirsi settimanalmente, per esortarsi a vicenda nel cammino di una santa vita sacerdotale; così a partire dal 1633, un folto gruppo di ecclesiastici, con la guida di Vincenzo de’ Paoli, prese a riunirsi il martedì, dando vita appunto alle “Conferenze del martedì”.
Tale meritoria opera di formazione non sfuggì al potente cardinale Richelieu, il quale volle essere informato sulla loro attività e chiese pure al fondatore, una lista di nomi degni di essere elevati all’episcopato.
Lo stesso re Luigi XIII, chiese a ‘monsieur Vincent’, una seconda lista di degni ecclesiastici adatti a reggere diocesi francesi; il sovrano poi lo volle accanto al suo letto di morte, per ricevere gli ultimi conforti spirituali.
Anche la direzione dei costituendi Seminari delle diocesi francesi, voluti dal Concilio di Trento, vide sempre nel 1660, ben dodici rettori appartenenti ai Preti della Missione

Alla corte di Francia
Nel 1643, Vincenzo de’ Paoli fu chiamato a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, dalla reggente Anna d’Austria; presieduto dal card. Giulio Mazzarino, il compito del Consiglio era la scelta dei vescovi ed il rilascio di benefici ecclesiastici.
Il potente Primo Ministro faceva scelte di opportunità politica, soprassedendo sulle qualità morali e religiose; era inevitabile lo scontro fra i due, Vincenzo gli si oppose apertamente, anche criticandolo nelle sue scelte di politica interna, specie nei giorni oscuri della Fronda, quando Mazzarino tentò di mettere alla fame Parigi in rivolta, Vincenzo allora organizzò una mensa popolare a San Lazzaro, dando da mangiare a 2000 affamati al giorno.
Nel 1649 giunse a chiedere alla regina, l’allontanamento del Mazzarino per il bene della Francia; la richiesta non poté aver seguito e quindi Vincenzo de’ Paoli cadde in disgrazia e definitivamente allontanato dal Consiglio di Coscienza nel 1652.
La reggente Anna d’Austria gli concesse l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri; si disse che dalle sue mani passasse più denaro che in quelle del ministro delle Finanze.

Altri aspetti della sua opera
Vincenzo de’ Paoli divenne il maggiore oppositore alle idee gianseniste propugnate in Francia dal suo amico Giovanni du Vergier, detto San Cirano († 1642) e poi da Antonio Arnauld; dopo la condanna del giansenismo da parte dei papi Innocenzo X nel 1653 e Alessandro VIII nel 1656, Vincenzo si adoperò, affinché la decisione pontificia fosse accettata con sottomissione da tutti gli aderenti alle idee del vescovo olandese Giansenio (1585-1638).
Il movimento eterodosso del giansenismo affermava, che per la salvezza dell’uomo, a causa della profonda corruzione scaturita dal peccato originale, occorreva l’assoluta necessità della Grazia, la quale sarebbe stata concessa solo ad alcuni, per imperscrutabile disegno di Dio.
Fu riformatore della predicazione, fino allora barocca, introducendo una semplice tecnica oratoria: della virtù scelta per argomento, ricercare la natura, i motivi di praticarla, ed i mezzi più opportuni
Per lui apostolo della carità fra i prigionieri ed i forzati, re Luigi XIII, su suggerimento di Filippo Emanuele Gondi, istituì la carica di Cappellano capo delle galere (8 febbraio 1619), questo gli facilitò il compito e l’accesso nei luoghi di pena e di partenza dei galeotti rematori; dal 1640 il compito passò anche ai suoi Missionari e alle Dame e Figlie della Carità.
Inoltre si calcola che tra il 1645 e il 1661, Vincenzo de’ Paoli e i suoi Missionari, liberarono non meno di 1200 schiavi cristiani in mano ai Turchi musulmani.
Monsieur Vincent fu fin dai primi anni, membro attivo della potente “Compagnia del SS. Sacramento”, sorta a Parigi nel 1630, composta da ecclesiastici e laici insigni e dedita ad “ogni forma di bene”.
Vincenzo de’ Paoli fu spesso ispiratore della benefica attività della Compagnia e da essa ricevé aiuto e collaborazione, per le sue tante opere assistenziali.

Il pensiero spirituale
Nei dodici capitoli delle “Regulae”, Vincenzo ha condensato lo spirito che deve distinguere i suoi figli come religiosi: la spiritualità contemplativa del pensiero del card. de Bérulle, sotto la cui direzione egli rimase per oltre un decennio; l’umanesimo devoto di s. Francesco di Sales, suo grande amico, del quale lesse più volte le opere spirituali e l’ascetismo di s. Ignazio di Lodola, del quale assimilò il temperamento pratico; elaborando da queste tre fonti una nuova dottrina spirituale.
Le virtù caratteristiche dello spirito vincenziano, secondo la Regola dei Missionari, sono le “cinque pietre di Davide”, cioè la semplicità, l’umiltà, la mansuetudine, la mortificazione e lo zelo per la salvezza delle anime.

La morte, patronati


Il grande apostolo della Carità, si spense a Parigi la mattina del 27 settembre 1660 a 79 anni; ai suoi funerali partecipò una folla immensa di tutti i ceti sociali; fu proclamato Beato da papa Benedetto XIII il 13 agosto 1729 e canonizzato da Clemente XII il 16 giugno 1737.
I suoi resti mortali, rivestiti dai paramenti sacerdotali, sono venerati nella Cappella della Casa Madre dei Vincenziani a Parigi.
È patrono del Madagascar, dei bambini abbandonati, degli orfani, degli infermieri, degli schiavi, dei forzati, dei prigionieri. Leone XIII il 12 maggio 1885 lo proclamò patrono delle Associazioni cattoliche di carità.
In San Pietro in Vaticano, una gigantesca statua, opera dello scultore Pietro Bracci, è collocata nella basilica dal 1754, rappresentante il “padre dei poveri”.
La sua celebrazione liturgica è il 27 settembre.

Autore: Antonio Borrelli

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Da alcune «Lettere e conferenze spirituali» di san Vincenzo de’ Paoli, sacerdote
Servire Cristo nei poveri

Non dobbiamo regolare il nostro atteggiamento verso i poveri da ciò che appare esternamente in essi e neppure in base alle loro qualità interiori. Dobbiamo piuttosto considerarli al lume della fede. Il Filgio di Dio ha voluto essere povero, ed essere rappresentato dai poveri. Nella sua passione non aveva quasi la figura di uomo; appariva un folle davanti ai gentili, una pietra di scandalo per i Giudei; eppure egli si qualifica l’evangelizzazione dei poveri: «Mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4, 18). Dobbiamo entrare in questi sentimenti e fare ciò che Gesù ha fatto: curare i poveri, consolarli, soccorrerli, raccomandarli.
Egli stesso volle nascere povero, ricevere nella sua compagnia i poveri, servire i poveri, mettersi al posto dei poveri, fino a dire che il bene o il male che noi faremo ai poveri lo terrà come fatto alla sua persona divina. Dio ama i poveri, e, per conseguenza, ama quelli che amano i poveri. In realtà quando si ama molto qualcuno, si porta affetto ai suoi amici e ai isuoi servitori. Così abbiamo ragione di sperare che, per amore di essi, Dio amerà anche noi. Quando andiamo a visitarli, cerchiamo di capirli per soffrire con loro, e di metterci nella disposizione interiore dell’Apostolo che diceva: «Mi sono fatto tutto a tutti» (1 Cor 9, 22). Sforziamoci perciò di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e che ce lo conservi. Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l’intenzione dell’orazione. Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non é lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate l’orazione per assistere un povero, sappiate che far questo é servire Dio. La carità é superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. E’ una grande signora: bisogna fare ciò che comanda.
Tutti quelli che ameranno i poveri in vita non avranno alcuna timore della morte. Serviamo dunque con rinnovato amore i poveri e cerchiamo i più abbandonati. Essi sono i nostri signori e padroni.(Cfr. lett, 2546, ecc.; Correspondance, entretiens, documents, Paris 1922-1925, passim)

lunedì 26 settembre 2011

"Chi è in ricerca è più vicino a Dio dei fedeli di routine"

Omelia e Angelus di Papa Benedetto XVI - 25 Settembre 2011

 
VIAGGIO APOSTOLICO IN GERMANIA
22-25 SETTEMBRE 2011

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau
 Domenica, 25 settembre 2011


Cari fratelli e sorelle!

Per me è emozionante celebrare qui l’Eucaristia, il Ringraziamento, con tanta gente proveniente da diverse parti della Germania e dai Paesi confinanti. Vogliamo rivolgere il nostro ringraziamento soprattutto a Dio, nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (cfr At 17,28). Ma vorrei ringraziare anche voi tutti per la vostra preghiera a favore del Successore di Pietro, affinché egli possa continuare a svolgere il suo ministero con gioia e fiduciosa speranza e confermare i fratelli nella fede.

“O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono…”, abbiamo detto nella colletta del giorno. Nella prima lettura abbiamo ascoltato come Dio nella storia di Israele ha manifestato il potere della sua misericordia. L’esperienza dell’esilio babilonese aveva fatto cadere il popolo in una profonda crisi di fede: perché era sopravvenuta questa sciagura? Forse Dio non era veramente potente?

Ci sono teologi che, di fronte a tutte le cose terribili che avvengono oggi nel mondo, dicono che Dio non possa essere affatto onnipotente. Di fronte a questo, noi professiamo Dio, l’Onnipotente, il Creatore del cielo e della terra. E noi siamo lieti e riconoscenti che Egli sia onnipotente. Ma dobbiamo, al contempo, renderci conto che Egli esercita il suo potere in maniera diversa da come noi uomini siamo soliti fare. Egli stesso ha posto un limite al suo potere, riconoscendo la libertà delle sue creature. Noi siamo lieti e riconoscenti per il dono della libertà. Tuttavia, quando vediamo le cose tremende, che a causa di essa avvengono, ci spaventiamo. Fidiamoci di Dio, il cui potere si manifesta soprattutto nella misericordia e nel perdono. E siamo certi, cari fedeli: Dio desidera la salvezza del suo popolo. Desidera la nostra salvezza, la mia salvezza, la salvezza di ciascuno. Sempre, e soprattutto in tempi di pericolo e di cambiamento radicale, Egli ci è vicino e il suo cuore si commuove per noi, si china su di noi. Affinché il potere della sua misericordia possa toccare i nostri cuori, ci vuole l’apertura a Lui, ci vuole la libera disponibilità di abbandonare il male, di alzarsi dall’indifferenza e di dare spazio alla sua Parola. Dio rispetta la nostra libertà. Egli non ci costringe. Egli attende il nostro “sì” e lo mendica, per così dire.

Gesù nel Vangelo riprende questo tema fondamentale della predicazione profetica. Racconta la parabola dei due figli che sono invitati dal padre a lavorare nella vigna. Il primo figlio rispose: “«Non ne ho voglia»; ma poi, pentitosi, ci andò” (Mt 21,29). L’altro, invece, disse al padre: “«Sì, signore», ma non andò” (Mt 21,30). Alla domanda di Gesù, chi dei due abbia compiuto la volontà del padre, gli ascoltatori giustamente rispondono: “Il primo” (Mt 21,31). Il messaggio della parabola è chiaro: non contano le parole, ma l’agire, le azioni di conversione e di fede. Gesù – lo abbiamo sentito - rivolge questo messaggio ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo di Israele, cioè agli esperti di religione del suo popolo. Essi, prima, dicono “sì” alla volontà di Dio. Ma la loro religiosità diventa routine, e Dio non li inquieta più. Per questo avvertono il messaggio di Giovanni Battista e il messaggio di Gesù come un disturbo. Così, il Signore conclude la sua parabola con parole drastiche: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli” (Mt 21,31-32). Tradotta nel linguaggio del tempo, l’affermazione potrebbe suonare più o meno così: agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei loro peccati e hanno desiderio di un cuore puro, sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli “di routine”, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato da questo, dalla fede.

Così, la parola deve far riflettere molto, anzi, deve scuotere tutti noi. Questo, però, non significa affatto che tutti coloro che vivono nella Chiesa e lavorano per essa siano da valutare come lontani da Gesù e dal Regno di Dio. Assolutamente no! No, piuttosto è questo il momento per dire una parola di profonda gratitudine ai tanti collaboratori impiegati e volontari, senza i quali la vita nelle parrocchie e nell’intera Chiesa sarebbe impensabile. La Chiesa in Germania ha molte istituzioni sociali e caritative, nelle quali l’amore per il prossimo viene esercitato in una forma anche socialmente efficace e fino ai confini della terra. A tutti coloro che si impegnano nella Caritas tedesca o in altre organizzazioni, oppure che mettono generosamente a disposizione il loro tempo e le loro forze per incarichi di volontariato nella Chiesa, vorrei esprimere, in questo momento, la mia gratitudine e il mio apprezzamento. Tale servizio richiede innanzitutto una competenza oggettiva e professionale. Ma nello spirito dell’insegnamento di Gesù ci vuole di più: il cuore aperto, che si lascia toccare dall’amore di Cristo, e così dà al prossimo, che ha bisogno di noi, più che un servizio tecnico: l’amore, in cui all’altro si rende visibile il Dio che ama, Cristo. Allora interroghiamoci, anche a partire dal Vangelo di oggi: come è il mio rapporto personale con Dio, nella preghiera, nella partecipazione alla Messa domenicale, nell’approfondimento della fede mediante la meditazione della Sacra Scrittura e lo studio del Catechismo della Chiesa Cattolica? Cari amici, il rinnovamento della Chiesa, in ultima analisi, può realizzarsi soltanto attraverso la disponibilità alla conversione e attraverso una fede rinnovata.

Nel Vangelo di questa Domenica - lo abbiamo visto - si parla di due figli, dietro i quali, però, ne sta, in modo misterioso, un terzo. Il primo figlio dice di sì, ma non fa ciò che gli è stato ordinato. Il secondo figlio dice di no, ma compie poi la volontà del padre. Il terzo figlio dice di “sì” e fa anche ciò che gli viene ordinato. Questo terzo figlio è il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, che ci ha tutti riuniti qui. Gesù, entrando nel mondo, ha detto: “Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Questo “sì”, Egli non l’ha solo pronunciato, ma l’ha compiuto e sofferto fin dentro la morte. Nell’inno cristologico della seconda lettura si dice: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2, 6-8). In umiltà ed obbedienza, Gesù ha compiuto la volontà del Padre, è morto sulla croce per i suoi fratelli e le sue sorelle - per noi - e ci ha redenti dalla nostra superbia e caparbietà. Ringraziamolo per il suo sacrificio, pieghiamo le ginocchia davanti al suo Nome e proclamiamo insieme con i discepoli della prima generazione: “Gesù Cristo è il Signore – a gloria di Dio Padre” (Fil 2,10).

La vita cristiana deve misurarsi continuamente su Cristo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), scrive san Paolo nell’introduzione all’inno cristologico. E qualche versetto prima, egli già ci esorta: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi” (Fil 2,1-2). Come Cristo era totalmente unito al Padre ed obbediente a Lui, così i suoi discepoli devono obbedire a Dio ed avere un medesimo sentire tra loro. Cari amici, con Paolo oso esortarvi: rendete piena la mia gioia con l’essere saldamente uniti in Cristo! La Chiesa in Germania supererà le grandi sfide del presente e del futuro e rimarrà lievito nella società, se i sacerdoti, le persone consacrate e i laici credenti in Cristo, in fedeltà alla propria vocazione specifica, collaborano in unità; se le parrocchie, le comunità e i movimenti si sostengono e si arricchiscono a vicenda; se i battezzati e cresimati, in unione con il Vescovo, tengono alta la fiaccola di una fede inalterata e da essa lasciano illuminare le loro ricche conoscenze e capacità. La Chiesa in Germania continuerà ad essere una benedizione per la comunità cattolica mondiale, se rimane fedelmente unita con i Successori di san Pietro e degli Apostoli, se cura in molteplici modi la collaborazione con i Paesi di missione e si lascia anche “contagiare” in questo dalla gioia nella fede delle giovani Chiese.

Con l’esortazione all’unità, Paolo collega il richiamo all’umiltà. Egli dice: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). L’esistenza cristiana è una pro-esistenza: un esserci per l’altro, un impegno umile per il prossimo e per il bene comune. Cari fedeli, l’umiltà è una virtù che nel mondo di oggi e, in genere, di tutti i tempi, non gode di grande stima. Ma i discepoli del Signore sanno che questa virtù è, per così dire, l’olio che rende fecondi i processi di dialogo, possibile la collaborazione e cordiale l’unità. Humilitas, la parola latina per “umiltà”, ha a che fare con humus, cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Le persone umili stanno con ambedue i piedi sulla terra. Ma soprattutto ascoltano Cristo, la Parola di Dio, la quale rinnova ininterrottamente la Chiesa ed ogni suo membro.

Chiediamo a Dio il coraggio e l’umiltà di camminare sulla via della fede, di attingere alla ricchezza della sua misericordia e di tenere fisso lo sguardo su Cristo, la Parola che fa nuove tutte le cose, che per noi è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), che è il nostro futuro. Amen.

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ANGELUS

Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau
 Domenica, 25 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

vogliamo concludere ora questa solenne Santa Messa con l’Angelus. Questa preghiera ci fa ricordare sempre di nuovo l’inizio storico della nostra salvezza. L’Arcangelo Gabriele presenta alla Vergine Maria il piano di salvezza di Dio, secondo il quale Ella avrebbe dovuto diventare la Madre del Redentore. Maria rimane turbata. Ma l’Angelo del Signore Le dice una parola di consolazione: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.” Così Maria può dire il suo grande “sì”. Questo “sì” all’essere serva del Signore è l’affermazione fiduciosa al piano di Dio e alla nostra salvezza. E, infine, Maria dice questo “sì” a tutti noi, che sotto la croce le siamo stati affidati come figli (cfr Gv 19,27). Non revoca mai questa promessa. Ed è per questo che Ella deve essere chiamata felice, anzi, beata perché ha creduto nel compimento di ciò che Le era stato detto dal Signore (cfr Lc 1,45). Recitando ora questo saluto dell’Angelo, possiamo unirci a questo “sì” di Maria e aderire fiduciosamente alla bellezza del piano di Dio e della provvidenza che Egli, nella sua grazia, ha riservato per noi. Allora, anche nella nostra vita l'amore di Dio diventerà, per così dire, carne, prenderà sempre più forma. Non dobbiamo avere paura in mezzo a tutte le nostre preoccupazioni. Dio è buono. Allo stesso tempo, possiamo sentirci sostenuti dalla comunità dei tanti fedeli che in quest’ora pregano l’Angelus con noi, in tutto il mondo, attraverso la televisione e la radio.

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domenica 25 settembre 2011

Video Vangelo: XXVI ordinario (A)

Il Signorsì e il Signornò

26^ Domenica Tempo Ordinario
(Mt 21, 28-32)  

Siamo ancora sempre nella vigna. Oggi vediamo un padre, due figli, un invito e un pentimento. Il padre rivolge l’invito ad entrambi i figli che non hanno la minima voglia di andare a lavorare nella vigna: il primo dice sì, ma poi va chissà dove, l’altro dice no e chissà dov’è. Però interviene il pentimento che si impadronisce del signornò che si pente d’aver detto “no” e ci và. Mentre il signorsì non si sa se si penta d’aver detto “sì”, ma il fatto è che se la svigna e alla vigna non ci và.

• Divieti di sorpasso aboliti

Ecco come si rovesciano le situazioni: domenica scorsa avevamo visto gli ultimi diventare primi e oggi vediamo i lontani diventare vicini: i pubblicani e i peccatori sorpassare i principi e i dottori, infrangendo i divieti di sorpasso stabiliti dai sommi capi, ma aboliti dal Maestro in persona: ”In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”.
Perché questo avanzamento così rapido? Perché chi ha toccato il fondo non fa più affidamento sui propri meriti (che non ci sono), ma unicamente sulla misericordia divina. Quindi è possibile a tutti, anche a noi, questo avanzamento rapido di “carriera” (chi non l’ha sognato una volta o l’altra nella vita?…) perché se riponiamo tutta la nostra speranza e fiducia in Lui, e non in noi stessi, a Lui tutto è possibile. Se contiamo sulla Sua fedeltà, quella non ci verrà mai a mancare.

• Dietrofront per i “vicini”

Mentre la situazione è ribaltata per i sommi capi che contavano sulla loro fedeltà alla legge: ecco che da “vicini” - come presumevano di essere - diventano “lontani”, perché la loro osservanza è solo legalismo esteriore, ma il loro cuore è lontano, chiuso, freddo e duro. “E’ venuto a voi Giovanni e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto: voi al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli”.
Da qui vediamo l’importanza di fidarci totalmente del Signore e diffidare della nostra libertà che può sempre giocarci brutti tiri. Già la prima lettura ci presenta la situazione del giusto che abbandona la retta via e muore nell’iniquità, ma per fortuna anche l’inverso è possibile e l’iniquo può sempre abbandonare la strada sbagliata per imboccare la via giusta e salvarsi.
L’accento del Vangelo di oggi viene messo sul fare la volontà del Padre, come fece poi il secondo figlio. Se vogliamo realizzarci, anche umanamente, dobbiamo saper superare la libertà della carne (= fare i propri comodi) per scegliere la sovrana libertà dello spirito, cioè voler fare ciò che piace al Signore. Allora la salvezza potrà anche essere istantanea e, da ultimi potremo anche diventare primi a grande velocità . Non era successo così al buon ladrone?

• Salvati a grande velocità

Nel regime dei Cieli aperti - cioè dopo la venuta di Gesù - la salvezza può essere immediata perché è la Sua grazia che ci salva. A cancellare il peccato come non fosse mai esistito, può bastare un vero e profondo dolore per il male commesso. Oppure può bastare un intensissimo desiderio di vedere DIO faccia a faccia, per essere rapiti in Cielo, com’era successo alla beata Imelda, che avendo un desiderio intenso di ricevere l’Eucaristia dopo averla ricevuta, morì di gioia. Subito!
Invece nel regime dei cieli chiusi, cioè nell’Antico Testamento, era preferibile lavorare tutta una lunga giornata, cioè vivere una lunga vita e accumulare opere buone, perché le porte del Paradiso erano ancora chiuse. Quindi tanto valeva vivere a lungo sulla Terra, piuttosto che fare poi l’anticamera nello sheol, in attesa del Salvatore.
Accogliamo dunque con gioia la grazia del Signore e sfruttiamo a fondo questo tempo di misericordia ( dopo ci sarà solo più la giustizia) per fare dietrofront se siamo sulla strada sbagliata e vivere pienamente l’amicizia che Gesù vuole darci. A tutti.

Wilma Chasseur

LaDomenica

sabato 24 settembre 2011

"Laicità non è rifiuto del ruolo sociale della religione"

In difesa della vita - Evangelium vitae - XXX

Torna l'appuntamento con la Lettera Enciclica "Evangelium vitae", in difesa della vita. Il Beato Giovanni Paolo II ci introduce oggi in un dibattito di notevole portata attuale, concernente lo "scontro" tra morale e diritto, tra legge morale e legge civile. Questo sconto va avanti ormai da qualche decennio e ha portato alla "legalizzazione" di pratiche immorali quali l'aborto e alla discussioni di proposte legislative relative al delicato tema dell'eutanasia. Iniziamo a vedere qual era il pensiero di Karol Wojtyla su questa scottante tematica e cerchiamo di riflettere, attraverso le sue parole, su cosa possiamo fare nell'attuale contesto sociale: 

«Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29): la legge civile e la legge morale

68. Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana — come si è già detto più volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro legittimazione giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini e, conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori sanitari.

Si pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente debilitato sia un bene solo relativo: secondo una logica proporzionalista o di puro calcolo, dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e vi è personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò, nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad ammettere l'aborto e l'eutanasia.

Si pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti i cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi stessi riconoscono e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un aumento di pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario controllo sociale e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se sostenere una legge concretamente non applicabile non significhi, alla fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge.

Nelle opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a svantaggio delle altre.

69. In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico.

Si registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato, si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con un'abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica.

70. Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e all'intolleranza.

Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa posizione.

È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della «verità». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del «relativismo etico». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione «tirannica» nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?

In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo «segno dei tempi», come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato.88 Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.

Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.89

Qualcuno potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.

 

venerdì 23 settembre 2011

San Pio Da Pietrelcina

Ricordando San Pio da Pietrelcina

Carissimi, oggi deroghiamo la normale programmazione per celebrare il ricordo di San Pio da Pietrelcina, scelto dalla Piccola Vigna del Signore quale santo protettore. Vogliamo adempiere questo nostro dovere spirituale, riportando la mente al momento della canonizzazione del santo di Pietrelcina: per questo motivo, pubblichiamo il testo integrale dell'omelia del Beato Giovanni Paolo II, uomo da sempre vicino a Padre Pio durante il suo tragitto terreno (e ora sicuramente compagno di vita eterna): 

CANONIZZAZIONE DI PADRE PIO DA PIETRELCINA


OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II


Domenica, 16 giugno 2002


1. "Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11, 30).

Le parole di Gesù ai discepoli, che abbiamo appena ascoltato, ci aiutano a comprendere il messaggio più importante di questa solenne celebrazione. Possiamo infatti considerarle, in un certo senso, come una magnifica sintesi dell'intera esistenza di Padre Pio da Pietrelcina, oggi proclamato santo.

L'immagine evangelica del «giogo» evoca le tante prove che l'umile cappuccino di San Giovanni Rotondo si trovò ad affrontare. Oggi contempliamo in lui quanto sia dolce il «giogo» di Cristo e davvero leggero il suo carico quando lo si porta con amore fedele. La vita e la missione di Padre Pio testimoniano che difficoltà e dolori, se accettati per amore, si trasformano in un cammino privilegiato di santità, che apre verso prospettive di un bene più grande, noto soltanto al Signore.

2. "Quanto a me... non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo" (Gal 6, 14).

Non è forse proprio il "vanto della Croce" ciò che maggiormente risplende in Padre Pio? Quanto attuale è la spiritualità della Croce vissuta dall'umile Cappuccino di Pietrelcina! Il nostro tempo ha bisogno di riscoprirne il valore per aprire il cuore alla speranza.

In tutta la sua esistenza, egli ha cercato una sempre maggiore conformità al Crocifisso, avendo ben chiara coscienza di essere stato chiamato a collaborare in modo peculiare all'opera della redenzione. Senza questo costante riferimento alla Croce non si comprende la sua santità.

Nel piano di Dio, la Croce costituisce il vero strumento di salvezza per l'intera umanità e la via esplicitamente proposta dal Signore a quanti vogliono mettersi alla sua sequela (cfr Mc 16, 24). Lo ha ben compreso il Santo Frate del Gargano, il quale, nella festa dell'Assunta del 1914, scriveva: "Per arrivare a raggiungere l'ultimo nostro fine bisogna seguire il divin Capo, il quale non per altra via vuol condurre l'anima eletta se non per quella da lui battuta; per quella, dico, dell'abnegazione e della Croce" (Epistolario II, p. 155).

3. "Io sono il Signore che agisce con misericordia" (Ger 9, 23).

Padre Pio è stato generoso dispensatore della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l'accoglienza, la direzione spirituale, e specialmente l'amministrazione del sacramento della Penitenza. Il ministero del confessionale, che costituisce uno dei tratti distintivi del suo apostolato, attirava folle innumerevoli di fedeli al Convento di San Giovanni Rotondo. Anche quando quel singolare confessore trattava i pellegrini con apparente durezza, questi, presa coscienza della gravità del peccato e sinceramente pentiti, quasi sempre tornavano indietro per l'abbraccio pacificante del perdono sacramentale.

Possa il suo esempio animare i sacerdoti a compiere con gioia e assiduità questo ministero, tanto importante anche oggi, come ho voluto ribadire nella Lettera ai Sacerdoti in occasione del passato Giovedì Santo.

4. "Sei tu Signore, l'unico mio bene".

Così abbiamo cantato nel Salmo Responsoriale. Attraverso queste parole il nuovo Santo ci invita a porre Dio al di sopra di tutto, a considerarlo come il solo e sommo nostro bene.

In effetti, la ragione ultima dell'efficacia apostolica di Padre Pio, la radice profonda di tanta fecondità spirituale si trova in quella intima e costante unione con Dio di cui erano eloquenti testimonianze le lunghe ore trascorse in preghiera. Amava ripetere: "Sono un povero frate che prega", convinto che "la preghiera è la migliore arma che abbiamo, una chiave che apre il Cuore di Dio". Questa fondamentale caratteristica della sua spiritualità continua nei «Gruppi di Preghiera» da lui fondati, che offrono alla Chiesa e alla società il formidabile contributo di una orazione incessante e fiduciosa. Alla preghiera Padre Pio univa poi un'intensa attività caritativa di cui è straordinaria espressione la "Casa Sollievo della Sofferenza". Preghiera e carità, ecco una sintesi quanto mai concreta dell'insegnamento di Padre Pio, che quest'oggi viene a tutti riproposto.

5. "Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra perché... queste cose... le hai rivelate ai piccoli" (Mt 11, 25).

Quanto appropriate appaiono queste parole di Gesù, quando le si pensa riferite a te, umile ed amato Padre Pio.
Insegna anche a noi, ti preghiamo, l'umiltà del cuore, per essere annoverati tra i piccoli del Vangelo, ai quali il Padre ha promesso di rivelare i misteri del suo Regno.

Aiutaci a pregare senza mai stancarci, certi che Iddio conosce ciò di cui abbiamo bisogno, prima ancora che lo domandiamo.

Ottienici uno sguardo di fede capace di riconoscere prontamente nei poveri e nei sofferenti il volto stesso di Gesù.

Sostienici nell'ora del combattimento e della prova e, se cadiamo, fa che sperimentiamo la gioia del sacramento del Perdono.

Trasmettici la tua tenera devozione verso Maria, Madre di Gesù e nostra.

Accompagnaci nel pellegrinaggio terreno verso la Patria beata, dove speriamo di giungere anche noi per contemplare in eterno la Gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen!

giovedì 22 settembre 2011

Benedetto XVI: La Chiesa è amica dei poveri.

Discorso di Papa Benedetto XVI - 19 Settembre 2011

Non essendoci stata l'Udienza Generale nella giornata di ieri, pubblichiamo l'ultimo discorso di Papa Benedetto XVI tenutosi lo scorso 19 settembre nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo quando ha ricevuto i vescovi della Conferenza Episcopale dell'India in visita "ad limina apostolorum":


DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI 
AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DELL'INDIA 
IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM"

Sala del Concistoro, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Lunedì, 19 settembre 2011

(Foto de L'Osservatore Romano)

Cari Fratelli Vescovi,

vi porgo un affettuoso e fraterno benvenuto in occasione della vostra visita ad limina Apostolorum, una gioiosa opportunità per rafforzare i vincoli di comunione fra la Chiesa in India e la Sede di Pietro. Desidero ringraziare il Reverendissimo Vincent Concessao per le gentili parole pronunciate in vece e a nome di quanti sono affidati alla vostra cura pastorale. Rivolgo i miei cordiali saluti ai sacerdoti, ai religiosi, uomini e donne, e ai laici delle vostre varie Diocesi. Vi prego di assicurarli delle mie preghiere e della mia sollecitudine spirituale.

Le più significative risorse concrete delle Chiese che guidate non sono gli edifici, le scuole, gli orfanotrofi, i conventi o le canoniche, ma gli uomini, le donne e i bambini della Chiesa in India che fanno vivere la fede, che rendono testimonianza della presenza amorevole di Dio attraverso vite di santità. Come parte di un patrimonio ricco e antico, l’India vanta una presenza cristiana antica e ragguardevole, che ha contribuito alla società indiana e ha recato beneficio alla vostra cultura in innumerevoli modi, arricchendo la vita di tantissimi cittadini, non solo cattolici. L’enorme benedizione della fede in Dio e nel suo Figlio, Gesù Cristo, di cui i membri della Chiesa recano testimonianza nel vostro Paese, li motiva ad agire in modo altruistico, gentile, amorevole e caritatevole (cfr. 2 Cor 5, 14). Ancor più importante è che la Chiesa in India proclama la sua fede e il suo amore alla società in generale, li realizza attraverso l’interesse per tutte le persone, in ogni aspetto della loro vita spirituale e materiale. Che essi siano ricchi o poveri, anziani o giovani, maschi o femmine, di antica tradizione cristiana o accolti nella fede di recente, la Chiesa non può non vedere nella fede dei suoi membri, individualmente e collettivamente, un grande segno di speranza per l’India e per il suo futuro.

In particolare, la Chiesa cattolica è amica dei poveri. Come Cristo, essa accoglie senza eccezioni tutti coloro che le si avvicinano per ascoltare il messaggio divino di pace, speranza e salvezza. Inoltre, in obbedienza al Signore, continua a farlo senza considerare «tribù, lingua, popolo e nazione» (cfr. Ap 5, 9), perché in Cristo, siamo «un solo corpo» (cfr. Rm 12, 5). È dunque indispensabile che il clero, i religiosi e i catechisti nelle vostre Diocesi siano attenti alle diverse circostanze linguistiche, culturali ed economiche di quanti servono.

Inoltre, se le Chiese locali garantiscono l’offerta di una formazione appropriata a coloro che, motivati in modo autentico dall’amore verso Dio e verso il prossimo, desiderano diventare cristiani, esse resteranno fedeli al comandamento di Cristo di ammaestrare «tutte le nazioni» (cfr. Mt 28, 19). Sebbene voi, cari Fratelli, dobbiate prendere in considerazione le sfide implicite nella natura missionaria della Chiesa, dovete sempre essere pronti a diffondere il Regno di Dio e a seguire le orme di Cristo che fu egli stesso incompreso, disprezzato, falsamente accusato e soffrì per amore della verità.

Non lasciatevi scoraggiare quando sorgono problemi nel vostro ministero e in quello dei vostri sacerdoti e religiosi. La nostra fede nella certezza della resurrezione di Cristo ci dà la fiducia e il coraggio per affrontare tutto ciò che può accadere e per andare avanti, edificando il Regno di Dio, aiutati, come sempre, dalla grazia dei sacramenti e dalla meditazione orante delle Scritture. Dio accoglie tutti, senza distinzione, nell’unione con Lui, attraverso la Chiesa. Così anche io prego affinché la Chiesa in India continui ad accogliere tutti, specialmente i poveri, e a essere un ponte esemplare fra gli uomini e Dio.

Infine, miei cari fratelli Vescovi, osservo con gratitudine i vari sforzi che le Chiese locali in India hanno fatto per commemorare il venticinquesimo anniversario della prima visita apostolica di Papa Giovanni Paolo II nel vostro Paese. Nel corso di quelle giornate memorabili, tenne vari incontri con responsabili di altre tradizioni religiose. Manifestando il suo rispetto personale per gli interlocutori, quel Papa benedetto diede una testimonianza autentica del valore del dialogo interreligioso. Rinnovo i sentimenti che espresse così bene: «Operare per il raggiungimento e la difesa di tutti i diritti umani, ivi incluso il diritto fondamentale ad adorare Dio secondo i dettami di una retta coscienza e di professare esteriormente questa fede, deve divenire ancor più tema di collaborazione tra religioni a tutti i livelli. (Giovanni Paolo II, Incontro con i Rappresentanti delle diverse tradizioni religiose e culturali, 2 febbraio 1986). Vi incoraggio, cari Fratelli, a portare avanti gli sforzi della Chiesa per promuovere il benessere della società indiana attraverso l’attenzione costante alla promozione dei diritti fondamentali, diritti condivisi da tutta l’umanità, e invitando i cristiani e i seguaci di altre religioni ad accettare la sfida di affermare la dignità di ogni persona umana. La dignità, espressa nel rispetto per i diritti materiali, spirituali, morali innati della persona e nella loro promozione, non è soltanto una concessione di una qualsiasi autorità terrena. È il dono del Creatore e deriva dal fatto che siamo creati a sua immagine e somiglianza. Prego affinché i seguaci di Cristo in India continuino a essere promotori di giustizia, portatori di pace, persone di dialogo rispettoso e amanti della verità su Dio e sull’uomo.

Con queste riflessioni, cari fratelli Vescovi, vi rinnovo i miei sentimenti di affetto e di stima. Vi affido tutti all’intercessione del beato Papa Giovanni Paolo II, che di certo porta il suo affetto per l’India davanti al trono del nostro Padre celeste. Assicurandovi delle mie preghiere per voi e per quanti sono affidati alla vostra cura pastorale, sono lieto di impartire la mia Benedizione Apostolica quale pegno di grazia e di pace nel Signore.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 21 settembre 2011

Razionalismo e irrazionalità

La Summa Teologica - Trentasettesima parte

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni:

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

L'infinità di Dio > Se si possa dare un infinito attuale in estensione

Prima parte
Questione 7
Articolo 3

SEMBRA che si possa dare un infinito attuale in estensione. Infatti: 1. Nelle matematiche non c'è falsità, perché "l'astrazione non è un mendacio", come dice Aristotele. Ora, le matematiche usano dell'infinito in estensione; dice infatti il geometra nelle sue dimostrazioni: sia tale linea infinita. Dunque non è impossibile che si dia un infinito in estensione.

2. Ciò che non è contro la natura di un oggetto, non è impossibile che gli convenga. Ora, l'infinito non è contro la natura dell'estensione: ché anzi finito ed infinito sembrano essere denominazioni proprie della quantità. Dunque non ripugna un'estensione infinita.

3. L'estensione è divisibile all'infinito: così, infatti, si definisce il continuo: "Ciò che è divisibile all'infinito", come dice Aristotele. Ora, i contrari son fatti per prodursi a riguardo di un identico oggetto (o qualità). Siccome dunque, alla divisione si oppone l'addizione ed alla diminuzione l'aumento, pare che l'estensione (come è divisibile all'infinito) possa crescere all'infinito. Dunque è possibile un'estensione infinita.

4. Moto e tempo misurano la loro quantità e la loro continuità dall'estensione percorsa dal moto, come dice Aristotele. Ma non è contro la natura del tempo e del moto di essere infiniti: dal momento che ogni (punto e ogni istante) indivisibile segnato nel tempo e nel moto circolare è insieme inizio e termine. Non è perciò contro la natura dell'estensione di essere infinita.

IN CONTRARIO: Ogni corpo ha una superficie. Ma ogni corpo avente una superficie è limitato; perché la superficie è la terminazione di un corpo finito. Dunque ogni corpo è limitato. E lo stesso può dirsi della superficie e della linea. Niente è quindi infinito in estensione.

RISPONDO: Altra cosa è l'infinito secondo l'essenza, altra l'infinito secondo l'estensione. Infatti, dato che ci fosse un corpo infinito per estensione, come il fuoco o l'aria, non sarebbe tuttavia infinito secondo l'essenza; perché la sua essenza sarebbe limitata ad una specie dalla sua forma e a un determinato individuo dalla sua materia. Perciò, accertato ormai dai precedenti, che nessuna creatura è infinita secondo l'essenza, resta ancora da indagare se qualche cosa di creato possa essere infinito per estensione.
Bisogna dunque sapere che corpo, il quale è un'estensione completa (cioè a tre dimensioni), può prendersi in due significati; e cioè in senso matematico, se si considera in esso soltanto la quantità; e in senso fisico, se si considera in esso la materia e la forma. Ora, che il corpo fisico non possa essere infinito in atto, è chiaro. Infatti ogni corpo naturale ha una sua forma sostanziale determinata; e siccome ad ogni forma sostanziale conseguono degli accidenti, ne viene per necessità che ad una forma determinata conseguano degli accidenti parimenti determinati, tra i quali c'è la quantità. Donde segue che ogni corpo fisico ha una determinata quantità, estesa più o meno (entro certi limiti). E perciò è impossibile che un corpo fisico sia infinito. - Ciò appare anche dal movimento. Infatti, ogni corpo naturale ha un suo moto naturale; ma un corpo che fosse infinito non potrebbe avere nessun moto naturale; non il moto rettilineo, perché niente si muove per natura in tal modo, se non quando è fuori del suo luogo, e ciò non potrebbe avvenire per un corpo che fosse infinito, perché occuperebbe tutto lo spazio, e così ogni luogo sarebbe indifferentemente il suo luogo proprio. E così pure non potrebbe avere neanche il moto circolare, perché nel moto circolare è necessario che una parte del corpo si trasferisca nel luogo in cui era prima un'altra parte; e questo non potrebbe avvenire in un corpo circolare se lo immaginiamo infinito; perché due linee partenti dal centro, più si allontanano dal centro più si distanziano tra di loro; e perciò se un corpo fosse infinito, le due linee verrebbero ad essere tra loro distanti all'infinito, e così mai l'una potrebbe pervenire al luogo dell'altra.
La stessa ragione vale se parliamo di un corpo matematico. Perché se immaginiamo un corpo matematico esistente in atto, bisogna che lo immaginiamo sotto una forma determinata, poiché niente è in atto se non in forza della sua forma. Quindi, siccome la forma dell'essere quantitativo come tale, è la figura geometrica, esso avrà necessariamente una qualche figura. E così sarà limitato; perché la figura non è altro che ciò che è compreso in uno o più limiti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il geometra non ha bisogno di supporre che una linea sia infinita in atto; ha bisogno invece di prendere una linea attualmente limitata, dalla quale si possa sottrarre quanto è necessario: e questa linea la chiama infinita.

2. È vero che l'idea d'infinito non ripugna all'idea d'estensione in genere, ma tuttavia è in contraddizione col concetto di qualsiasi specie di estensione, cioè con la quantità di due cubiti, di tre cubiti, con quella circolare o triangolare e simili. Ora, non è possibile che sia in un genere quello che non è in alcuna delle sue specie. È quindi impossibile che si dia un'estensione infinita, dal momento che nessuna specie di estensione è infinita.

3. L'infinito che compete alla quantità, come si è detto, è quello che si riferisce alla materia. Ora, con la divisione di un tutto ci si accosta alla materia, perché le parti hanno carattere di materia; mentre con l'addizione si va verso il tutto, il quale ha carattere di forma. E perciò non si ha infinito nell'addizionare la quantità, ma solo nel dividerla.

4. Il movimento e il tempo non sono in atto nella loro totalità, ma successivamente, e quindi sono un misto di potenza e di atto, mentre l'estensione è tutta in atto. E perciò, l'infinito, che conviene alla quantità e che risulta da parte della materia, ripugna alla totalità dell'estensione, non ripugna invece alla totalità del tempo e del moto, perché la potenzialità è propria della materia.