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sabato 30 aprile 2011

Beato Giovanni Paolo II

In difesa della vita - Evangelium vitae - X

Torna l'appuntamento con la Lettera Enciclica "Evangelium vitae", in difesa della vita. Oggi quest'appuntamento assume un significato particolare perchè siamo alla vigilia di un evento meraviglioso che concerne l'autore di quest'Enciclica e cioè il Venerabile Giovanni Paolo II: domani, infatti, egli sarà finalmente beatificato!! 
Ecco perchè oggi quest'appuntamento assume un significato maggiore e allora continuiamo a leggere il pensiero del caro Papa polacco sull'importanza inviolabile della vita:
 

SONO VENUTO PERCHE’ ABBIANO LA VITA

"Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato" (Es 15, 2):

La vita è sempre un bene

31. In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è preparata già nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo, fulcro dell'esperienza di fede dell'Antico Testamento, che Israele scopre quanto la sua vita sia preziosa agli occhi di Dio. Quando sembra ormai votato allo sterminio, perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di morte (cf. Es 1, 15-22), il Signore gli si rivela come salvatore, capace di assicurare un futuro a chi è senza speranza. Nasce così in Israele una precisa consapevolezza: la sua vita non si trova alla mercé di un faraone che può usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è l'oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio. La liberazione dalla schiavitù è il dono di una identità, il riconoscimento di una dignità indelebile e l'inizio di una storia nuova, in cui la scoperta di Dio e la scoperta di sé vanno di pari passo. È una esperienza, quella dell'Esodo, fondante ed esemplare. Israele vi apprende che, ogni volta in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da ricorrere a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza: "Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me" (Is 44, 21).
Così, mentre riconosce il valore della propria esistenza come popolo, Israele progredisce anche nella percezione del senso e del valore della vita in quanto tale. È una riflessione che si sviluppa in modo particolare nei libri sapienziali, muovendo dalla quotidiana esperienza della precarietà della vita e dalla consapevolezza delle minacce che la insidiano.
Di fronte alle contraddizioni dell'esistenza, la fede è provocata ad offrire una risposta. È soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a metterla alla prova. Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del libro di Giobbe? L'innocente schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato a chiedersi: "Perché dare la luce ad un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro?" (3, 20-21). Ma anche nella più fitta oscurità la fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del "mistero": "Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te" (Gb 42, 2).
Progressivamente la Rivelazione fa cogliere con sempre maggiore chiarezza il germe di vita immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini: "Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore" (Qo 3, 11). Questo germe di totalità e di pienezza attende di manifestarsi nell'amore e di compiersi, per dono gratuito di Dio, nella partecipazione alla sua vita eterna.


venerdì 29 aprile 2011

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Trentasettesimo appuntamento

 Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Siamo usciti da poco dal tempo quaresimale: oggi scopriamo come San Pio ha vissuto le "Quaresime" durante la sua vita: 

XV
Quaresime e penitenze

Una robusta "disciplina"

Per Padre Pio le Quaresime erano cinque all'anno, sull'esempio di san Francesco: la Quaresima della «benedetta», dall'Epifania al 14 febbraio; quella prima di Pasqua; quella dell'Assunta, che terminava il 15 agosto; quella di san Michele Arcangelo, che terminava il 29 settembre; quella dell'Avvento, che terminava a Natale. In tutti questi periodi, e dunque complessivamente per oltre la metà dell'anno, il suo già scarso vitto veniva ancor più ridotto perché, come ha raccontato il suo assistente padre Eusebio Notte, «egli temeva di superare il quantitativo permesso!».

Rispetto al clima di penitenza che già normalmente caratterizzava la vita del Padre, queste ulteriori mortificazioni non avevano altro scopo se non quello di consentirgli un immersione ancor più intensa nel mistero di Cristo, vittima per la redenzione dell'umanità.

Sin da quando aveva soltanto dieci anni d'età, aveva voluto sperimentare sulla propria carne cio che per Gesù era stata la Passione. Mamma Giuseppa lo scopri un giorno mentre si percuoteva a spalle nude con una catena di ferro. Allibita gli chiese: «Che fai? Sei ammattito?». E il bambino:

«Mi devo battere come i giudei hanno battuto Gesù e gli hanno fatto uscire il sangue. Anch'io voglio avere le spalle insanguinate come le ebbe Gesù».

Durante il periodo di preparazione al sacerdozio, Fra Pio e gli altri novizi si autoflagellavano tre volte la settimana, al buio nel salone comune. La consuetudine, definita "disciplina" nel linguaggio dei frati, gli appartenne per tutta la vita, ogni lunedì, mercoledì e venerdì. E i confratelli hanno testimoniato che lui la praticava sul serio, tanto che gli incaricati delle pulizie rinvenivano spesso i suoi indumenti intimi intrisi di sangue.

In particolare padre Raffaele da Sant'Elia a Pianisi ha raccontato di essersi più volte fermato dietro la porta del coro, nel corridoio, e di aver sentito Padre Pio nella sua stanza disciplinarsi a sangue, dicendo il Miserere a mezza voce: «Una sera, mentre eravamo a cena, all'improvviso si presenta a refettorio, mi chiama e andiamo in cella. Si era flagellato e si era impressionato, perché il sangue colava e non si arrestava. Gli applicai la medicina per arrestare l'emorragia e poi lo lasciai solo. Mi accorsi che soffriva immensamente, avendo dovuto umiliarsi a tanto».

Anche padre Andrea da Castelgandolfo, che tornando da Roma desiderava salutare il Padre, si fermò dinanzi alla sua cella e udì che all'interno Padre Pio stava battendosi con violenza. Il cappuccino non si accontentava infatti delle cordicelle utilizzate da altri frati. Ricorda don Nello Castello:

«Cleonice Morcaldi e la contessa Telfner mi parlavano della "disciplina" di Padre Pio, che egli desiderava fatta di catenelle e robusta, tanto che una volta ne scartò una perché troppo debole».

 

Incontro tra Giovanni Paolo II e Padre Pio

giovedì 28 aprile 2011

"Pasqua è trasformare il mondo con l'amore del Risorto"

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 27 Aprile 2011


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
 Mercoledì, 27 aprile 2011


L'ottava di Pasqua

Cari fratelli e sorelle,

in questi primi giorni del Tempo Pasquale, che si prolunga fino a Pentecoste, siamo ancora ricolmi della freschezza e della gioia nuova che le celebrazioni liturgiche hanno portato nei nostri cuori. Pertanto, oggi vorrei riflettere con voi brevemente sulla Pasqua, cuore del mistero cristiano. Tutto, infatti, prende avvio da qui: Cristo risorto dai morti è il fondamento della nostra fede. Dalla Pasqua si irradia, come da un centro luminoso, incandescente, tutta la liturgia della Chiesa, traendo da essa contenuto e significato. La celebrazione liturgica della morte e risurrezione di Cristo non è una semplice commemorazione di questo evento, ma è la sua attualizzazione nel mistero, per la vita di ogni cristiano e di ogni comunità ecclesiale, per la nostra vita. Infatti, la fede nel Cristo risorto trasforma l’esistenza, operando in noi una continua risurrezione, come scriveva san Paolo ai primi credenti: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5, 8-9).

Come possiamo allora far diventare “vita” la Pasqua? Come può assumere una “forma” pasquale tutta la nostra esistenza interiore ed esteriore? Dobbiamo partire dalla comprensione autentica della risurrezione di Gesù: tale evento non è un semplice ritorno alla vita precedente, come lo fu per Lazzaro, per la figlia di Giairo o per il giovane di Nain, ma è qualcosa di completamente nuovo e diverso. La risurrezione di Cristo è l’approdo verso una vita non più sottomessa alla caducità del tempo, una vita immersa nell’eternità di Dio. Nella risurrezione di Gesù inizia una nuova condizione dell’essere uomini, che illumina e trasforma il nostro cammino di ogni giorno e apre un futuro qualitativamente diverso e nuovo per l’intera umanità. Per questo, san Paolo non solo lega in maniera inscindibile la risurrezione dei cristiani a quella di Gesù (cfr 1Cor 15,16.20), ma indica anche come si deve vivere il mistero pasquale nella quotidianità della nostra vita.

Nella Lettera ai Colossesi, egli dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio, rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (3,1-2). A prima vista, leggendo questo testo, potrebbe sembrare che l'Apostolo intenda favorire il disprezzo delle realtà terrene, invitando cioè a dimenticarsi di questo mondo di sofferenze, di ingiustizie, di peccati, per vivere in anticipo in un paradiso celeste. Il pensiero del “cielo” sarebbe in tale caso una specie di alienazione. Ma, per cogliere il senso vero di queste affermazioni paoline, basta non separarle dal contesto. L'Apostolo precisa molto bene ciò che intende per «le cose di lassù», che il cristiano deve ricercare, e «le cose della terra», dalle quali deve guardarsi. Ecco anzitutto quali sono «le cose della terra» che bisogna evitare: «Fate morire – scrive san Paolo – ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (3,5-6). Far morire in noi il desiderio insaziabile di beni materiali, l’egoismo, radice di ogni peccato. Dunque, quando l'Apostolo invita i cristiani a distaccarsi con decisione dalle «cose della terra», vuole chiaramente far capire ciò che appartiene all’«uomo vecchio» di cui il cristiano deve spogliarsi, per rivestirsi di Cristo.

Come è stato chiaro nel dire quali sono le cose verso le quali non bisogna fissare il proprio cuore, con altrettanta chiarezza san Paolo ci indica quali sono le «cose di lassù», che il cristiano deve invece cercare e gustare. Esse riguardano ciò che appartiene all’«uomo nuovo», che si è rivestito di Cristo una volta per tutte nel Battesimo, ma che ha sempre bisogno di rinnovarsi «ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col 3,10). Ecco come l’Apostolo delle Genti descrive queste «cose di lassù»: «Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri (...). Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,12-14). San Paolo è dunque ben lontano dall'invitare i cristiani, ciascuno di noi, ad evadere dal mondo nel quale Dio ci ha posti. E’ vero che noi siamo cittadini di un'altra «città», dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d'ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena.

E questa è la via non solo per trasformare noi stessi, ma per trasformare il mondo, per dare alla città terrena un volto nuovo che favorisca lo sviluppo dell'uomo e della società secondo la logica della solidarietà, della bontà, nel profondo rispetto della dignità propria di ciascuno. L’Apostolo ci ricorda quali sono le virtù che devono accompagnare la vita cristiana; al vertice c'è la carità, alla quale tutte le altre sono correlate come alla fonte e alla matrice. Essa riassume e compendia «le cose del cielo»: la carità che, con la fede e la speranza, rappresenta la grande regola di vita del cristiano e ne definisce la natura profonda.

La Pasqua, quindi, porta la novità di un passaggio profondo e totale da una vita soggetta alla schiavitù del peccato ad una vita di libertà, animata dall’amore, forza che abbatte ogni barriera e costruisce una nuova armonia nel proprio cuore e nel rapporto con gli altri e con le cose. Ogni cristiano, così come ogni comunità, se vive l’esperienza di questo passaggio di risurrezione, non può non essere fermento nuovo nel mondo, donandosi senza riserve per le cause più urgenti e più giuste, come dimostrano le testimonianze dei Santi in ogni epoca e in ogni luogo. Sono tante anche le attese del nostro tempo: noi cristiani, credendo fermamente che la risurrezione di Cristo ha rinnovato l’uomo senza toglierlo dal mondo in cui costruisce la sua storia, dobbiamo essere i testimoni luminosi di questa vita nuova che la Pasqua ha portato. La Pasqua è dunque dono da accogliere sempre più profondamente nella fede, per poter operare in ogni situazione, con la grazia di Cristo, secondo la logica di Dio, la logica dell’amore. La luce della risurrezione di Cristo deve penetrare questo nostro mondo, deve giungere come messaggio di verità e di vita a tutti gli uomini attraverso la nostra testimonianza quotidiana.

Cari amici, Sì, Cristo è veramente risorto! Non possiamo tenere solo per noi la vita e la gioia che Egli ci ha donato nella sua Pasqua, ma dobbiamo donarla a quanti avviciniamo. E’ il nostro compito e la nostra missione: far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c’è disperazione, la gioia dove c’è tristezza, la vita dove c’è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in “modo pasquale” e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un’idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5).

[[Saluti in varie lingue: Je salue avec joie les pèlerins francophones, particulièrement les séminaristes de Saint-Étienne, accompagnés de Mgr Dominique Lebrun ! Puissiez-vous être le ferment nouveau de notre monde, en apportant à tous les hommes la lumière de la Résurrection du Christ, qui est un message de vérité et de vie ! Bonne fête de Pâques à tous!

I welcome the newly-ordained deacons of the Pontifical Irish College, together with their families and friends. Dear young deacons: in fulfilling the ministry you have received, may you proclaim the Gospel above all by the holiness of your lives and your joyful service to God’s People in your native land. Upon all the English-speaking pilgrims present at today’s Audience, especially those from Sweden, Australia, the Philippines, Thailand and the United States, I invoke an abundance of joy and peace in the Risen Lord. Happy Easter!

Von Herzen heiße ich alle deutschsprachigen Pilger und Besucher willkommen, heute besonders die Mitglieder und Gäste der Studentenverbindung Capitolina, die heuer ihr 25. Stiftungsfest feiert. Die beglückende Erfahrung, die uns der auferstandene Herr an Ostern geschenkt hat, können wir nicht für uns selbst behalten. Wir müssen sie als Hoffnung weitergeben, wo Hoffnungslosigkeit ist, als Freude, wo Traurigkeit herrscht, als Leben, wo Tod ist. Dazu schenke uns der Herr seine Gnade. – Euch allen wünsche ich eine gesegnete und frohe Osterzeit.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en particular a los sacerdotes y alumnos del Seminario Conciliar de Barcelona, así como a los grupos provenientes de España, Guinea Ecuatorial, Perú, México, Argentina y otros países Latinoamericanos. Les animo a que con el testimonio cotidiano de vida irradien la luz de la resurrección de Cristo, que penetra el mundo, y se hace mensaje de verdad y amor para todos los hombres. Muchas gracias.

Queridos peregrinos de língua portuguesa, particularmente os portugueses vindos de Lisboa e da Sertã e os brasileiros de Poços de Caldas, a minha saudação, com votos duma boa continuação de santa Páscoa! Não podemos guardar só para nós a vida e a alegria que Cristo nos deu com a sua Ressurreição, mas devemos transmiti-la a quantos se aproximam de nós. Assim, fareis surgir no coração dos outros a esperança, a felicidade e a vida! Sobre vós e vossas famílias, desça a minha Bênção Apostólica.

Saluto in lingua polacca:

Słowa serdecznego pozdrowienia kieruję do Polaków. Moi drodzy, bardzo dziękuję Wam za wszelkie wyrazy życzliwości, za nadsyłane życzenia na święta Wielkiej Nocy i z innych moich osobistych okazji, a szczególnie za dar modlitwy w mojej intencji. Z swej strony nieustannie zawierzam każdą i każdego z Was Bożej dobroci, wypraszam obfitość łask, i z serca wam błogosławię. Niech będzie pochwalony Jezus Chrystus.

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai polacchi. Miei cari, Vi ringrazio tanto per tutti i segni di benevolenza, per gli auguri inviati in occasione della Pasqua e per le altre mie ricorrenze personali, e soprattutto per il dono della preghiera secondo le mie intenzioni. Da parte mia ininterrottamente affido ognuna e ognuno di Voi alla bontà di Dio, chiedendo un’abbondanza di grazie e vi benedico di cuore. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

S uskrsnom radošću od srca pozdravljam i blagoslivljam sve hrvatske hodočasnike.
Na uskrsno jutro učenici su, potaknuti viješću o Gospodinovom uskrsnuću, potrčali na grob i uvjerili se da je prazan. Dragi prijatelji, i vi koračajte ovim svijetom i svjedočite: Krist je živ, aleluja! Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Nel clima della gioia pasquale di cuore saluto e benedico tutti i pellegrini Croati. Nella mattina di Pasqua i discepoli, spinti dalla notizia della Risurrezione del Signore, sono corsi alla tomba e si sono resi conto che era vuota. Cari amici, anche voi camminate in questo mondo e testimoniate che Cristo è vivo, alleluia! Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua lituana:

Su meile kreipiuosi į maldininkus iš Lietuvos. Brangūs bičiuliai, Prisikėlęs Kristus tepripildo jūsų širdis savo meilės ir džiaugsmo. Jums, čia esantiems, ir visai lietuvių tautai suteikiu Apaštališkąjį Palaiminimą. Garbė Jėzui Kristui!

Traduzione italiana:

Con affetto mi rivolgo ai pellegrini giunti dalla Lituania. Cari amici, Cristo Risorto riempia i vostri cuori del suo amore e della sua gioia! A voi qui presenti e all’intero popolo lituano imparto la Benedizione Apostolica. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovena:

Lepo pozdravljam romarje iz Slovenije, še posebej iz Trzina in iz Dola pri Ljubljani!
Veselje ob Jezusovi zmagi nad peklom je naša moč! Veselite se v Gospodu, da boste z Njim zmagovali nad grehom in tako postajali vedno bolj deležni Njegovega življenja. Naj bo z vami moj blagoslov!

Traduzione italiana:

Rivolgo un caro saluto ai pellegrini provenienti dalla Slovenia, in particolare da Trzin e da Dol pri Ljubljani! La gioia della vittoria di Gesù sugli inferi è la nostra forza! Rallegratevi nel Signore, affinché possiate con Lui vincere il peccato e così diventare sempre più partecipi della Sua vita. Vi accompagni la mia benedizione!

Saluto in lingua ceca:

Srdečně zdravím poutníky z České republiky!
Drazí přátelé, kéž vám daruje Pán pravou radost a stále vás provází svými dary. S tímto přáním vám ze srdce žehnám.
Chvála Kristu!

Traduzione italiana:

Saluto i pellegrini della Repubblica ceca.
Cari amici, il Signore infonda in voi la vera gioia della Risurrezione e vi accompagni sempre con i suoi doni. Con questi voti vi benedico di cuore!
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ungherese:

Isten hozta a magyar zarándokokat! Szeretettel köszöntelek Benneteket!
Krisztus, aki a szent asszonyoknak és az apostoloknak kinyilvánította a feltámadás örömét, tegyen benneteket is a halálon aratott győzelmének hirdetőivé! Apostoli áldásom legyen veletek mindenkor.
Dicsértessék a Jézus Krisztus!

Traduzione italiana:

Un cordiale saluto ai pellegrini di lingua ungherese. Cristo, che ha rivelato alle pie donne ed ai suoi apostoli la gioia della risurrezione, vi renda arditi annunciatori della sua vittoria sulla morte!
La benedizione apostolica vi accompagna sulle vostre vie.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovacca:

S láskou vítam slovenských pútnikov z Farnosti Narodenia Panny Márie v Novej Bani.
Bratia a sestry, vaša návšteva Ríma počas Veľkonočnej oktávy nech je pre každého z vás príležitosťou na pravú duchovnú obnovu. Oslávený Pán nech vás sprevádza svojim pokojom. Rád vás žehnám.
Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Con affetto do un benvenuto ai pellegrini slovacchi provenienti dalla Parrocchia della Natività della Vergine Maria di Nová Baňa.
Fratelli e sorelle, la vostra visita a Roma nell’Ottava di Pasqua sia per ognuno di voi occasione di autentico rinnovamento spirituale. Il Signore Risorto vi accompagni con la sua pace. Volentieri vi benedico.
 Sia lodato Gesù Cristo!]]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Diaconi della Compagnia di Gesù, invocando sul loro itinerario formativo e apostolico l'abbondanza dei doni dello Spirito Santo. Saluto i fedeli di Lampedusa, accompagnati dal loro Pastore Mons. Francesco Montenegro, e li incoraggio a continuare nel loro apprezzato impegno di solidarietà verso i fratelli migranti, che trovano nella loro isola un primo asilo di accoglienza; in pari tempo auspico che gli organi competenti proseguano l’indispensabile azione di tutela dell’ordine sociale nell’interesse di ogni cittadino. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Vittime dell’Amianto e dell’Osservatorio Nazionale Amianto e li esorto a proseguire la loro importante attività a difesa dell’ambiente e della salute pubblica.

Il mio pensiero va infine ai malati, agli sposi novelli e ai giovani, specialmente ai numerosi adolescenti, provenienti dall'Arcidiocesi di Milano. Grazie per il vostro entusiasmo. Sento la gioia di Pasqua. Grazie. Cari giovani amici, anche a voi, come ai primi discepoli, Cristo risorto ripete: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi ... Ricevete lo Spirito Santo" (Gv 20, 21-22). Rispondetegli con gioia e con amore, grati per l'immenso dono della fede, e sarete ovunque autentici testimoni della sua gioia e della sua pace. Per voi, cari malati, la risurrezione di Cristo sia fonte inesauribile di conforto, di consolazione e di speranza. E voi, cari sposi novelli, rendete operante la presenza del Risorto nella vostra famiglia con la quotidiana preghiera, che alimenti il vostro amore coniugale. 

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 27 aprile 2011

Emmaus

La Summa Teologica - Diciassettesima parte - Se in Dio essenza ed esistenza siano la stessa cosa

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni: 

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

La semplicità di Dio

Se in Dio essenza ed esistenza siano la stessa cosa

Prima parte
Questione 3
 Articolo 4

SEMBRA che in Dio non siano la stessa cosa essenza ed esistenza. Infatti:
 1. Se così fosse, niente si aggiungerebbe (come determinante) all'essere di Dio. Ma l'essere senza determinazioni successive è l'essere generico che si attribuisce a tutte le cose. Ciò posto ne segue che Dio è l'essere astratto predicabile di tutte le cose. Il che è falso, secondo il detto della Sapienza: "imposero alle pietre e al legno l'incomunicabile nome (di Dio)". Dunque l'essere di Dio non è la sua essenza.

 2. Di Dio, come si è detto, possiamo sapere se sia, non che cosa sia. Dunque non è la stessa cosa l'esistenza di Dio e la sua essenza, quiddità o natura.

 IN CONTRARIO: Scrive S. Ilario: "In Dio l'esistenza non è accidentalità, ma verità sussistente". Dunque quello che sussiste in Dio è la sua esistenza.

RISPONDO: Dio non è soltanto la sua essenza, come è già stato provato, ma anche il suo essere (o esistenza). Il che si può dimostrare in molte maniere. Primo, tutto ciò che si riscontra in un essere oltre la sua essenza, bisogna che vi sia causato o dai principi dell'essenza stessa, quale proprietà della specie, come l'avere la facoltà di ridere proviene dalla natura stessa dell'uomo ed è causato dai principi essenziali della specie; o che venga da cause estrinseche, come il calore nell'acqua è causato dal fuoco. Se dunque l'esistenza di una cosa è distinta dalla sua essenza, è necessario che l'esistenza di tale cosa sia causata o da un agente esteriore, o dai principi essenziali della cosa stessa. Ora, è impossibile che l'esistere sia causato unicamente dai principi essenziali della cosa, perché nessuna cosa può essere a se stessa causa dell'esistere, se ha un'esistenza causata. È dunque necessario che le cose le quali hanno l'essenza distinta dalla loro esistenza, abbiano l'esistenza causata da altri. Ora, questo non può dirsi di Dio; perché diciamo che Dio è la prima causa efficiente. È dunque impossibile che in Dio l'esistere sia qualche cosa di diverso dalla sua essenza. Secondo, perché l'esistere è l'attualità di ogni forma o natura; difatti la bontà o l'umanità non è espressa come cosa attuale se non in quanto dichiariamo che esiste. Dunque l'esistenza sta all'essenza, quando ne sia distinta, come l'atto alla potenza. E siccome in Dio non v'è niente di potenziale come abbiamo dimostrato sopra, ne segue che in lui l'essenza non è altro che il suo esistere. Perciò la sua essenza è la sua esistenza.
 Terzo, allo stesso modo che quanto è infocato e non è fuoco, è infocato per partecipazione, così ciò che ha l'essere e non è l'essere, è ente per partecipazione. Ora, Dio, come si è provato, è la sua essenza. Se dunque non fosse il suo (atto di) essere, sarebbe ente per partecipazione e non per essenza. Non sarebbe più dunque il primo ente; ciò che è assurdo affermare. Dunque Dio è il suo essere e non soltanto la sua essenza.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'espressione "qualche cosa cui non si può aggiungere niente" si può intendere in due maniere. Prima maniera: qualche cosa che (positivamente) di sua natura importi l'esclusione di aggiunte (o determinazioni); così è proprio dell'animale non ragionevole di essere senza ragione. Seconda maniera: qualche cosa che non riceva aggiunte (o determinazioni); perché di suo non le include; così l'animale preso come genere non include la ragione, perché non è del genere animale come tale avere la ragione; ma il concetto di animale neppure lo esclude. Dunque essere senza aggiunte nella prima maniera è l'essere divino; nella seconda maniera è l'essere generico o comune.

 2. Del verbo essere si fa un doppio uso: qualche volta significa l'atto dell'esistere, altre volte indica la copula della proposizione formata dalla mente che congiunge il predicato col soggetto. Se essere si prende nel primo senso noi (uomini) non possiamo dire di conoscere l'essere di Dio come non conosciamo la sua essenza; ma lo conosciamo soltanto nel secondo significato. Sappiamo infatti che la proposizione che formuliamo intorno a Dio, quando diciamo "Dio è" è vera. E ciò sappiamo dai suoi effetti, come già abbiamo detto.

martedì 26 aprile 2011

Il Volto dei Santi: San Francesco Saverio

Riscoprire i Santi - San Francesco Saverio

Torna anche per questo martedì, l'appunto settimanale volto alla scoperta dei nostri cari Santi! Oggi scopriamo la figura di San Francesco Saverio che fu sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie. Nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede. Fu un un grande esempio di evangelizzatore che seguì le orme dei primi apostoli. 
Scopriamo maggiormente la vita di questo Santo attraverso lo spunto biografico consueto (tratto dal sito Santi & Beati) seguito da una lettera scritta da costui a Sant'Ignazio:


Questo pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono dell'Oriente dal 1748, dell'Opera della Propagazione della Fede dal 1904, di tutte le missioni con S. Teresa di Gesù Bambino dal 1927, nacque da nobili genitori il 7-4-1506 nel castello di Xavier, nella Navarra (Spagna). Francesco non sarebbe diventato un giurista e un amministratore come suo padre, né un guerriero come i suoi fratelli maggiori, ma un ecclesiastico come un qualunque cadetto del tempo. Per questo nel 1525 si recò ad addottorarsi all'università di Parigi sognando pingui benefici nella diocesi di Pamplona. Il suo incontro con Ignazio di Loyola fu provvidenziale perché lo trasformò da campione di salto e di corsa in araldo del Vangelo, da professore di filosofia in Santo. Assegnato nel collegio di Santa Barbara alla medesima stanza del Saverio, il fondatore della Compagnia di Gesù aveva visto a fondo nell'anima di lui, gli si era affezionato e più volte gli aveva detto: "Che giova all'uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde l 'anima? (Mc. 8, 36). Più tardi Ignazio confiderà che Francesco fu "il più duro pezzo di pasta che avesse mai avuto da impastare" e il Saverio, nel fare quaranta giorni di ritiro sotto la direzione d'Ignazio prima d'iniziare lo studio della teologia, pregherà: "Ti ringrazio, o Signore, per la provvidenza di avermi dato un compagno come questo Ignazio, dapprima così poco simpatico".
Il 15-8-1534 anche lui, insieme al Loyola, nella chiesetta di Santa Maria di Montmartre fece voto di castità e di povertà e di pellegrinare in Palestina o, in caso d'impossibilità, di andare a Roma per mettersi a disposizione del papa. Anche lui, all'inizio del 1537, si trovò con gli altri primi sei compagni all'appuntamento fissato a Venezia, ma la guerra scoppiata tra la Turchia e la Repubblica Veneta impedi loro di mandare ad effetto il voto fatto. Ignazio e i suoi discepoli si dedicarono allora all'assistenza dei malati nell'ospedale degl'Incurabili fondato da S. Gaetano da Thiene e, dopo essere stati ordinati sacerdoti, alla predicazione per le piazze in uno strano miscuglio di lingue neo-latine. A Bologna specialmente il Saverio si acquistò fama di predicatore e di consolatore dei malati e dei carcerati, ma in sei mesi si rovinò la salute dandosi ad austerissime penitenze. S. Ignazio lo chiamò a Roma come suo segretario. Nella primavera del 1539 egli prese parte alla fondazione della Compagnia di Gesù e, l'anno dopo, fu mandato al posto di Nicolò Bobadilla, colpito da sciatica, alle Indie Orientali in qualità di legato papale per tutte le terre situate ad oriente del capo di Buona Speranza, in seguito alle insistenti preghiere rivolte da Giovanni III, re del Portogallo, a Ignazio per avere sei missionari.
Durante il penoso viaggio a vela, protrattosi per tredici mesi, il Saverio si sovraspese per l'assistenza spirituale ai 300 passeggeri facenti parte non certo della "buona società", nonostante che per due mesi avesse sofferto il mal di mare. Una notte, all'ospedale di Mozambico, avendolo il medico trovato tremante di febbre, gli ordinò di andare a letto. Poiché un marinaio stava morendo impenitente, gli rispose: "Non posso andarci. Un fratello ha tanto bisogno di me". Stabilitosi nel collegio di San Paolo a Goa, cominciò il suo apostolato (1542) tra la colonia portoghese che con la sua vita immorale scandalizzava persino i,pagani. Poi estese il suo ministero ai malati, ai prigionieri e agli schiavi con tanta premura da meritare il titolo di "Santo Padre" e "Grande Padre". Con un campanello raccoglieva per le strade i fanciulli e ad essi insegnava il catechismo e cantici spirituali.
Dopo cinque mesi il governatore delle Indie lo mandò al sud del paese dove i portoghesi avevano costruito le loro fortezze, avviato i loro commerci e battezzato gl'indigeni e i prigionieri di guerra senza sufficiente preparazione. Molti di essi erano ricaduti nell'idolatria, come i pescatori di perle della costa del Paravi i quali, otto anni prima, avevano chiesto il battesimo per essere difesi dai maomettani. Francesco, che non possedeva il dono delle lingue, con l'aiuto d'interpreti tradusse subito nei loro idiomi le principali preghiere e verità della fede. Poi, per due anni, passò di villaggio in villaggio, a piedi o su disagevoli imbarcazioni di cabotaggio, esposto a mille pericoli, fondando chiese e scuole, facendosi a tutti maestro, medico, giudice nelle liti, difensore contro le esazioni dei portoghesi, salutato ovunque quale Santo e taumaturgo. "Talmente grande è la moltitudine dei convertiti - scriveva egli - che sovente le braccia mi dolgono tanto hanno battezzato e non ho più voce e forza di ripetere il Credo e i comandamenti nella loro lingua". In un mese arrivò a battezzare 10.000 pescatori della casta dei Macua, nel Travancore. Mentre era intento ad amministrare il sacramento, ricevette la triste notizia che 600 cristiani di Manaar avevano preferito lasciarsi uccidere anziché tornare al paganesimo. Ne provò un momento di sconforto: "Sono così stanco di vivere - scrisse - che la migliore cosa per me sarebbe morire per la nostra Santa fede". Lo rattristava il vedere commettere tanti peccati e non poterci fare nulla.
Benché continuamente a disposizione del prossimo, il Santo fu sempre trattato male da ufficiali e mercanti portoghesi, decisi a non permettere che la sua caccia alle anime intralciasse loro la ricerca di piaceri e di ricchezze. Noncurante degli uomini, negli anni successivi (1545-1547) egli aprì nuovi campi all'apostolato. Predicò per quattro mesi nell'importante centro commerciale di Malacca; visitò l'arcipelago delle Molucche; nell'isola di Amboina, presso la Nuova Guinea, riuscì ad avvicinare la popolazione impaurita di un villaggio stando seduto e cantando tutti gl'inni che sapeva; si spinse fino all'isola di Ternate, estrema fortezza dei portoghesi, e più oltre ancora, fino alle isole del Moro, al nord delle Molucche, abitate da cacciatori di teste. Colà agli ospiti indesiderati si servivano pietanze avvelenate. Quando il Saverio decise di visitarle, gli suggerirono di portare con sé degli antidoti, ma egli preferì riporre in Dio tutta la sua fiducia. "Queste isole - scriverà il 20-1-1548 - sono fatte e disposte a meraviglia perché vi ci si perda la vista in pochi anni per l'abbondanza delle lacrime di consolazione... Io circolavo abitualmente nelle isole circondate da nemici e popolate da amici poco sicuri, attraverso terre sprovviste di qualsiasi rimedio per le malattie e prive di qualsiasi soccorso per conservare la vita". Ciononostante egli pregava: "Non allontanarmi, o Signore, da queste tribolazioni se non hai da mandarmi dove io possa soffrire ancora di più per amore tuo".
Dopo tre mesi di fatiche, tornò a Ternate. Il sultano regnante fece buona accoglienza al missionario, ma alla fede cristiana preferì le sue cento mogli e le numerose concubine. Raggiunta Malacca nel dicembre 1547, la Provvidenza fece incontrare al Saverio un fuggiasco giapponese, Anjiro, desideroso di farsi cristiano per liberarsi dal rimorso cagionatogli da un delitto commesso in patria. Il Santo rimase talmente sedotto dalle notizie da lui avute sul Giappone e i suoi abitanti che concepì un estremo desiderio di andarli ad evangelizzare. Dopo aver provveduto per il governo del Collegio di San Paolo a Goa e l'invio di missionari nelle località visitate, parti per il Giappone in compagnia di Anjiro, suo collaboratore. Sbarcò a Kagoshima, nell'isola di Kiu-Sciu, il 15-8-1548. Il principe Shimazu Takahisa lo accolse gentilmente, e mentre egli studiava la lingua del paese, Anjíro convertiva al cattolicesimo oltre un centinaio di parenti e amici. "I Giapponesi - scrisse il Saverio in Europa - sono il migliore dei popoli". Quando il principe, sobillato dai bonzi, vietò ogni ulteriore battesimo, il coraggioso missionario decise di presentarsi addirittura all'imperatore e alle università della capitale, Miyako (Kyoto), ma a causa della guerra civile endemica le università non vollero aprirgli le porte e l'imperatore in fuga non volle riceverlo (1551), perché sprovvisto di doni e poveramente vestito. Si presentò allora in splendidi abiti e con preziosi doni al principe di Yamaguchí che gli concesse piena libertà di predicazione. In breve tempo egli riuscì a creare una fiorente cristianità che formò 1e delizie della sua anima" e ad estenderla nel vicino regno di Bungo.
Quando nell'inverno del 1551, richiamato da urgenti affari, il Saverio ritornò in India, in Giappone c'erano oltre 1.000 cristiani. Le fatiche avevano imbiancato i suoi capelli. Quante volte, sempre immerso nella preghiera, aveva dovuto camminare a piedi nudi e sanguinanti o passare a guado fiumi gelati! Quante volte, affamato e intirizzito, era stato cacciato dalle locande a sassate! Sovente cadde esausto sul ciglio delle strade. Per poter proseguire il suo viaggio talora dovette occuparsi come stalliere presso viaggiatori più fortunati.
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Essendosi sempre sentito opporre dai bonzi che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l'avrebbero già conosciuta, decise di andarli a convertire. Poiché la prigione o la morte erano la sorte che toccava a tutti gli stranieri che cercavano di entrare in quel paese, il Saverio organizzò un'ambasciata alla corte dell'imperatore della Cina, di cui egli avrebbe fatto parte. A Malacca però l'ammiraglio portoghese in carica, irritato perché non era stato scelto lui come ambasciatore, mandò a monte il progettato viaggio denunciando pubblicamente il Santo come falsificatore di bolle papali e imperiali. Senza lasciarsi abbattere dal grave colpo, l'illuminato apostolo il 17-4-1552 approdò all'isola di Sanciano con un servo cinese convertito, Antonio di Santa Fe. Colà trovò antichi amici che gli offersero ospitalità e un contrabbandiere che per 200 ducati si dichiarò disposto a sbarcarli segretamente alle porte di Canton. Ad un amico il Santo scrisse: "Pregate molto per noi, perché corriamo grande pericolo di essere imprigionati. Tuttavia, già ci consoliamo anticipatamente al pensiero che è meglio essere prigionieri per puro amor di Dio, che essere liberi per avere voluto fuggire il tormento e la pena della croce".
Il giorno stabilito il contrabbandiere mancò alla parola data. Nel rigido inverno, il Saverio si ammalò di polmonite, e privo com'era di ogni cura morì in una capanna il 3-12-1552 dopo avere più volte ripetuto: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! 0 Vergine, Madre di Dio, ricordati di me!". Il suo corpo fu seppellito dal servo nella parte settentrionale dell'isola, in una cassa ripiena di calce. Due anni dopo fu trasportato, integro e intatto, prima a Malacca e poi a Goa, dove si venera nella chiesa del Buon Gesù.
Paolo V beatificò il Saverio il 21-10-1619 e Gregorio XV lo canonizzò il 12-3-1622. Si calcola che il Santo missionario abbia conferito il battesimo a circa 30.000 pagani. Il suo continuo peregrinare per lontanissime regioni diede ad alcuni l'impressione che fosse di temperamento volubile. Come legato del papa, pioniere, superiore e provinciale dei Gesuiti, era spiegabile che egli, ardentissimo della gloria di Dio e della salvezza delle anime, sospirasse di prendere visione del suo sterminato territorio per inviarvi gli operai occorrenti. S. Ignazio avrebbe preferito che, invece di pagare di persona, fosse rimasto ad amministrare le missioni dell'India, e avesse inviato a dissodare il terreno altri confratelli. La lettera che gli scrisse per richiamarlo, almeno provvisoriamente, in Europa, giunse quando egli era già morto.

***
Guai a me se non predicherò il Vangelo!

Dalle «Lettere» a sant'Ignazio di san Francesco Saverio, sacerdote
(Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer I Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167)

Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina.
Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli.
Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani.
Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno!
Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!
 In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: «Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?» (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India.

lunedì 25 aprile 2011

Gesù è risorto

E' risorto!

Continuiamo a gioire per la Pasqua del Signore, attraverso la riflessione di don Luca Orlando Russo:

Tante volte, forse troppe, assistiamo a letture ricolme di puerile entusiasmo che ci invitano a guardare a questo giorno come alla promessa di un futuro verso il quale siamo proiettati al di là della morte. E in questa vita? La risurrezione, stando così le cose, non ha alcuna incidenza nella nostra quotidianità e allora mi domando: può la fede in una risurrezione futura farmi accettare che sono soggetto tutti i giorni a tante esperienze di limite, talvolta così tragiche da far invocare la morte fisica come una liberazione? La risposta a questa domanda io l'ho trovata in una interessante lettura e ora voglio condividerne un pezzo con voi.
«Non c'è stato un momento della vita di Gesù in cui egli ha vissuto ed amato così intensamente come quando, attraverso la passione, è andato incontro alla morte. Per noi vivere significa morire... Per Gesù, invece, morire è stato l'esaltazione del suo vivere... Perciò, spinto dall'amore, scelse di giocarsi la vita in funzione dell'amore; ossia in funzione della vita.
Quando l'ostilità degli uomini nei suoi confronti minacciò di travolgerlo, la forza dell'amore in lui tenne testa alla paura della morte: la paura del supplizio, della vergogna, del rifiuto degli uomini e soprattutto della solitudine non riuscirono a separarlo dagli uomini che amava. La forza dell'amore fu più forte. Così, sostenuto da questa forza, in nome della sua passione per la vita, Gesù andò incontro alla morte. E l'accolse.
In tal modo proprio la morte divenne, per Gesù, strumento dell'amore: il luogo, del tutto inaspettato, del trionfo dell'amore sulla divisione e sulla solitudine, e quindi sulla morte, della vita.
Nella passione di Gesù la forza della morte e la forza dell'amore si affrontarono. Fu un duello gigantesco. Da una parte l'autorità della morte, ossia la paura di morire e la conseguente paura di vivere; dall'altra l'autorità dell'amore, col suo coraggio di vivere e di morire, per amore della vita.
Protagonista e testimone di questo duello, Gesù, fedele all'amore, si schierò tutto dalla parte dell'amore. E nell'amore, trovò il coraggio di vivere e di morire, per amore della vita. Perciò nel suo morire trionfò il coraggio di vivere e con esso trionfò sulla morte, attraverso la morte, la vita. Nella passione di Gesù, infatti, la forza dell'amore non ha subito la morte; l'ha assunta, in funzione di un disegno di vita. Non l'ha sopportata; l'ha sposata, per amore della vita. Non l'ha semplicemente incassata; l'ha usata, a difesa della vita. Nel morire di Gesù non è stata la morte a gestire la vita, ma l'amore a gestire la morte, a beneficio della vita; non è stata la morte a dire l'ultima parola sulla vita, ma l'amore a dire l'ultima parola sulla morte, in favore della vita; non è stata la morte a "morire" la vita, ma la vita a vivere la morte, in funzione della vita» .

Alleluia, e buona pasqua!

domenica 24 aprile 2011

Riflessione Vangelo: Pasqua

Neppure la morte è riuscita a togliergli la vita

Pasqua di Risurrezione
(Gv 20, 1-9)

Vinta è la morte! Sconfitte le tenebre! I cieli, che fino alla morte di Gesù erano rimasti chiusi,
impenetrabili ed inaccessibili, di colpo si riaprono. I giusti dell’Antico Testamento che aspettavano
con trepidazione questo grandioso avvenimento, esultano nel sentire la voce del Salvatore che li
chiama: ”Sorgi o tu che dormi, prigioniero della morte e degli inferi, svegliati dal sonno, è giunta la
tua ora, quella della tua liberazione: ritrova dunque la tua libertà, la tua patria e la tua figliolanza
divina, pagata col mio sangue”. E’ questa la stupenda realtà pasquale: abbiamo un Salvatore che
dice anche a noi: risorgi o tu che giaci ancora nel sepolcro, prigioniero del peccato e delle tenebre,
Io li ho vinti e distrutti entrambi. Alzati e rivestiti di luce! Volgi il tuo sguardo a Colui che hanno
trafitto, guarda ad Oriente da dove viene il tuo Sole che sorge per liberare “quelli che stanno nelle
tenebre e nell’ombra della morte”.

• Morte in deficit: un UOMO le è sfuggito…

E’ questa la meravigliosa notizia: abbiamo un Salvatore che ci salva, non una volta per tutte, ma
ogni giorno, ogni ora, ogni momento ci salva, dai nostri traviamenti, sbandamenti, oscuramenti e
tradimenti vari! Grazie al Suo sacrificio e alla sua presenza in noi, possiamo ogni giorno passare
dalle tenebre del male allo splendore della luce, e diventare –da tenebrosi che eravamo– splendenti
di candore immacolato. E’ LUI la luce intramontabile che disperde le nostre tenebre!
I Vangeli delle scorse domeniche, come quello della Samaritana, del cieco nato e della risurrezione
di Lazzaro, erano altrettanti eventi pasquali in cui si era manifestata la potenza dello Spirito, che
aveva convertito la Samaritana, risanato il cieco e risuscitato Lazzaro. Tutti segni che
manifestavano la potenza e la gloria del Figlio di Dio. E se nella risurrezione di Lazzaro –per dare
ancor più gloria a DIO– aveva aspettato che morisse e che passassero vari giorni prima di
risuscitarlo, l’avvenimento di oggi fa risaltare ancora incomparabilmente di più la Sua onnipotenza:
infatti non è sceso dalla Croce mentre era ancora vivo, come lo sfidava a fare la plebaglia (“Se sei
Dio scendi dalla Croce”…), ma è uscito vivo dal sepolcro sigillato, dopo che era già morto!

• Chi muore e poi non risorge subito, chi è?

Prova supremamente inconfutabile della Sua divinità! Finché un uomo muore e poi non risorge
subito, è sicuro che è solo un uomo, ma quando un uomo muore e poi risorge, non è più solo un
uomo: non può essere che DIO! E Dio in persona! Perché oltretutto di quell’Uomo –per quelli che
lo vorrebbero solo uomo– non si è mai e poi mai trovato il cadavere. Vediamo nel Vangelo di
oggi, le donne che preparavano gli unguenti, le erbe e gli aromi per andare ad imbalsamare quel
corpo: Ebbene quel corpo non l’hanno trovato, né nel sepolcro, né fuori, né nei paraggi. Mentre le
donne preparavano gli aromi, LUI STAVA GIA’ RISORGENDO DA MORTE. Ed è vivo ancora
oggi con il Suo corpo glorioso e vivrà per i secoli dei secoli.

• Entrata del sepolcro…ma dov’è l’uscita?


Sì, Gesù Cristo vive, anzi è IL VIVENTE. Ed è una realtà storica! Non è un simbolo, né un mito, né
una leggenda: io non sarei qui a scrivere se Lui non fosse vivo e presente con il suo Spirito (non
sarei capace di parlare di un mito o di un essere leggendario) e voi non sareste qui a leggermi,
perché –ne sono certa– non vi interesserebbe leggere la storia di uno che non è mai esistito e che
non cammina con voi ogni giorno, dandovi forza e coraggio per andare avanti.
Coraggio dunque, amici: Non siamo soli nel cammino. Colui che passava per le contrade della
Palestina, attraversa ancora le nostre strade e le nostre vite, parla al nostro cuore e oggi si eleva in
alto, vincitore anche della morte, per dirci che è andato a preparaci un posto. E per dirci che
neanche noi saremo destinati a rimanere per sempre nel sepolcro, ma risorgeremo anche noi per
rivestire un corpo di luce e di gloria. Per i secoli dei secoli.

Wilma Chasseur

sabato 23 aprile 2011

Via Crucis al Colosseo

Discorso di Papa Benedetto XVI - Via Crucis 2011


VIA CRUCIS AL COLOSSEO

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Palatino
Venerdì Santo, 22 aprile 2011


Cari fratelli e sorelle,

questa notte abbiamo accompagnato nella fede Gesù che percorre l’ultimo tratto del suo cammino terreno, il tratto più doloroso, quello del Calvario. Abbiamo ascoltato il clamore della folla, le parole della condanna, la derisione dei soldati, il pianto della Vergine Maria e delle donne. Ora siamo immersi nel silenzio di questa notte, nel silenzio della croce, nel silenzio della morte. E’ un silenzio che porta in sé il peso del dolore dell’uomo rifiutato, oppresso, schiacciato, il peso del peccato che ne sfigura il volto, il peso del male. Questa notte abbiamo rivissuto, nel profondo del nostro cuore, il dramma di Gesù, carico del dolore, del male, del peccato dell’uomo.

Che cosa rimane ora davanti ai nostri occhi? Rimane un Crocifisso; una Croce innalzata sul Golgota, una Croce che sembra segnare la sconfitta definitiva di Colui che aveva portato la luce a chi era immerso nel buio, di Colui che aveva parlato della forza del perdono e della misericordia, che aveva invitato a credere nell’amore infinito di Dio per ogni persona umana. Disprezzato e reietto dagli uomini, davanti a noi sta l’«uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia» (Is 53,3).

Ma guardiamo bene quell’uomo crocifisso tra la terra e il Cielo, contempliamolo con uno sguardo più profondo, e scopriremo che la Croce non è il segno della vittoria della morte, del peccato, del male ma è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio, di ciò che non avremmo mai potuto chiedere, immaginare o sperare: Dio si è piegato su di noi, si è abbassato fino a giungere nell’angolo più buio della nostra vita per tenderci la mano e tirarci a sé, portarci fino a Lui. La Croce ci parla dell’amore supremo di Dio e ci invita a rinnovare, oggi, la nostra fede nella potenza di questo amore, a credere che in ogni situazione della nostra vita, della storia, del mondo, Dio è capace di vincere la morte, il peccato, il male, e di donarci una vita nuova, risorta. Nella morte in croce del Figlio di Dio, c’è il germe di una nuova speranza di vita, come il chicco che muore dentro la terra.

In questa notte carica di silenzio, carica di speranza, risuona l’invito che Dio ci rivolge attraverso le parole di sant’Agostino: «Abbiate fede! Voi verrete da me e gusterete i beni della mia mensa, com'è vero che io non ho ricusato d'assaporare i mali della mensa vostra... Vi ho promesso la mia vita... Come anticipo vi ho elargito la mia morte, quasi a dirvi: Ecco, io vi invito a partecipare della mia vita... È una vita dove nessuno muore, una vita veramente beata, che offre un cibo incorruttibile, un cibo che ristora e mai vien meno. La meta a cui vi invito, ecco… è l'amicizia con il Padre e lo Spirito Santo, è la cena eterna, è la comunione con me… è partecipare della mia vita» (cfr Discorso 231, 5).

Fissiamo il nostro sguardo su Gesù Crocifisso e chiediamo nella preghiera: Illumina, Signore, il nostro cuore, perché possiamo seguirti sul cammino della Croce, fa’ morire in noi l’«uomo vecchio», legato all’egoismo, al male, al peccato, rendici «uomini nuovi», uomini e donne santi, trasformati e animati dal tuo amore.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

venerdì 22 aprile 2011

La Passione del Signore

Le sette Parole di Gesù sulla Croce

Oggi, Venerdì Santo, la nostra piccola Vigna entra in silenzio e vi lascia con una piccola riflessione della sua umile operaia Patrizia:
 
1- "Ho sete": 

La sete di Gesù è sete di anime, di AMORE. Sta morendo in Croce per noi, per tutti, ma quanti Lo amano, Quanti capiscono il “Suo Troppo grande AMORE”?

2- "Oggi sarai con me in Paradiso

Gesù, quante volte Ti ho chiesto quando mi dirai questa frase?

Quando si è pregustata la caparra dello Spirito, non si vede l’ora di raggiungere l’intero capitale!

Però :” non la mia ,ma la Tua Volontà si compia”!

3- "Madre ecco Tuo Figlio

 Madre , TUO Figlio ci ha affidati a Te; Tu portaci a LUI

4-” Figlio ecco Tua Madre” 

Questo lo dicesti a Giovanni, ma lo dici anche a noi, aiutaci ad affidarci sempre a tua Madre, in qualunque circostanza, lieta o triste; aiutaci ad affidare a Lei anche tutte le altre persone!

5- “Mio Dio mio Dio perchè mi hai abbandonato

Non sono mai stata convinta che il Padre ti abbia abbandonato.

Penso invece che Tu abbia recitato il salmo che inizia con queste parole, per far capire ai tuoi

fratelli Ebrei cosa stavano compiendo! L’Uomo del salmo sei TU.

Viene descritta anche la Chiesa il popolo nuovo!

Fratelli Ebrei è tempo che anche voi Lo riconosciate, lo amiate, lo adoriate, AMEN

6- "Padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno"

Dopo tutto quello che Ti hanno fatto, dopo le sofferenze della Via Crucis,

i tradimenti,ecc...dici che non sanno quello che fanno! Com’è possibile?

O forse è proprio perchè non sapevano chi eri e quello che hai fatto e stavi

facendo per tutti noi, compresi i tuoi carnefici, che hanno potuto fare quello che

hanno fatto!

7- "Tutto è compiuto, nelle Tue mani consegno il mio Spirito"

Il Padre Ti riaccoglie con tutto l’Amore; ritorni alla Sua destra perchè
se non fossi Risorto, vana sarebbe la nostra fede; come bene dice San Paolo! AMEN

giovedì 21 aprile 2011

Benedetto XVI spiega il Triduo Pasquale

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 20 Aprile 2011


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
 Mercoledì, 20 aprile 2011


Triduo Pasquale

Cari fratelli e sorelle,

siamo ormai giunti al cuore della Settimana Santa, compimento del cammino quaresimale. Domani entreremo nel Triduo Pasquale, i tre giorni santi in cui la Chiesa fa memoria del mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù. Il Figlio di Dio, dopo essersi fatto uomo in obbedienza al Padre, divenendo in tutto simile a noi eccetto il peccato (cfr Eb 4,15), ha accettato di compiere fino in fondo la sua volontà, di affrontare per amore nostro la passione e la croce, per farci partecipi della sua risurrezione, affinché in Lui e per Lui possiamo vivere per sempre, nella consolazione e nella pace. Vi esorto pertanto ad accogliere questo mistero di salvezza, a partecipare intensamente al Triduo pasquale, fulcro dell’intero anno liturgico e momento di particolare grazia per ogni cristiano; vi invito a cercare in questi giorni il raccoglimento e la preghiera, così da attingere più profondamente a questa sorgente di grazia. A tale proposito, in vista delle imminenti festività, ogni cristiano è invitato a celebrare il sacramento della Riconciliazione, momento di speciale adesione alla morte e risurrezione di Cristo, per poter partecipare con maggiore frutto alla Santa Pasqua.

Il Giovedì Santo è il giorno in cui si fa memoria dell’istituzione dell’Eucaristia e del Sacerdozio ministeriale. In mattinata, ciascuna comunità diocesana, radunata nella Chiesa Cattedrale attorno al Vescovo, celebra la Messa crismale, nella quale vengono benedetti il sacro Crisma, l’Olio dei catecumeni e l’Olio degli infermi. A partire dal Triduo pasquale e per l’intero anno liturgico, questi Oli verranno adoperati per i Sacramenti del Battesimo, della Confermazione, delle Ordinazioni sacerdotale ed episcopale e dell’Unzione degli Infermi; in ciò si evidenzia come la salvezza, trasmessa dai segni sacramentali, scaturisca proprio dal Mistero pasquale di Cristo; infatti, noi siamo redenti con la sua morte e risurrezione e, mediante i Sacramenti, attingiamo a quella medesima sorgente salvifica. Durante la Messa crismale, domani, avviene anche il rinnovo delle promesse sacerdotali. Nel mondo intero, ogni sacerdote rinnova gli impegni che si è assunto nel giorno dell’Ordinazione, per essere totalmente consacrato a Cristo nell’esercizio del sacro ministero a servizio dei fratelli. Accompagniamo i nostri sacerdoti con la nostra preghiera.

Nel pomeriggio del Giovedì Santo inizia effettivamente il Triduo pasquale, con la memoria dell’Ultima Cena, nella quale Gesù istituì il Memoriale della sua Pasqua, dando compimento al rito pasquale ebraico. Secondo la tradizione, ogni famiglia ebrea, radunata a mensa nella festa di Pasqua, mangia l’agnello arrostito, facendo memoria della liberazione degli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto; così nel cenacolo, consapevole della sua morte imminente, Gesù, vero Agnello pasquale, offre sé stesso per la nostra salvezza (cfr 1Cor 5,7). Pronunciando la benedizione sul pane e sul vino, Egli anticipa il sacrificio della croce e manifesta l’intenzione di perpetuare la sua presenza in mezzo ai discepoli: sotto le specie del pane e del vino, Egli si rende presente in modo reale col suo corpo donato e col suo sangue versato. Durante l’Ultima Cena, gli Apostoli vengono costituiti ministri di questo Sacramento di salvezza; ad essi Gesù lava i piedi (cfr Gv 13,1-25), invitandoli ad amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati, dando la vita per loro. Ripetendo questo gesto nella Liturgia, anche noi siamo chiamati a testimoniare fattivamente l’amore del nostro Redentore.

Il Giovedì Santo, infine, si chiude con l’Adorazione eucaristica, nel ricordo dell’agonia del Signore nell’orto del Getsemani. Lasciato il cenacolo, Egli si ritirò a pregare, da solo, al cospetto del Padre. In quel momento di comunione profonda, i Vangeli raccontano che Gesù sperimentò una grande angoscia, una sofferenza tale da fargli sudare sangue (cfr Mt 26,38). Nella consapevolezza della sua imminente morte in croce, Egli sente una grande angoscia e la vicinanza della morte. In questa situazione, appare anche un elemento di grande importanza per tutta la Chiesa. Gesù dice ai suoi: rimanete qui e vigilate; e questo appello alla vigilanza concerne proprio questo momento di angoscia, di minaccia, nella quale arriverà il proditore [traditore], ma concerne tutta la storia della Chiesa. E' un messaggio permanente per tutti i tempi, perché la sonnolenza dei discepoli era non solo il problema di quel momento, ma è il problema di tutta la storia. La questione è in che cosa consiste questa sonnolenza, in che cosa consisterebbe la vigilanza alla quale il Signore ci invita. Direi che la sonnolenza dei discepoli lungo la storia è una certa insensibiltà dell'anima per il potere del male, un’insensibilità per tutto il male del mondo. Noi non vogliamo lasciarci turbare troppo da queste cose, vogliamo dimenticarle: pensiamo che forse non sarà così grave, e dimentichiamo. E non è soltanto insensibilità per il male, mentre dovremmo vegliare per fare il bene, per lottare per la forza del bene. È insensibilità per Dio: questa è la nostra vera sonnolenza; questa insensibilità per la presenza di Dio che ci rende insensibili anche per il male. Non sentiamo Dio - ci disturberebbe - e così non sentiamo, naturalmente, anche la forza del male e rimaniamo sulla strada della nostra comodità. L'adorazione notturna del Giovedì Santo, l'essere vigili col Signore, dovrebbe essere proprio il momento per farci riflettere sulla sonnolenza dei discepoli, dei difensori di Gesù, degli apostoli, di noi, che non vediamo, non vogliamo vedere tutta la forza del male, e che non vogliamo entrare nella sua passione per il bene, per la presenza di Dio nel mondo, per l'amore del prossimo e di Dio.

Poi, il Signore comincia a pregare. I tre apostoli - Pietro, Giacomo, Giovanni - dormono, ma qualche volta si svegliano e sentono il ritornello di questa preghiera del Signore: “Non la mia volontà, ma la tua sia realizzata”. Che cos'è questa mia volontà, che cos'è questa tua volontà, di cui parla il Signore? La mia volontà è “che non dovrebbe morire”, che gli sia risparmiato questo calice della sofferenza: è la volontà umana, della natura umana, e Cristo sente, con tutta la consapevolezza del suo essere, la vita, l'abisso della morte, il terrore del nulla, questa minaccia della sofferenza. E Lui più di noi, che abbiamo questa naturale avversione contro la morte, questa paura naturale della morte, ancora più di noi, sente l'abisso del male. Sente, con la morte, anche tutta la sofferenza dell'umanità. Sente che tutto questo è il calice che deve bere, deve far bere a se stesso, accettare il male del mondo, tutto ciò che è terribile, l’avversione contro Dio, tutto il peccato. E possiamo capire come Gesù, con la sua anima umana, sia terrorizzato davanti a questa realtà, che percepisce in tutta la sua crudeltà: la mia volontà sarebbe non bere il calice, ma la mia volontà è subordinata alla tua volontà, alla volontà di Dio, alla volontà del Padre, che è anche la vera volontà del Figlio. E così Gesù trasforma, in questa preghiera, l’avversione naturale, l’avversione contro il calice, contro la sua missione di morire per noi; trasforma questa sua volontà naturale in volontà di Dio, in un “sì” alla volontà di Dio. L'uomo di per sé è tentato di opporsi alla volontà di Dio, di avere l’intenzione di seguire la propria volontà, di sentirsi libero solo se è autonomo; oppone la propria autonomia contro l’eteronomia di seguire la volontà di Dio. Questo è tutto il dramma dell'umanità. Ma in verità questa autonomia è sbagliata e questo entrare nella volontà di Dio non è un’opposizione a sé, non è una schiavitù che violenta la mia volontà, ma è entrare nella verità e nell'amore, nel bene. E Gesù tira la nostra volontà, che si oppone alla volontà di Dio, che cerca l'autonomia, tira questa nostra volontà in alto, verso la volontà di Dio. Questo è il dramma della nostra redenzione, che Gesù tira in alto la nostra volontà, tutta la nostra avversione contro la volontà di Dio e la nostra avversione contro la morte e il peccato, e la unisce con la volontà del Padre: “Non la mia volontà ma la tua”. In questa trasformazione del “no” in “sì”, in questo inserimento della volontà creaturale nella volontà del Padre, Egli trasforma l'umanità e ci redime. E ci invita a entrare in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel “sì” del Figlio. La mia volontà c'è, ma decisiva è la volontà del Padre, perché questa è la verità e l'amore.

Un ulteriore elemento di questa preghiera mi sembra importante. I tre testimoni hanno conservato - come appare nella Sacra Scrittura - la parola ebraica o aramaica con la quale il Signore ha parlato al Padre, lo ha chiamato: “Abbà”, padre. Ma questa formula, “Abbà”, è una forma familiare del termine padre, una forma che si usa solo in famiglia, che non si è mai usata nei confronti di Dio. Qui vediamo nell'intimo di Gesù come parla in famiglia, parla veramente come Figlio col Padre. Vediamo il mistero trinitario: il Figlio che parla col Padre e redime l'umanità.

Ancora un’osservazione. La Lettera agli Ebrei ci ha dato una profonda interpretazione di questa preghiera del Signore, di questo dramma del Getsemani. Dice: queste lacrime di Gesù, questa preghiera, queste grida di Gesù, questa angoscia, tutto questo non è semplicemente una concessione alla debolezza della carne, come si potrebbe dire. Proprio così realizza l'incarico del Sommo Sacerdote, perché il Sommo Sacerdote deve portare l'essere umano, con tutti i suoi problemi e le sofferenze, all'altezza di Dio. E la Lettera agli Ebrei dice: con tutte queste grida, lacrime, sofferenze, preghiere, il Signore ha portato la nostra realtà a Dio (cfr Eb 5,7ss). E usa questa parola greca “prosferein”, che è il termine tecnico per quanto deve fare il Sommo Sacerdote per offrire, per portare in alto le sue mani.

Proprio in questo dramma del Getsemani, dove sembra che la forza di Dio non sia più presente, Gesù realizza la funzione del Sommo Sacerdote. E dice inoltre che in questo atto di obbedienza, cioè di conformazione della volontà naturale umana alla volontà di Dio, viene perfezionato come sacerdote. E usa di nuovo la parola tecnica per ordinare sacerdote. Proprio così diventa realmente il Sommo Sacerdote dell'umanità e apre così il cielo e la porta alla risurrezione.

Se riflettiamo su questo dramma del Getsemani, possiamo anche vedere il grande contrasto tra Gesù con la sua angoscia, con la sua sofferenza, in confronto con il grande filosofo Socrate, che rimane pacifico, senza perturbazione davanti alla morte. E sembra questo l'ideale. Possiamo ammirare questo filosofo, ma la missione di Gesù era un'altra. La sua missione non era questa totale indifferenza e libertà; la sua missione era portare in sé tutta la nostra sofferenza, tutto il dramma umano. E perciò proprio questa umiliazione del Getsemani è essenziale per la missione dell'Uomo-Dio. Egli porta in sé la nostra sofferenza, la nostra povertà, e la trasforma secondo la volontà di Dio. E così apre le porte del cielo, apre il cielo: questa tenda del Santissimo, che finora l’uomo ha chiuso contro Dio, è aperta per questa sua sofferenza e obbedienza. Queste alcune osservazioni per il Giovedì Santo, per la nostra celebrazione della notte del Giovedì Santo.

Il Venerdì Santo faremo memoria della passione e della morte del Signore; adoreremo Cristo Crocifisso, parteciperemo alle sue sofferenze con la penitenza e il digiuno. Volgendo “lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cfr Gv 19,37), potremo attingere dal suo cuore squarciato che effonde sangue ed acqua come da una sorgente; da quel cuore da cui scaturisce l’amore di Dio per ogni uomo riceviamo il suo Spirito. Accompagniamo quindi nel Venerdì Santo anche noi Gesù che sale il Calvario, lasciamoci guidare da Lui fino alla croce, riceviamo l’offerta del suo corpo immolato. Infine, nella notte del Sabato Santo, celebreremo la solenne Veglia Pasquale, nella quale ci è annunciata la risurrezione di Cristo, la sua vittoria definitiva sulla morte che ci interpella ad essere in Lui uomini nuovi. Partecipando a questa santa Veglia, la Notte centrale di tutto l’Anno Liturgico, faremo memoria del nostro Battesimo, nel quale anche noi siamo stati sepolti con Cristo, per poter con Lui risorgere e partecipare al banchetto del cielo (cfr Ap 19,7-9).

Cari amici, abbiamo cercato di comprendere lo stato d’animo con cui Gesù ha vissuto il momento della prova estrema, per cogliere ciò che orientava il suo agire. Il criterio che ha guidato ogni scelta di Gesù durante tutta la sua vita è stata la ferma volontà di amare il Padre, di essere uno col Padre, e di essergli fedele; questa decisione di corrispondere al suo amore lo ha spinto ad abbracciare, in ogni singola circostanza, il progetto del Padre, a fare proprio il disegno di amore affidatogli di ricapitolare ogni cosa in Lui, per ricondurre a Lui ogni cosa. Nel rivivere il santo Triduo, disponiamoci ad accogliere anche noi nella nostra vita la volontà di Dio, consapevoli che nella volontà di Dio, anche se appare dura, in contrasto con le nostre intenzioni, si trova il nostro vero bene, la via della vita. La Vergine Madre ci guidi in questo itinerario, e ci ottenga dal suo Figlio divino la grazia di poter spendere la nostra vita per amore di Gesù, nel servizio dei fratelli. Grazie.

[[Saluti in varie lingue: Je salue cordialement les fidèles francophones, particulièrement les jeunes! Durant ces jours saints, puissiez-vous chercher le recueillement et la prière, et vivre le sacrement de la réconciliation pour participer avec fruits aux célébrations de la Sainte Pâque. Avec ma bénédiction!

I offer a cordial welcome to all the English-speaking pilgrims and visitors present at today’s Audience, especially the groups from England, the Netherlands, the Philippines, Canada and the United States. To you and your families I offer prayerful good wishes for a spiritually fruitful celebration of Holy Week and a happy Easter!

Gerne heiße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache willkommen. Wir wollen uns mit Freude und mit innerer Bereitschaft auf das nahe Osterfest vorbereiten – im Gebet, im Empfang des Bußsakraments als Akt der Erneuerung, der Neuwerdung und in der Mitfeier der Liturgie. So sollen auch wir bereit sein, Gottes Willen in unserem Leben anzuerkennen und uns ihm mit innerer Freude anzuvertrauen, weil wir wissen, wem wir da vertrauen, damit wir wirklich als Getaufte, als Christen leben. Euch allen eine gesegnete Osterzeit!

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, especialmente a los participantes en el encuentro UNIV, así como a los venidos de Argentina, Colombia, Ecuador, España, México y otros países latinoamericanos. Que la Virgen María nos enseñe a todos a acompañar en estos días a su Hijo, en los momentos decisivos de su misterio redentor.
A minha saudação a todos peregrinos de língua portuguesa, particularmente aos jovens universitários vindos para o UNIV! Exorto-vos, na celebração do Santo Tríduo, a dispor-vos ao acolhimento nas vossas vidas da vontade de Deus, conscientes de que nela se encontra o nosso verdadeiro bem, e o caminho da vida! Uma Santa Páscoa para todos!


Saluto in lingua croata:

Od srca pozdravljam i blagoslivljam sve hrvatske hodočasnike, a osobito mlade iz Splita i Zadra.

Dragi prijatelji, uskoro će nam se u liturgiji očitovati beskrajna ljubav kojom nas je Isus ljubio darujući svoj život da bismo mi imali puninu života. Slijedite Krista prema slavi uskrsnuća ljubeći jedni druge. Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Di cuore saluto e benedico tutti i pellegrini croati, particolarmente i giovani di Split e Zadar. Cari amici, fra pochi giorni, nella liturgia, ci sarà rivelato l’amore immenso con il quale Gesù ci ha amato dando la sua vita affinché noi avessimo la pienezza della vita. Seguite Cristo verso la gloria della Risurrezione amandovi gli uni gli altri. Siano lodati Gesù e Maria! .

Saluto in lingua lituana:

Nuoširdžiai sveikinu maldininkus iš Lietuvos. Garbė Jėzui Kristui! Brangūs bičiuliai, dėkoju, kad atvykote. Meldžiu jums ir visiems jūsų Tėvynės gyventojams gausių dangaus malonių. Visiems suteikiu Apaštališkąjį Palaiminimą.

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini provenienti dalla Lituania. Sia lodato Gesù Cristo! Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza e invoco su di voi, sulle vostre famiglie e sull’intera popolazione della vostra Patria l’abbondanza dei doni celesti. A tutti imparto la Benedizione Apostolica.

Saluto in lingua polacca:

Pozdrawiam obecnych tu Polaków. Liturgia Wielkiego Tygodnia wprowadza nas w tajemnice męki i śmierci Bożego Syna, aby niedzielny poranek zabłysnął światłem Jego zmartwychwstania. Życzę, aby przeżywanie tych tajemnic umacniało w nas wiarę, budziło nadzieję i rozpalało miłość, abyśmy coraz pełniej uczestniczyli w rzeczywistości naszego odkupienia. Niech Bóg wam błogosławi!

Traduzione italiana:

Saluto i polacchi qui presenti. La liturgia della Settimana Santa ci introduce nei misteri della passione e della morte del Figlio di Dio, perché il mattino della domenica risplenda della luce della risurrezione. Vi auguro di vivere questi misteri per rafforzare la fede, ravvivare la speranza e accendere l’amore, affinché sempre più pienamente partecipiamo alla realtà della nostra redenzione. Dio vi benedica!]]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto voi, partecipanti all’incontro internazionale dell’UNIV, promosso dalla Prelatura dell'Opus Dei. Cari amici, auguro che queste giornate romane siano per tutti voi occasione di riscoperta della persona del Cristo e di forte esperienza ecclesiale perché possiate tornare a casa animati dal desiderio di testimoniare la misericordia del Padre celeste. Così attraverso la vostra vita si realizzerà quanto auspicava San Josemaría Escrivá: “Il tuo contegno e la tua conversazione siano tali, che tutti nel vederti o nel sentirti parlare, possano dire: ecco uno che legge la vita di Gesù Cristo” (Cammino, n. 2).

 Saluto, poi, cordialmente i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani entreremo nel Sacro Triduo che ci farà rivivere i misteri centrali della nostra salvezza. Invito voi, cari giovani, specialmente voi ragazzi della “Lega Nazionale Dilettanti” a guardare alla Croce e trarre da essa luce per camminare fedelmente sulle orme del Redentore. Per voi, cari malati, la Passione del Signore, culminante nel trionfo glorioso della Pasqua, costituisca sempre sorgente di speranza e di conforto. E voi, cari sposi novelli, disponete i vostri cuori a celebrare con intensa partecipazione il Mistero pasquale, perché la vostra esistenza diventi ogni giorno un dono reciproco, aperto all'amore fecondo di bene.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 20 aprile 2011

Affidati a Dio

a Summa Teologica - Sedicesima parte - Se Dio sia la stessa cosa che la sua essenza o natura

Torniamo ad addentrarci nella Summa Teologica di San Tommaso d'Aquino, un'opera che diede un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana. Continuiamo a scoprire la parte dedicata al Trattato relativo all'essenza di Dio e scopriamo le risposte di San Tommaso ai dubbi e alle questioni:

Prima parte
Trattato relativo all'essenza di Dio

La semplicità di Dio
 
Se Dio sia la stessa cosa che la sua essenza o natura

Prima parte
Questione 3
 Articolo 3

SEMBRA che Dio non sia la stessa cosa che la sua essenza o natura. Infatti:
 1. Di nessuna cosa si dice che è in essa medesima. Ora, dell'essenza o natura di Dio, che è la divinità, si afferma che è in Dio. Dunque non pare che Dio si identifichi con la sua essenza o natura.

 2. L'effetto assomiglia alla sua causa; perché ogni agente produce cose simili a sé. Ora, nelle cose create il supposito non si identifica con la sua natura; difatti l'uomo non è la stessa cosa che la sua umanità. Dunque nemmeno Dio è identico alla sua divinità.

IN CONTRARIO: Di Dio si afferma che è la vita e non soltanto che è vivo, come appare dal Vangelo: "Io sono la via, la verità e la vita". Ora, tra divinità e Dio c'è lo stesso rapporto che tra vita e vivente. Dunque Dio si identifica con la stessa divinità.

RISPONDO: Dio è la stessa cosa che la sua essenza o natura. Per capire bene questa verità, bisogna sapere che nelle cose composte di materia e di forma l'essenza o natura e il supposito necessariamente differiscono tra loro. Perché l'essenza o natura comprende in sé soltanto ciò che è contenuto nella definizione della specie; così umanità comprende solo quel che è incluso nella definizione di uomo; solo per questo infatti l'uomo è uomo, e precisamente questo indica il termine umanità, quello cioè per cui l'uomo è uomo. Ora, la materia individuale con tutti gli accidenti che la individuano non entra nella definizione della specie; nella definizione dell'uomo infatti non sono incluse queste determinate carni, e queste ossa, o il colore bianco o quello nero, o qualche altra cosa di simile. Quindi queste carni, queste ossa e tutti gli accidenti che servono a determinare tale materia non sono compresi nella umanità. E tuttavia sono incluse in ciò che è l'uomo; conseguentemente la realtà uomo ha in sé qualche cosa che umanità non include. Ed è per questo che uomo e umanità non sono totalmente la stessa cosa; ma umanità ha il significato di parte formale dell'uomo; perché i principi (essenziali), da cui si desume la definizione, rispetto alla materia individuante hanno carattere di forma.
 Perciò in quegli esseri che non sono composti di materia e di forma, e in cui l'individuazione non deriva dalla materia individuale, cioè da questa determinata materia, ma le forme s'individuano da sé, bisogna che le forme stesse siano suppositi sussistenti. Quindi in essi supposito e natura non differiscono. E così, non essendo Dio composto di materia e di forma come si è dimostrato, è necessario che sia la sua divinità, la sua vita e ogni altra cosa che di lui in tal modo enunciata.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Non possiamo parlare delle cose semplici se non al modo delle composte, dalle quali traiamo le nostre conoscenze. E perciò, parlando di Dio, ci serviamo di termini concreti (Dio, Sapiente, Buono...) per significare la sua sussistenza, perché per noi soltanto i composti sono sussistenti; e per indicare la sua semplicità adoperiamo termini astratti (Divinità, Sapienza, Bontà...). Se quindi si dice che vi sono in Dio la deità, la vita, ecc., deve ciò riferirsi a diversità esistenti nel nostro modo di concepire, e non a distinzioni esistenti nella realtà.

2. Gli effetti di Dio somigliano a lui non perfettamente ma per quanto è possibile. E tale imitazione è imperfetta, proprio perché non si può rappresentare ciò che è semplice ed uno se non per mezzo di molte cose; e per lo stesso motivo si ha nelle creature quella composizione dalla quale proviene che in esse non s'identificano supposito e natura.

martedì 19 aprile 2011

Benedetto XVI: catechesi su santa Giuliani

Riscoprire i Santi - Santa Veronica Giuliani

Torna anche per questo martedì, l'appunto settimanale volto alla scoperta dei nostri cari Santi! Essendo nella Settimana Santa, non potevamo non soffermarci su Santa Veronica Giuliani che rappresenta una Santa vergine che corrispose alla Passione di Gesù Cristo. La sua vita è davvero ricca di manifestazioni chiaramente sovrannaturali, sin dalla primissima infanzia: e questo ci fa comprendere come Gesù l'avesse scelta prima ancora di venire al mondo. Scopriamo il mistero della sua esistenza così devota a Cristo (al punto da arrecarsi volontariamente dolore per condividere le sofferenze del Signore) con il consueto tratto biografico (tratto dal sito Santi & Beati), seguito da alcune brevi riflessioni della Santa, sulla Passione di nostro Signore Gesù Cristo:

 
Questa straordinaria mistica è nata il 27-12-1660 a Mercatello sul Metauro, nella diocesi di Urbania (Pesaro), dal capitano Francesco e da Benedetta Mancini. La sua vita fu un susseguirsi di meraviglie. Battezzata con il nome di Orsola, a soli cinque mesi prese a camminare da sola per recarsi a venerare un quadro raffigurante la SS. Trinità. Non aveva ancora sette mesi quando ammonì un negoziante poco onesto: "Fate la giustizia, che Dio vi vede". A due o tre anni cominciò a godere delle frequenti visioni di Gesù e Maria, che le sorridevano e rispondevano dalle immagini appese alle pareti di casa mentre ella esclamava: "Gesù bello! Gesù caro! Io ti voglio tanto bene". Durante la Messa, al momento dell'elevazione, nell'ostia vedeva quasi sempre Gesù che l'invitava a sé. "Oh, bello!... Oh, bello!..." gridava la piccina, e si slanciava verso l'altare. Quando il sacerdote portò il viatico a sua madre, Orsola vide l'ostia sfolgorante di luce. A mani giunte supplicò: "Date anche a me Gesù".
Appena la morente si comunicò, le si pose accanto, sul letto, esclamando:
"Oh, che cosa bella avete voi avuto, mamma! Oh, che odore di Gesù!". Prima di morire la pia genitrice chiamò le sue cinque figlie attorno a sé e a ciascuna assegnò una piaga del crocifisso come rifugio e oggetto particolare di devozione. Ad Orsola, di sei anni, toccò quella del S. Cuore.
Nella fanciullezza, sentendo leggere la vita dei martiri, la santa concepì grande desiderio di patire per amore di Gesù. Una volta mise di proposito una manina nel fuoco di uno scaldino e se la scottò tutta senza versare lacrime. Si disciplinava con una grossa corda; camminava sulle ginocchia; disegnava croci in terra con la lingua; stava lungamente a braccia aperte in forma di croce; si pungeva con gli spini; si costruiva croci sproporzionate alle sue spalle, bramosa di fare tutto quello che aveva fatto il Signore il quale, nella settimana santa, le si faceva vedere coperto di piaghe.
Per amor di Dio, Orsola aveva compassione dei poverelli ai quali donava generosamente quello di cui disponeva. Scriverà più tardi: "Mi pareva di vedere nostro Signore, quando vedevo essi". Col passare degli anni crebbe in lei sempre più la brama di fare la prima Comunione. Supplicava Maria SS.: "Datemi cotesto vostro Figlio nel cuore!... io sento che non posso stare senza di Lui!" Fu soddisfatta il 2-2-1670 a Piacenza, dove suo padre si era trasferito in qualità di Sopraintendente alle Finanze presso la corte del Duca Ranunzio II. Gesù allora le disse: "Pensa a me solo! Tu sarai la mia sposa diletta!". Ma come lasciare il mondo se la sua bellezza le attirava le più vive simpatie di giovani distinti? Al babbo che l'adorava un giorno disse: "Come posso ubbidirvi, se il Signore mi vuole sua sposa?... Anch'Egli è mio padre, e Padre supremo. Non solo gli debbo ubbidire io, ma ancor voi".
Dopo aver mutato il nome di Orsola in Veronica, il 17-7-1677 riuscì a entrare, diciassettenne, nel monastero delle Cappuccine di Città di Castello (Perugia). E impossibile descrivere il cumulo di grazie, doni, privilegi, visioni, estasi, carismi singolari che Dio elargì incessantemente alla sua "diletta". I fenomeni mistici che in lei si verificarono furono controllati a lungo e severamente dalle autorità competenti. Dal 1695 al 27-2-1727, nonostante la grandissima ripugnanza che provava, la santa scrisse, senza rileggerle, in un Diario le fasi e le esperienze della sua vita interiore per obbedienza al vescovo, Mons. Eustachi, e al confessore del monastero, il P. Ubaldo Antonio Cappelletti, filippino. Riempì 21.000 pagine raccolte in 44 volumi, pubblicati dal 1895 al 1928 dal P. Luigi Pizzicarla SJ., con versioni in francese e spagnolo.
Dopo che Gesù elevò Suor Veronica al suo mistico sposalizio, fu soddisfatta nella sua ardente brama di patire per Lui. In modo misterioso, ma reale e visibile, sperimentò a uno a uno tutti i martiri e gli oltraggi della sua Passione. Di continuo esclamava: "Le croci e i patimenti son gioie e son contenti". Giunse a dire: "Né patire, né morire, per più patire". Accoratamente diceva a Gesù: "Sitio! Sitio! Ho sete non di consolazioni, ma di amaritudine e di patimenti". Si può dire che fin dall'infanzia pregasse: "Sposo mio, mio caro bene, crocifiggetemi con Voi! Fatemi sentire le pene e i dolori dei vostri santi piedi e delle vostre sante mani... Più non tardate! Passate da parte a parte questo mio cuore".
Nel 1694 divenne maestra delle novizie e ricevette nel capo l'impressione delle spine. Dopo tre anni di digiuno a pane e acqua, il venerdì santo del 1697 le apparvero le stimmate e nel cuore ebbe impressi gli strumenti della Passione. "In un istante, scrisse la santa, vidi uscire dalle sue santissime piaghe cinque raggi splendenti; tutti vennero alla mia volta; e io vedevo i detti raggi divenire come piccole fiamme. In quattro vi erano i chiodi e in uno la lancia d'oro, ma tutta infuocata, e mi passò il cuore da banda a banda, e i chiodi passarono le mani e i piedi". Per questo soffriva talmente, anche in modo visibile agli altri, che veniva chiamata la "sposa del crocifisso".
Il vescovo di Città di Castello, al corrente dei fenomeni soprannaturali che avvenivano in Suor Veronica, dopo un rapporto al S. Ufficio, ricevette istruzioni che applicò con la più grande severità. Accompagnato da sacerdoti sperimentati, si recò nel monastero e si convinse della realtà delle stimmate. Alcuni medici ne curarono le ferite per sei mesi. Dopo ogni medicazione le mettevano guanti alle mani muniti di sigilli. Ma le ferite, invece di guarire, s'ingrandivano di più. La badessa ricevette dal vescovo ordini destinati a provare la pazienza, l'umiltà e l'obbedienza della santa nella maniera più sensibile. Le fu tolto l'ufficio di maestra delle novizie; fu dichiarata scaduta dal diritto di voto attivo e passivo; le fu proibita ogni relazione con le altre suore; colpita da interdetto non fu più ammessa all'ufficio in coro né alla santa Messa; fu privata persino della Comunione e per cinquanta giorni fu chiusa in una cella simile ad una prigione. Insomma, di proposito, fu trattata come una folle, una simulatrice e una bugiarda. Il Vescovo al S. Ufficio non poté fare altro che scrivere: "Veronica obbedisce ai miei ordini nella maniera più esatta e non mostra, riguardo a questi duri trattamenti, il più leggero segno di tristezza, ma al contrario, una tranquillità indescrivibile e un umore gioioso".
A queste sofferenze univa di continuo indicibili penitenze, accesissime preghiere per la conversione dei peccatori. "M'ha costituita mediatrice fra Lui e i peccatori. Questo è il primo offizio che Iddio mi ha dato" scriveva. Continui suffragi offriva alle anime dei defunti. Confidò nel Diario: "Mi ha promesso Iddio la grazia di liberare quante anime voglio dal Purgatorio". Aveva continuamente presenti al suo spirito pure i bisogni di tutta la Chiesa e specialmente dei sacerdoti.
 Sottomessa sempre in vita ai superiori, la santa volle morire il 9-7-1727, dopo 33 giorni di malattia, appena il confessore, il P. Guelfi, le disse: "Suor Veronica, se è volontà di Dio che l'ordine del suo ministro intervenga in quest'ora suprema, vi comando di rendere lo spirito". Quando morì era badessa da undici anni. Nel suo cuore verginale furono trovati scolpiti gli emblemi della passione così come li aveva descritti e persino disegnati per ordine del confessore. Il suo corpo è venerato sotto l'altare maggiore della chiesa delle Cappuccine in Città di Castello. Pio VII la beatificò il 18-6-1804 e Gregorio XVI la canonizzò il 26-5-1839.
Autore: Guido Pettinati

RIFLESSIONI DI SANTA VERONICA GIULIANI

"Nel fine della sua vita, approssimandosi il tempo della Sua morte, non gli dava cuore di lasciarci, e trovò un'invenzione amorosa, per poter sempre restare con noi, con lasciarci Se stesso per cibo delle anime nostre". "A nostro pro". “Vera medicina per i nostri mali: se siamo deboli ci dà forza, se siamo freddi ci riscalda, se siamo afflitti ci consola”. "Noi accostandoci al fonte e, per dir meglio, al mare immenso del divinissimo Sacramento, ogni qual volta ci accostiamo con fede, con amore e con purità, l'anima nostra si intrinseca in Dio e fa come, per esempio, il pesce in mezzo al mare. O Dio! Ella sta in mezzo a questo divinissimo mare. Ove si volta, ove sta, ove si posa, tutto è Dio; e questo Dio arricchisce siffattamente le anime nostre delle Sue grazie e doni, che ogni comunione fa che l'anima nostra faccia sempre passi da gigante nella perfezione". "Il nostro cuore divien tempio della SS. Trinità".

"Arrivato al Calvario, (i carnefici) spogliatolo delle sue vesti, gli rinnovarono tutte le piaghe, e poi, gli cavarono la corona di spine, e gliela rimisero con doppio patire". "Patì (molto) quando (i suoi crocifissori) rivoltarono la croce sossopra per ribattere i chiodi" "che gli avevano messi nelle mani e piedi". I crocifissori "misero la croce in quella buca e la calarono giù" "con tale empietà", "che in quell'istante si rinnovarono nel corpo di Gesù tutte le pene. Si strapparono i nervi", e "si riaprirono tutte le piaghe". "Stando sulla croce, il suo Cuore Santissimo provò tutti i tormenti che ebbe l'Umanità Sua, ed anche sentì in sé tutte le pene e i dolori della Sua Santissima Madre; e tutti quelli che dovevano patire i suoi Eletti". "Mentre stava sulla croce... il maggior patire che (ebbe fu) quell'abbandono interno. Le pene, la croce, i chiodi, erano come delizie al pari delle pene che pari nel suo interno". "Ebbene che vuoi più di quello che io faccio per te? Eccomi confitto in questa croce, per tuo amore". "L'Umanità Santissima... stava tutta attenta per offrire per noi tutta se stessa; e con che amore lo faceva! Questo fu tanto ardente, che lo dimostrò in tutto, specialmente però, pregando il Suo Eterno Padre, perché volesse perdonare a quelli medesimi carnefici, con scusargli, che non sapevano che cosa si facessero". "Sotto la croce... (Maria Santissima pari molto) nel vedere il Suo amato Figlio... pendente in croce. Ella partecipava dei medesimi tormenti, non per via dei carnefici, come Gesù, ma ... per via di amore e di dolore ... Il Cuore di Gesù, e il Cuore di Maria stavano ambedue uniti in pena ed in amore, e si offrivano a Dio Padre, per tutti noi mortali".