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sabato 18 dicembre 2010

Non farlo (Storia di un aborto) - Ottava parte

Continuiamo a leggere la testimonianza anonima di un aborto che invita alla riflessione all'esortazione più importante: "non farlo!". Oggi vediamo come sia importante il ruolo di chi entra in contatto con persone indecise, soprattutto i genitori e quanti danni possono compiere se si lasciano guidare dall'egoismo e dalla malignità. Chi è vicino ad una ragazza incinta, la deve supportare, ben consigliare e anche rimproverare, se del caso, perchè la vita dipende da questo:


Cercai dentro di me la forza per parlare con mia madre, ritenendo che fosse l’unica persona alla quale avrei potuto confessare il mio segreto, senza essere giudicata. Nonostante questo, provavo molta vergogna e umiliazione: stavo per dirle che il mio ragazzo non voleva avere un figlio da me.
Trovai il momento più opportuno per parlarle, ripromettendomi di restare lucida e padrona di me stessa il più possibile. Non avevo intenzione di lasciar trasparire la mia disperazione e il mio orgoglio di donna devastato, a nessuno, neppure a lei. Decisi che le avrei raccontato ciò che stava accadendo, ponendo l’attenzione sul disgusto che avevo provato nel momento in cui io e mio figlio eravamo stati rifiutati, come fossimo delle seccature di cui si desidera solo sbarazzarsi.
Il ruolo di mia madre fu fondamentale in tutta la situazione. Era lei che avrebbe potuto modificare le sorti di quel bambino o di quella bambina in mille modi. Ed è per questo che non potrò mai perdonarla: per non aver cercato di dissuadermi, di sensibilizzarmi in ogni modo, di farmi capire che quella era solo una fase transitoria, che avrei comunque superato in qualche modo. Di farmi capire che anche se in quel momento ero così arrabbiata e pessimista, tutto mi sarebbe sembrato diverso col passare del tempo, tutto sarebbe cambiato, e ci sarebbero state altre, mille, soluzioni.
Io non sentii mai uscire dalla sua bocca nessuna di queste parole. Si limitò a dirmi, senza troppe insistenze, che in fondo quel bambino era un piccolo “essere”, che era molto triste pensare di doversene separare. Io mi dimostrai molto determinata. Le spiegai le ragioni per cui quel “esserino” avrebbe certamente avuto, a mio parere, una vita infelice, a causa mia e di suo padre, e io non volevo assolutamente che questo accadesse.
Fui molto convincente, a quanto pare, anche se desideravo tanto che mia madre potesse trovare argomenti ancora più persuasivi dei miei, capaci di farmi cambiare idea, o perlomeno di farmi riflettere… Invece niente.
Mi disse che ero io, in ogni caso, a dover decidere della “mia vita” (come se si trattasse solo della mia…) e che se era quello che volevo, lei mi avrebbe aiutata.
Non mi stava aiutando. Perché non l’ho capito? Perché non mi sono resa conto che era solo un modo per abbandonarmi? Per lasciare solo a me il problema, il rimorso, il senso di colpa che mi avrebbe perseguitato per sempre? Lei si stava semplicemente sbarazzando di quella scabrosa situazione, fingendo di lasciare a me la libertà di decidere, quasi serenamente, e io non la perdonerò mai per questo.
Piansi ancora, per non so quanto tempo, ma avevo deciso, forte delle mie convinzioni assurde, meschine, disperate e falsamente altruiste, che dovevo interrompere quella gravidanza al più presto, prima ancora di avere il tempo di pensare, di pentirmi, di cambiare idea. Pensavo: ora lo faccio, perché non deve passare troppo tempo, poi penserò al futuro, a come comportarmi con Marco, e cosa fare della mia vita.
Non avrei mai immaginato, allora, che la mia vita non avrebbe avuto più alcun senso, che il dolore e il rimpianto sarebbero stati gli unici sentimenti che avrei provato da quel momento in poi, che la mia voglia di vivere sarebbe svanita per sempre. Non lo capivo, e lei, mia madre, quasi per consolarmi, mi continuava a
ripetere che tanto quel bambino (o bambina) non sarebbe mai stato sereno come gli altri, come i figli di mia sorella, intelligenti, felici e spensierati! Ed io, fragile e impressionabile com’ero, ascoltavo e credevo a quelle parole. Parole che non potrò mai dimenticare, e che riaffiorano alla mente tutte le volte che guardo negli occhi i miei due nipotini che mi sorridono…
Mia madre mi ha fatto sentire una donna di second’ordine, che non poteva godere degli stessi diritti d’essere una madre felice e realizzata come erano state lei e mia sorella, che non poteva permettersi di vivere la grande gioia di diventare mamma, perché non aveva saputo scegliere la persona giusta… Ed io mi sono convinta di questo. Mi diceva che in futuro avrei avuto altri figli, che avrei certamente dimenticato questa brutta esperienza, che avrei proseguito la mia vita serenamente… Ed io le ho creduto. Ho voluto crederle, anche se non era vero.
Il giorno seguente si occupò lei di contattare una clinica privata in cui venivano praticate le interruzioni di gravidanza. Un posto orribile dove, paradossalmente, tutto sembrava normale, tutto apparentemente andava a
gonfie vele; dove si uccidevano chissà quanti bambini ogni mattina, allora come oggi, purtroppo, col sorriso sulle labbra.
Neppure un obiettore di coscienza esisteva in quell’inferno maledetto. Nessuno che avesse un minimo di cuore, che provasse un po’ di dolore e di rimorso per quelle quotidiane esecuzioni. Come possono esistere persone così crudeli…? Mi fissarono l’appuntamento esattamente per due settimane dopo, prima non era possibile perché c’erano molte altre donne prima di me.

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