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sabato 16 ottobre 2010

Vivere o uccidere una vita - Quarta parte

Continuiamo la lettura della testimonianza di una persona anonima sulla realtà dolorosa dell'aborto. Oggi leggiamo il racconto dell'esperienza più traumatica e cioè l'intervento in ospedale:


Quella mattina varcai la soglia dell’ospedale alle 9. Raggiunto il reparto, mi ritrovai in una sala d’attesa piena di gente; eppure il vuoto che regnava nel mio cuore era grande e dal sapore amaro.
Mi tenevo stretta a Stefano cercando protezione, un rifugio sicuro per le mie paure. Ricordo di averlo guardato, ad un certo punto, chiedendogli: “E se lo teniamo e ce ne andiamo via tutti e tre?”. Senza distogliere il suo sguardo dal mio, sorridendomi dolcemente, rispose: “ Se vuoi, lo sai, lo possiamo tenere”.
Cavolo! Invece di sentir rinnovare la mia (“mia” non “nostra”) libertà di scelta, avrei desiderato con tutta me stessa che mi avesse preso per mano per poi trascinarmi fuori di lì, lontano; che mi avesse abbracciato forte, fino a togliermi il respiro, per poi dirmi: “Insieme ce la possiamo fare; io questo bambino lo voglio…perché ti amo”. Ma, ahimè, quello che chiedeva realmente il mio cuore non aveva ricevuto risposta e, di nuovo, mi sono
sentita SOLA.
In quel momento si affacciò nel corridoio il Dott. X che, dopo avermi dato le prime e necessarie istruzioni su cosa fare una volta giunta in camera, invitò Stefano a tornare nel pomeriggio: la tutela della privacy delle altre
sventurate come me imponeva questa decisione. Io non volevo che andasse via… che ci separassimo. L’ultima opportunità di salvare il nostro bambino, parlando ancora e trasmettendoci le nostre emozioni, liberamente, senza i condizionamenti dell’imperdonabile e stupida razionalità che ci attanagliava… era svanita. E poi, come avrei potuto affrontare tutto da SOLA?
Entrai allora nella stanza… un ghetto riservato a chi, come me, quel giorno doveva abortire. Si respirava morte al suo interno. Quasi mi bloccai sui miei passi. Sentivo le gambe come riluttanti a proseguire…
Trovai un unico letto disponibile, vicino alla finestra, di certo il più esposto al vento, che s’infiltrava dalla stessa e che quel giorno soffiava impetuoso.
Ma che importava… Il gelo che sentivo nel cuore era più opprimente... Mi vergognavo di essere lì, non avevo il coraggio di sollevare lo sguardo dal letto su cui appoggiai le mie poche cose, pur sapendo che non sarei stata
giudicata dalle “mie compagne”.
Quasi inebetita, mi preoccupai di assumere l’antibiotico che mi ero rocurata precedentemente su indicazione del medico, accompagnandolo con un sorso d’acqua… l’acqua… l’unico segno di vita lì dentro.
Spogliatami, indossai subito il pigiama e andai in bagno a fare pipì: di lì a poco sarebbe arrivato il Dott. X che ci avrebbe inserito nella vagina un ovulo necessario per dilatare l’utero. Avremmo dovuto attendere due ore per far sì che ciò avvenisse e fosse… più facile strappare via dal grembo… mio figlio…
Scrivo e, mentre lo faccio, piango. E’ difficile continuare a raccontare…
I dolori diventarono sempre più acuti: l’ovulo stava svolgendo efficacemente la propria azione... Alla schiena e alle gambe avvertivo un male insopportabile; le ovaie si contraevano, il sangue si era gelato, le ossa si erano rattrappite. Battendo letteralmente i denti rivolgevo lo sguardo al soffitto, cercando il volto di Dio: ma con quale diritto?
Mi chiedevo a voce alta: “cosa sto facendo?”.
Non sapevo che la risposta a quella domanda mi avrebbe perseguitato da subito e per ogni nuovo giorno della mia misera vita.
Non ce la facevo più!! Richiesi l’intervento di un’infermiera affinché mi somministrasse qualcosa, qualsiasi cosa, per alleviare la mia crescente sofferenza.
Fu necessario farmi una flebo di un potente antidolorifico. Non riuscivano a trovare la vena e ciò significava dolore che si sommava ad altro dolore, ma non mi importava: l’unico mio desiderio era che cessassero quelle continue e violente contrazioni.
Si aggiunse, di lì a poco, un forte senso di nausea tale da non riuscire più a trattenermi e a indurmi a vomitare i succhi gastrici e… la mia anima. Con gli occhi di chi implora un briciolo di pietà “rubai” la mano dell’infermiera e la portai sul mio viso, stringendola poi. “Qual è il tuo nome?” - le chiesi. “Liliana” - subito mi rispose, con un fare cordiale che non potrò mai dimenticare. “Come la mia migliore amica” - le dissi con un debole sorriso. “Grazie” - continuai . “Aiutami, fa tanto male; ti prego aiutami”. “Devi respirare lentamente; se ti agiti è peggio. Vedrai che tra poco andrà meglio”.
Ma non passava.
“Voglio la mia mamma” - le dissi ancora, guardando verso la porta. “Perché non è venuta?”. “Perché non sa niente”. Lei, la mia mamma, non mi avrebbe mai permesso di essere lì; non mi avrebbe consentito neanche di pensare alla soluzione da me scelta. Con il suo “solito” amore mi avrebbe sostenuta e si sarebbe sacrificata per aiutarmi se ce ne fosse stato bisogno. Sarebbe stata felice di quel dono, come gli altri in famiglia. Ma io non volevo essere un peso per nessuno, neanche per lei. La mia tribolazione raggiunse l’apice e lanciai un urlo di dolore... Arrivò di nuovo il Dott. X che si sedette ai bordi del letto, cercando a suo modo di consolarmi. “Glielo avevo detto che doveva armarsi di tre sacchi di pazienza” – mi ricordò. Vomitai di nuovo. Non tardò a presentarsi un diverso effetto collaterale dell’ovulo: la diarrea. Il dottore ci invitò ad andare in bagno una alla volta e a non esitare a chiamare l’infermiera in caso di bisogno.
Giunto il mio turno, raccolsi tutte le forze. Non riuscivo a tenermi in piedi, ma non potevo evitarlo.
Tornata a letto, stremata, guardai l’orologio. Non vedevo l’ora che avesse fine quella lenta agonia. Più tardi si affacciò un signore sull’uscio, che ci chiese chi volesse sottoporsi per prima all’intervento. Sperando che l’attesa fosse finita mi abbandonai alla stanchezza; finalmente stavo un po’ meglio. Portarono via la più grande di noi tre sventurate. Prima che la stessa rientrasse, un’infermiera mi venne a prendere in camera, e mi chiese se ce la facevo a camminare.
Per raggiungere la sala operatoria, attraversammo un lungo corridoio, per me interminabile. Lei mi sorreggeva tenendomi per un braccio; i miei passi erano lenti e insicuri; la testa era china. Mi sentivo come un animale che andava al macello.
Quando vi giungemmo, vidi su una barella l’altra ragazza, semicosciente, che accarezzai in viso prima che la portassero via. Aspettai in una stanza, piegata su me stessa, quasi inebetita, con lo sguardo fisso sul pavimento, dove mi privarono delle calze, della collana e di un anello da cui non mi separavo quasi mai. Quando mi dissero che era tutto pronto mi portarono in sala operatoria, mi fecero togliere il pantalone del pigiama e le mutandine. Mi fecero mettere supina sul lettino, con le gambe appoggiate sul divaricatore e il bacino spostato in avanti: era quella la giusta posizione da adottare.
Mi vergognavo, mi sentivo violentata, percossa nella mia intimità. Erano in cinque intorno a me…
Il Dott. X era pronto. Prima di addormentarmi, rivolsi una supplica all’anestesista, una donna sulla quarantina, dallo sguardo indifferente e duro, mi sembrava, ma che invece rappresentò per me un momento di umanità e
protezione. Rispose affermativamente al mio “dimmi che quando mi sveglierò sarà tutto finito” con una carezza accompagnata da uno sguardo tenero e compassionevole.
Poi… un forte dolore alla mano per via della sostanza iniettatami e l’ultima frase, pronunciata a denti stretti, prima di far morire mio figlio:

Quanto fa male”…

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