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sabato 9 ottobre 2010

Vivere o uccidere una vita - Terza parte

Continuiamo la lettura della testimonianza di una persona anonima sulla realtà dolorosa dell'aborto:

Un capitolo della mia vita stava per concludersi prima che scoprissi di essere incinta.
Affaticata, ma nel contempo colma di speranza per un nuovo inizio, avevo investito tutte le mie energie nella preparazione dell’esame di Stato che mi avrebbe consentito di diventare un avvocato. Anni di studio, di sacrifici, di rinunce, di sforzi continui per non soccombere alla stanchezza mentale, stavano finalmente per essere ripagati. Il mio desiderio più grande era spiccare il volo e raggiungere l’indipendenza per essere libera.
Stava per accadere davvero! ... e così è stato.
Superato quell’ostacolo, che a volte consideravo insormontabile, la gioia non era più una sensazione che speravo di provare al più presto, ma era divenuta reale; la conclusione perfetta di un’immensa fatica. Ora, tutto
sembrava in discesa. Che soddisfazione! Mi sentivo viva, animata da un gran vigore, appagata come non accadeva da diverso tempo, pronta per affrontare il mondo.
E accanto a me avevo un uomo meraviglioso, che amavo come non avevo mai amato nessuno, che rappresentava il mio sostegno nella vita di tutti i giorni e che era il mio sorriso e la mia allegria…
Poi…

… il buio.

Allarmata, benché si trattasse di un minimo ritardo, per qualche giorno mi sono sentita assalita da una gran disperazione. Le mie mestruazioni si presentavano sempre con assoluta puntualità e, per tal motivo, il mio istinto mi diceva che quel ritardo era quasi certamente dovuto ad una gravidanza. E se così fosse stato? Che avrei fatto? Rimandavo indietro i miei pensieri nel tentativo di esorcizzarli, come se la mia indifferenza avesse potuto annullarli e scongiurare ciò che temevo. Ma, inevitabilmente, la mente si proiettava nel futuro e avevo paura.
Paura …
Paura di crescere? Di assumermi responsabilità? Di forzare la mano del destino ed essere sposata per obbligo? Di legare a me una persona di cui non conoscevo realmente le intenzioni? Di essere un peso per Stefano e la mia famiglia, visto che non avevo un lavoro e non ero in grado di offrire al mio bambino tutto quello di cui aveva necessità?
Non lo so… Non so rispondere...
So “solo” che l’avrei amato immensamente; a lui avrei riservato ogni goccia del mio amore.
Ma mi sentivo così confusa da non saper mettere facilmente ordine in quel groviglio di emozioni contrastanti.
C’era soltanto un modo per porre fine a quel tormento che mi assillava: fare il test. Per questo occorreva prudenza: abitando in un piccolo paese di montagna bisognava essere discreti per sottrarsi a quei pettegolezzi e
commenti che sarebbero stati inevitabili. Recarsi presso la farmacia di una città vicina: ecco, era questa la soluzione migliore. Lungo il percorso in macchina il tempo era scandito dal silenzio. Più andavamo avanti e più si avvicinava il momento di conoscere la verità. Ed ero talmente immersa nella mia angoscia da perdere la percezione dei luoghi, del tempo, della vicinanza di Stefano. Ricordo solo che ci tenevamo per mano e che, in quei frangenti, tutto scorreva per me in modo anonimo: niente colori intorno, niente luce, nessuna voce...
Avrei voluto dei figli, e avrei desiderato che il loro padre fosse il mio adorato Stefano. Mi capitava di fantasticare sulla nostra famiglia, ma non c’era stabilità nella mia vita.
E lui? Che cosa stava provando realmente? Si sarebbe sentito in trappola in caso di esito positivo? Sicuramente mi sarebbe rimasto accanto… Ma all’improvviso era come se non conoscessi realmente né lui né me…
Inspiegabile.
Fatto l’acquisto, il viaggio di ritorno ci era stato utile per leggere il foglietto informativo e informarci sulle modalità d’uso di quel “termometro degli ormoni” così piccolo e tuttavia in grado di cambiare la direzione delle nostre esistenze. Sempre più certa di conoscere la risposta senza attendere la colorazione delle lineette, speravo tuttavia di sbagliarmi. Tre minuti di attesa soltanto erano richiesti… Istanti interminabili…
Il test era positivo.
Assalita da una gran disperazione, mi sentivo soffocare… Mai provato una simile angoscia. Era come se la mia vita fosse finita in quell’attimo. Piangevo e non riuscivo a calmarmi. In un certo senso ha sorpreso anche me la mia reazione. Ripetevo: “non lo voglio!”… Come se fosse stato un brutto regalo da rifiutare. Ma lui era già in me, viveva già in me, respirava in me… Che cosa c’era di tragico nella vita che portavo in grembo? Che cosa c’era di tragico nell’innocenza assoluta e pura di quel bambino? Niente. Tutt’altro! Eppure, mi ostinavo a non capire…
Mi sentivo perduta. Ormai non si poteva fare più nulla se non… buttarlo via; eh già, le cose vanno chiamate con il proprio nome.
La possibilità di abortire non l’avevo inizialmente considerata poiché contraria ai miei principi, ai valori e agli insegnamenti che mi avevano trasmesso i miei genitori e, dunque, discordante con la mia coscienza…
… La mia coscienza…… Quella stessa coscienza che intendevo preservare da qualsiasi tipo di compromesso, in qualsiasi situazione mi fossi venuta a trovare, e che, invece, avevo macchiato già solo con il mio proposito poi divenuto realtà.
Dopo uno sfogo liberatorio dell’ansia accumulata nei giorni precedenti, quasi in una pausa, del cuore e della mente, dagli affanni provati, accarezzavo l’idea di diventare una mamma dopo nove mesi... Mi sembrava
incredibile, meravigliosamente straordinario, e al telefono con la mia amica Liliana le mie lacrime si erano inaspettatamente trasformate in sorriso. Ma il giorno successivo “quell’idea” diventava sempre più insistente e mi martellava… Il meccanismo era scattato.
Con la scusa di volermi solo informare su cosa sarebbe accaduto se avessi scelto di non tenerlo, mi avviavo a percorrere una strada senza ritorno. Un non ritorno deciso da me però, perché fino all’ultimo minuto avrei potuto rifiutare e fermare tutto; dire: “no, grazie. Io e il mi bambino andiamo via”.
La mia vita sarebbe stata migliore a quest’ora, non ne ho alcun dubbio.
Eppure non è andata così. Da allora, tutto è accaduto velocemente: il primo contatto con il Dott. X, la visita ginecologica nel suo Studio, l’ecografia che non ho voluto vedere, se non in seguito, le analisi del sangue (eseguite ovviamente in un laboratorio privato). La “preparazione” per quello che sarebbe diventato il giorno più orrendo e terribile della mia vita. E alla mente mi tornano ancora, lasciandomi basita adesso come in
quell’occasione, le parole pronunciate dal medico incontrato ma, soprattutto, quelle non dette. Ricordo che dopo la spiegazione, breve e distaccata, di come si sarebbe svolto l’intervento, il Dott. X aggiunse: “Se
decidete per il sì, andate avanti e non voltatevi indietro”; e poi rivolgendosi solo a me: “Devi armarti di tre sacchi di pazienza”.
Basta. Solo questo.
Non mi ha domandato, nemmeno una volta, “Cosa ti spinge a farlo?” o “Sai cosa succede in realtà?” o “Sei sicura?” o “come stai?”. Non c’è mai stato un suo tentativo di dissuasione nei miei confronti. Non ha nemmeno
accennato a quanto potesse essere meravigliosa la maternità, al miracolo della vita che essa custodisce in sé; non mi ha aiutato a riflettere, a pensare, a ragionare (perché la donna che pensa di abortire non ha la lucidità per capire nulla, essendo sopraffatta dal panico e dalla paura); come se far nascere un bambino o ucciderlo fosse stata la medesima cosa… come decidere se indossare un paio di pantaloni bianchi o neri… come se fosse stato naturale e normale.
Quella freddezza, che io ho avvertito essere dominante, mi ha spiazzato e ha contribuito ad aumentare la mia solitudine… Avevo bisogno di parlare, parlare, parlare… ed essere ascoltata per essere capita ed aiutata.

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