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martedì 30 novembre 2010

Apostoli di Gesù

Sant'Andrea Apostolo e la chiamata di Gesù

Oggi, la Chiesa Cattolica celebra il ricordo di uno dei primi discepoli di Gesù e cioè Sant'Andrea, il quale diverrà apostolo fino al martirio. La sua storia è molto interessante e mostra una chiara passione nel voler seguire il Maestro, sin dall'inizio e cioè sin dal momento in cui San Giovanni Battista indicò in Gesù, il Messia! Oggi, approfondiamo la conoscenza di quest'apostolo perchè possiamo imparare anche noi a dire Sì a Gesù, senza condizioni e senza pensieri di sorta. Sant'Andrea è la chiara dimostrazione di un vero fedele che si affida al Signore con tutta la sua vita, provvedendo affinché anche gli altri, a cominciare da suo fratello, si accorgano della grandezza e della meraviglia della presenza di Gesù Cristo nelle nostre vite. Diamo primo uno sguardo biografico (opera del noto sito Santi e Beati), seguito da un auspicio di Paolo Curtaz e poi immergiamoci in una meditazione evangelica del Movimento Apostolico:

Tra gli apostoli è il primo che incontriamo nei Vangeli: il pescatore Andrea, nato a Bethsaida di Galilea, fratello di Simon Pietro. Il Vangelo di Giovanni (cap. 1) ce lo mostra con un amico mentre segue la predicazione del Battista; il quale, vedendo passare Gesù da lui battezzato il giorno prima, esclama: "Ecco l’agnello di Dio!". Parole che immediatamente spingono Andrea e il suo amico verso Gesù: lo raggiungono, gli parlano e Andrea corre poi a informare il fratello: "Abbiamo trovato il Messia!". Poco dopo, ecco pure Simone davanti a Gesù; il quale "fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa”". Questa è la presentazione. Poi viene la chiamata. I due fratelli sono tornati al loro lavoro di pescatori sul “mare di Galilea”: ma lasciano tutto di colpo quando arriva Gesù e dice: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini" (Matteo 4,18-20).Troviamo poi Andrea nel gruppetto – con Pietro, Giacomo e Giovanni – che sul monte degli Ulivi, “in disparte”, interroga Gesù sui segni degli ultimi tempi: e la risposta è nota come il “discorso escatologico” del Signore, che insegna come ci si deve preparare alla venuta del Figlio dell’Uomo "con grande potenza e gloria" (Marco 13). Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione.
E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, pubblicato nel 1740 da L.A. Muratori, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: "Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen". Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre.
Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso. (Santi e Beati)

La tradizione vuole che Andrea abbia concluso i suoi giorni evangelizzando le comunità dell'attuale Grecia che riconosce in lui il fondatore della Chiesa di Costantinopoli, come Pietro fu Vescovo di Roma. Roma e Costantinopoli, due esperienze di Chiesa drammaticamente separate dalle incomprensioni e gli errori della storia: separata dalla chiesa cattolica romana da quasi mille anni, la chiesa ortodossa ha continuato il suo cammino fino a noi oggi, evangelizzando le immense pianure russe e i paesi dell'est. Che la volontà di riunificazione, così profondamente cercata dagli ultimi papi, venga fecondata dalla preghiera di Andrea apostolo. Che sia lui a spingere la barca della sua Chiesa verso il dialogo e l'unione nel rispetto delle diversità. In attesa del ritorno del Signore la Chiesa torni ad essere una perché il mondo creda. (Paolo Curtaz)

Il Vangelo è un oceano infinito di verità. Ogni sua parola è un mare immenso. Di questa acqua di vita eterna noi quasi sempre attingiamo una goccia. Non riusciamo a prenderne di più. Tuttavia se perseveriamo nella lettura, meditazione, contemplazione, studio, analisi, esame, se mettiamo tutto il nostro cuore e la nostra intelligenza, una goccia della sua verità al giorno ci basta per giungere fino a sera. Poi l'indomani si ricomincia di nuovo, come al primo giorno, con una sete ancora più grande.
Il Vangelo contiene il pensiero perfetto di Dio, manifestato e realizzato attraverso Cristo Gesù. Interprete e realizzatore nella nostra vita di questo pensiero perfetto è lo Spirito Santo. A Lui dobbiamo chiedere ogni giorno che ci prenda per mano e ci faccia da Guida, Maestro, Consigliere, perché dal Vangelo traiamo quella verità che disseta e sfama il nostro desiderio di Dio. Senza una comunione perenne con lo Spirito Santo, senza la sua abitazione di grazia nel nostro cuore, il Vangelo diverrà anche per noi un libro di altri tempi, un racconto di una verità che è stata, ma che mai potrà dirsi nostra.
La chiamata degli Apostoli è la prima opera di Gesù. Oggi Gesù vede Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello. Vede Giacomo. Figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello. Li chiama. Promette loro di farli pescatori di uomini. Loro ascoltano la voce di Gesù, lasciano tutto e lo seguono. Ora chiediamoci: perché questa chiamata è la prima opera di Gesù? Perché essa è posta all'inizio della sua missione? Perché è essenziale questa chiamata proprio in questo istante?
La missione evangelizzatrice è una ed è quella di Gesù Signore. La missione di salvezza è una: è la realizzazione sulla terra della volontà salvifica del Padre. Gesù è nel seno del Padre dall'eternità. Sa cosa il Padre vuole. Sa come bisogna realizzarlo. Viene sulla terra, ma non perde il contatto con Lui. Ogni giorno Cristo Gesù è in colloquio con il Padre. Questi gli manifesta la sua volontà ed Lui la realizza tutta.
Se Gesù avesse chiamato i suoi discepoli all'ultimo istante della sua vita, cosa avrebbero potuto realizzare costoro? Niente. Nulla. Non avrebbero potuto, perché nulla hanno ascoltato, nulla hanno visto, nessuna opera di salvezza hanno sperimentato. Un allievo più frequenta il suo maestro e più impara da lui. Gesù è il Maestro. I discepoli fin dal primo istante vedono tutto e tutto ascoltano, possono ora compiere la missione sul suo modello ed esempio. Ciò che Cristo ha fatto, loro ora lo sanno fare.
Il fallimento di molta formazione nella Chiesa oggi è dovuto proprio alla non esemplarità, alla non sequela. È dovuta al fatto che non vi sono né maestri e né allievi. Vi sono professori e alunni che trattano materie astratte. Vi sono presbiteri e laici che vivono in una lontananza cosmica. Vi sono Vescovi e presbiteri con relazioni esteriori, ma non di vera fede, autentica carità, forte speranza, evangelica comunione. Chi sta in alto, qualsiasi posizione occupi, è obbligato ad essere vero Maestro per quanti sono sotto la sua responsabilità. Deve essere vero maestro di fede, carità, speranza, dottrina, insegnamento, opere, compimento di tutta la volontà di Dio.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, tu sei stata Maestra di vera carità, speranza e fede. Angeli e Santi di Dio, fate che ognuno sia maestro per l'altro come Gesù. (Movimento Apostolico).

lunedì 29 novembre 2010

Riflessione vangelo: I domenica Avvento (A)

Angelus Papa Benedetto XVI - 28 Novembre 2010


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
I Domenica di Avvento, 28 novembre 2010

 

Cari fratelli e sorelle!

Oggi, prima domenica di Avvento, la Chiesa inizia un nuovo Anno liturgico, un nuovo cammino di fede che, da una parte, fa memoria dell’evento di Gesù Cristo e, dall’altra, si apre al suo compimento finale. E proprio di questa duplice prospettiva vive il Tempo di Avvento, guardando sia alla prima venuta del Figlio di Dio, quando nacque dalla Vergine Maria, sia al suo ritorno glorioso, quando verrà “a giudicare i vivi e i morti”, come diciamo nel Credo. Su questo suggestivo tema dell’“attesa” vorrei ora brevemente soffermarmi, perché si tratta di un aspetto profondamente umano, in cui la fede diventa, per così dire, un tutt’uno con la nostra carne e il nostro cuore.

L’attesa, l’attendere è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale, familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni, da quelle più piccole e banali fino alle più importanti, che ci coinvolgono totalmente e nel profondo. Pensiamo, tra queste, all’attesa di un figlio da parte di due sposi; a quella di un parente o di un amico che viene a visitarci da lontano; pensiamo, per un giovane, all’attesa dell’esito di un esame decisivo, o di un colloquio di lavoro; nelle relazioni affettive, all’attesa dell’incontro con la persona amata, della risposta ad una lettera, o dell’accoglimento di un perdono… Si potrebbe dire che l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza. E dalle sue attese l’uomo si riconosce: la nostra “statura” morale e spirituale si può misurare da ciò che attendiamo, da ciò in cui speriamo.

Ognuno di noi, dunque, specialmente in questo Tempo che ci prepara al Natale, può domandarsi: io, che cosa attendo? A che cosa, in questo momento della mia vita, è proteso il mio cuore? E questa stessa domanda si può porre a livello di famiglia, di comunità, di nazione. Che cosa attendiamo, insieme? Che cosa unisce le nostre aspirazioni, che cosa le accomuna? Nel tempo precedente la nascita di Gesù, era fortissima in Israele l’attesa del Messia, cioè di un Consacrato, discendente del re Davide, che avrebbe finalmente liberato il popolo da ogni schiavitù morale e politica e instaurato il Regno di Dio. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che il Messia potesse nascere da un’umile ragazza quale era Maria, promessa sposa del giusto Giuseppe. Neppure lei lo avrebbe mai pensato, eppure nel suo cuore l’attesa del Salvatore era così grande, la sua fede e la sua speranza erano così ardenti, che Egli poté trovare in lei una madre degna. Del resto, Dio stesso l’aveva preparata, prima dei secoli. C’è una misteriosa corrispondenza tra l’attesa di Dio e quella di Maria, la creatura “piena di grazia”, totalmente trasparente al disegno d’amore dell’Altissimo. Impariamo da Lei, Donna dell’Avvento, a vivere i gesti quotidiani con uno spirito nuovo, con il sentimento di un’attesa profonda, che solo la venuta di Dio può colmare.

[Saluti in varie lingue]

Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i ragazzi dell’Unità Pastorale di Lesmo, presso Milano, che si preparano alla Professione di Fede. A tutti auguro una serena domenica e un buon cammino di Avvento. Grazie, buon Avvento a tutti!

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 28 novembre 2010

Video Vangelo: I domenica Avvento (A)

L'inizio della fine

I Domenica di Avvento

Iniziamo un nuovo anno. Domenica scorsa, con la solennità di Cristo Re dell'Universo, abbiamo concluso l'anno liturgico. Una tappa è finita e ne inizia una nuova. Un anno è passato -fra un mese terminerà anche l'anno civile portando con sé avvenimenti, cose, persone, passate anche loro. Definitivamente! Questo scorrere inesorabile dei nostri giorni che non torneranno mai più, è forse la cosa più misteriosa della vita, e, in genere non ci facciamo neanche caso.
Passiamo nel tempo e col tempo che lascia il segno incancellabile nella nostra vita, ma nessuno lo può fermare (si ha un bel cercare antidoti all'invecchiamento, ma finché non si riuscirà a fermare il tempo, non si fermerà neanche l'invecchiamento!).

- 1) In marcia verso dove?

Nessuno per quanto potente possa essere, potrà mai far tornare indietro il giorno di ieri che è passato! Questa nostra corsa nella vita e nel tempo ha un'unica e incontrovertibile direzione: va solo e sempre verso il futuro. Nel passato nessuno torna più (solo nei buchi neri, pare che il tempo vada all'indietro, ma bisogna ancora provare che esistono...).
Iniziamo dunque un nuovo anno liturgico e lo iniziamo con un discorso sulla fine. Di solito si comincia sempre con l'inizio, ma in questa prima domenica di Avvento, la liturgia ci fa iniziare dalla fine (fine dei tempi, ma anche fine della nostra vita).
L'apostolo Paolo raccomandava già ai cristiani di allora, di "aspettare la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, alfine di essere trovati irreprensibili nel giorno della sua venuta". Quel misteriosissimo ultimo giorno che i primi cristiani attendevano già come imminente e che noi, più di duemila anni dopo, rischiamo di non attendere più per niente!

• 2) Attenti alla smemoratezza!

Ma Gesù in questo Vangelo ci mette bene in guardia contro questa smemoratezza: "State attenti perché non sapete quando il padrone di casa tornerà". Perché ci ricorda la sua venuta finale fin dall'inizio? Anzitutto perché Avvento significa sia attesa che venuta, quindi dobbiamo sempre essere nell'attesa della Sua venuta, e poi per ricordarci che non dobbiamo aspettare che tutto sia finito per cominciare! Cominciare a convertirci, a cambiare vita, a non rimandare a un eterno domani -che forse non verrà mai- quello che dobbiamo fare oggi. "Vegliate perché non sapete quando il Signore vostro verrà". Gesù, qui, vuole attirare la nostra attenzione sull'unico avvenimento che, siamo certissimi, accadrà a tutti quanti e fisserà la nostra sorte eterna: quello di passare all'altra riva.
Gesù ci dice questo per ricordarci che dobbiamo impostare la nostra vita come un incontro con Qualcuno (e qualcuno che viene) e non come un'avventura solo nostra, da vivere senza far riferimento a Lui.
Quante volte Dio è venuto nella nostra vita, nell'anno appena trascorso? Quante volte abbiamo saputo riconoscerlo nei vari avvenimenti che hanno intessuto le nostre giornate, nei fatti che hanno scandito le nostre ore, negli incontri, le vicissitudini ecc. ecc.? Chiediamo occhi per vedere il passaggio di Dio nella nostra vita e riconoscerne gli annunci!
E non solo la vita va impostata come un incontro, ma anche e soprattutto la morte: allora tutti lo incontreremo; come Padre misericordioso chi lo avrà riconosciuto, e come giudice severo, chi non lo avrà accolto, perché la morte non è cadere nel nulla, ma essere davanti a Colui che ci ha tratti dal nulla, dal quale riceveremo il nostro destino eterno.

- 3) Mai più al nulla: "condannati" a vivere in eterno!

Dio ci ha tratti dal nulla una volta per tutte e al nulla non torneremo mai, mai più!
Felici o infelici siamo "condannati" ad esistere sempre. Anche per quelli che non ci credono quel "dopo" esisterà: non è il crederlo o meno che determina l'esistenza dell'eternità e delle realtà future, che esistono di per sé, indipendentemente dal fatto che uno ci creda o no. E non è distraendoci (il celebre "divertissement" pascaliano) e non pensandoci che le eviteremo, anzi! Eviteremo solo di prepararci ad esse con la stessa insensata illusione dello struzzo, che crede di evitare la realtà, tuffando la testa nella sabbia per non vederla. Gesù ci mette bene in guardia contro questa voluta indifferenza che potrebbe appesantire i nostri cuori e lasciarli andare alla deriva, o condurli addirittura sull'orlo dell'abisso. "Vigilate dunque perché (il padrone) non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati. Vegliate vi dico!". Non sappiamo quindi il giorno e l'ora, ma sappiamo che verrà e che ci sarà un "dopo". E quel "dopo" dipenderà da come avremo vissuto "prima".
Pensare al nostro destino eterno, lungi dal costituire un'evasione dalla realtà o dal diminuire il nostro impegno presente, gli dà un senso e una portata infinitamente più grande. Tutto ciò che facciamo, anche solo dare un bicchier d'acqua, non ha solo quella portata temporale di un minuto, o dieci, o venti a seconda del tempo che ci impieghiamo per farlo, ma ha una portata eterna perché ci seguirà oltre i confini del tempo e dello spazio, e costruirà il nostro destino futuro. In bene o in male. "Venite a me, benedetti dal Padre mio, avevo sete e mi avete dato un bicchier d'acqua…" ma anche "Via da me maledetti"
Il bene che facciamo e le virtù che pratichiamo diventano "la figura della nostra immortalità" secondo quella bellissima espressione di san Giuseppe Moscati (eccelsa figura di medico laico, canonizzato nel 1987, che io ho scelto come…medico). Questo concetto lui lo applicava alla virtù della castità (ma si può applicare anche ad altre virtù che "dev'essere il nostro ornamento, il segno della nostra elezione a Lui, la figura della nostra immortalità. "Quale densità di significato acquista il nostro operare e il nostro bene agire. Se visto in questa ottica! Altro che evasione dal reale!
Apriamo con fiducia il nostro cuore al Signore che viene e allora secondo la bellissima frase del beato Isacco della Stella- "il Figlio di Dio crescerà in noi e diventerà quel gran sorriso e quella gioia perfetta che nessuno ci potrà togliere".

Wilma Chasseur 


sabato 27 novembre 2010

Non abortire!!!

Non farlo (Storia di un aborto) - Quinta parte

Continuiamo a leggere la testimonianza anonima di un aborto che invita alla riflessione all'esortazione più importante: "non farlo!". Oggi vediamo come il dono della vita si possa trasformare in un incubo mentre dovrebbe essere la gioia più grande di questo mondo. Verso la fine del testo, troverete una frase agghiacciante di una dottoressa, una frase che dimostra il livello di insensibilità raggiunto dall'uomo "moderno":


Aldilà di alcuni bei momenti isolati, le giornate erano lunghe e spesso difficili accanto a lui… Ma entrambi desideravamo trovare una soluzione illuminante e definitiva ai nostri problemi, che non fosse quella di troncare la nostra storia. Eravamo, infatti, convinti (certamente in modi diversi) di voler stare insieme e di salvare il nostro rapporto…
Una sera lui mi fece un discorso particolare. Mi disse che mi voleva bene sul serio, aldilà delle nostre “incomprensioni”. Mi disse che saremmo comunque rimasti insieme, che non ci saremmo lasciati in nessun caso, e che sentiva l’esigenza di trovare un modo che ci garantisse di restare uniti, nonostante le liti, perché non voleva perdermi. Mi chiese di provare ad avere un figlio.

Ero felice, mi sembrava la soluzione ai nostri problemi. Mi sembrava la via di salvezza, il miracolo che ci avrebbe unito per sempre. Non capivo quanto fosse pericoloso tutto questo. Non capivo e non vedevo il
male che avrei potuto procurare a me stessa, a Marco e soprattutto a quella creatura che il nostro "io" aveva pensato di chiamare in causa, come se potesse, in qualche modo, risolvere dei problemi in realtà senza via d’uscita. Decidemmo quindi di smettere di prendere precauzioni.
Per un brevissimo periodo, quella nuova complicità ci avvicinò, regalandoci sensazioni profonde e molto dolci; delle vive speranze per un futuro certamente migliore…sereno, felice, che ci avrebbe fatto dimenticare il periodo burrascoso che stavamo attraversando.
Continuammo a vederci per altri due mesi circa, avanzando faticosamente tra alti e bassi. Sperando entrambi che da un momento all’altro sarebbe arrivato dal cielo un segno: una benedizione "divina" al nostro amore.
Ma in realtà nulla era cambiato. Eravamo stufi della situazione, stremati. L’uno dalla rabbia mista a malinconia e l’altra, dalle liti violente seguite dagli opprimenti silenzi senza fine.
Ricordo con disgusto serate, all’origine quasi piacevoli, che poi si trasformavano inspiegabilmente in un incubo. Momenti di allegria tramutati, chissà come, anche solo per una banalissima frase equivocata, in ore drammatiche in cui si litigava violentemente. Si degenerava poi con offese verbali da parte di entrambi, e purtroppo talvolta anche fisiche da parte di Marco, quando nei suoi occhi scorgevo una luce iraconda che non trovava via d’uscita se non attraverso scatti di aggressività fuori controllo.
Una volta mi è capitato di ricevere un ceffone da lui, di essere strattonata e gettata per terra. In quel momento l'ho odiato profondamente, ma in quegli istanti capivo anche che razza di mostro avessi al mio fianco, che persona insensibile e manesca fosse in realtà.
Disprezzavo lui e anche me stessa attraverso il suo vile comportamento. Mi ripetevo che se gli permettevo di trattarmi così, era perché sapevo di non meritare di meglio… La già delicata stima che avevo di me, mi abbandonava lentamente.
Qualche volta ricevevo delle scuse, e qualche volta mi sentivo ancora più umiliata quando mi sentivo biasimare per giunta. Mi intimava di non perdermi in inutili piagnistei, di non farla troppo lunga, perché <>, che io stavo ingigantendo senza motivazioni valide.
Ricordo perfettamente l’episodio squallido che non riuscirò mai a dimenticare, in cui, durante “un’accesa discussione”, mi diede uno spintone così forte da farmi cadere per terra. Ricordo il suo sguardo glaciale che mi fissava, e la sua voce che quasi mi scherniva, accusandomi di non essere in grado neppure di reggermi in piedi.
Adorto - Movimento nazionale per la famiglia e la vita
Ma che razza di amore era mai questo? Dov’era la felicità che avevo sognato da sempre, come qualunque adolescente che poi si ritrova inaspettatamente donna?
Mi fu fin troppo chiaro, a quel punto, quanto fosse stato pericoloso idealizzarlo. Marco non assomigliava affatto all’uomo dolce e premuroso che avevo sempre desiderato, e avevo sognato di trovare in lui, guardandolo negli occhi per la prima volta.

Arrivò purtroppo il giorno in cui una delle nostre numerose liti ci portò alla rottura. Parole troppo offensive erano state pronunciate, accuse troppo pesanti e ingiuste erano state lanciate, senza alcun rispetto da parte di
entrambi…
Ci lasciammo.
Ero arrabbiatissima con Marco, non potevo perdonarlo per tutto il dolore che mi aveva causato, e certamente anche lui provava la mia stessa sensazione di tradimento, di abbandono, di delusione per una storia alla quale in fondo tenevamo entrambi…
Sconvolta com’ero, nelle settimane a seguire non mi resi neppure conto di aver avuto un ritardo. E ogni volta che mi balenava un pensiero per la mente, lo rifiutavo, lo scacciavo, o semplicemente lo sottovalutavo; come se, attraverso il mio atteggiamento, avessi potuto ricacciare indietro la realtà che si presentava davanti ai miei occhi, o avessi potuto cancellare ogni sorta di dubbio e timore.
Trascorsero alcune settimane, durante le quali non feci altro che piangere e soffrire tremendamente a causa di Marco e della sua indifferenza. L’orgoglio ferito di entrambi ci teneva rigorosamente lontani, come non ci fossimo mai conosciuti. Lui non mi cercava e io non lo cercavo. Da parte mia ricordo solo un fortissimo desiderio di vendetta nei suoi confronti. Non volevo vederlo mai più, a costo di soffrire per chissà quanto tempo. Non mi importava di lui, perché lui non mi meritava, o meglio: io meritavo una persona migliore, che mi
rispettasse e che mi sapesse dare amore e tenerezza. Non una persona insensibile e cinica che mi procurasse rabbia e dolore infiniti. Un brutto giorno mi svegliai con un pensiero che mi ridestò improvvisamente.
Mi scosse così tanto da farmi balzare giù dal letto e farmi correre in farmacia.
Tutti quegli strani sintomi che avevo deliberatamente sottovalutato, d’improvviso formavano a chiare lettere la parola “angoscia”. La sensazione di rigurgito che provavo sempre più spesso, la stanchezza persistente che
avvertivo durante la giornata, e quello strano tipo di mal di testa, che non avevo mai provato prima, mi indussero a preoccuparmi seriamente. Alla preoccupazione seguì la disperazione più grande: l’obbligo di scegliere, di prendere una decisione così importante in così poco tempo, se le mie preoccupazioni fossero state fondate. E poi il senso di solitudine che mi annebbiava la mente…mi sentivo sola e abbandonata ad un destino
incredibilmente spietato. Mi vergognavo della situazione in cui mi ero ritrovata, avevo bisogno di parlare con qualcuno, ma non ne avevo il coraggio. Non potevo parlarne con mia madre, né tantomeno con le amiche, delle quali sapevo che non mi sarei potuta fidare. Ero completamente sola. L’idea di parlare con Marco, prima di essere certa di ciò che stava accadendo, non mi passava neppure per la mente. Se il nostro sogno era diventato il mio privato incubo, era soltanto per colpa sua.
Tormentata dall’angoscia di non sapere, terrorizzata all’idea di sapere che ero realmente incinta di questa persona spregevole, presi la macchina, decisi di andare in un paese vicino al mio, e cercare una farmacia. Quando vi entrai chiesi quale fosse il modo più sicuro per sapere se fosse in corso una gravidanza: mi dissero che la certezza assoluta avrei potuto averla solo attraverso le analisi del sangue. Ringraziai con la voce tremante e andai a cercare un laboratorio di analisi, dove mi fu detto di presentarmi la mattina successiva, a stomaco vuoto per poter fare il prelievo. Uscii trattenendo a fatica le lacrime. Dovevo attendere ancora, e logorarmi all’idea che avrei dovuto decidere tutto troppo in fretta, e soprattutto senza poter chiedere aiuto a
nessuno.

Il pomeriggio andai in Chiesa, mi inginocchiai davanti alla statua di Gesù Cristo, e pregai tanto, affinché tutto quello spavento si fosse miracolosamente rivelato un falso timore, una grande paura e niente di più.
Perché se non fosse stato così, come avrei potuto avere un figlio da un uomo così squallido? Così bugiardo, disonesto, violento… non poteva essere vero, la vita non poteva avermi giocato uno scherzo così crudele…
La sera mi misi a letto. Sfinita dal dolore e dalla stanchezza, provai a dormire, ad essere ottimista, ad evitare pensieri angoscianti, distruttivi, ma non ci riuscii. Dormii complessivamente per un’ora, forse anche meno. Di Marco non c’era alcuna traccia.
Il mattino seguente, con un nodo alla gola, mi alzai, mi vestii e mi diressi nuovamente al laboratorio di analisi. La dottoressa cercò di tranquillizzarmi, mi disse che “in un modo o nell’altro” tutto si sarebbe sistemato. Quella fu una delle frasi più spietate, che mi sia mai stata detta. Non la dimenticherò mai. Mi fece il prelievo e poi mi congedò, dicendomi che avrei potuto ritirare l’esito delle analisi già il pomeriggio del giorno dopo.
Quelle ore durarono un’eternità, ma quando arrivò il momento di sapere, mi sembrò che fossero volate.
Le ritirai, ma non ero lucida al punto di capire cosa significassero quelle cifre: chiesi un chiarimento.
La dottoressa mi disse che l’esito era positivo: ero incinta di sei settimane.

venerdì 26 novembre 2010

Gruppo di preghiera di Padre Pio

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Diciottesimo appuntamento

Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Oggi guardiamo l'origine dei Gruppi di preghiera che ancora oggi, si riuniscono nelle nostre Parrocchie:

VI
Figli spirituali e Gruppi di preghiera

Il rigoglioso albero della preghiera
Nel 1942 papa Pio XII, angosciato dalla tragedia della guerra in corso, rivolse ai cattolici una pressante richiesta: «Nell'ardua lotta fra il bene e il male, fra Dio e satana, abbiamo bisogno di forti e serrate falangi di uomini e di giovani che preghino». Queste parole si stamparono nel cuore di Padre Pio, che immediatamente riunì alcuni figli spirituali dicendo:

«Diamoci da fare, rimbocchiamoci le maniche, rispondiamo noi per primi». Nacquero così i primi virgulti di quelli che, a partire dal 1950, si chiameranno Gruppi di preghiera.

All'inizio i Gruppi si diffusero spontaneamente, per iniziativa di qualche devoto del Padre. Nell'agosto 1950 ne venne sollecitata la costituzione dovunque fosse possibile e si definì anche la loro identità: «Gruppi di fedeli che periodicamente si riuniscono con l'assistenza del sacerdote in una chiesa, per pregare in comunione, seguendo gli orientamenti impartiti dal Sommo Pontefice. Tali riunioni hanno la finalità di elevare la formazione spirituale dei partecipanti e di rinnovare la vita cristiana nei fratelli, mediante la preghiera collettiva e liturgica».

Il 5 maggio 1956, in coincidenza con l'inaugurazione della Casa Sollievo della Sofferenza, si tenne a San Giovanni Rotondo il primo convegno internazionale dei Gruppi di preghiera. Venne presentata la bozza del regolamento (il 4 maggio 1986 è entrato in vigore il definitivo statuto, approvato dalla Santa Sede), dove si indicavano i quattro obiettivi degli incontri in parrocchia: «Elevare preghiere impetratorie alla Divina Misericordia; partecipare al sacrificio della Messa, durante il quale Gesù trasmette i misteri del suo amore sull'umanità; adorare il santissimo Sacramento e recitare il santo Rosario; vivere sempre in grazia di Dio, cioè essere veri cristiani».

In generale, i vescovi apprezzavano la presenza dei Gruppi di preghiera nelle proprie diocesi e si adoperavano per favorirne la costituzione. Un'eccezione fu il vescovo di Padova, il cappuccino Girolamo Bortignon, che nel 1959 negò l'autorizzazione «per il motivo che in questo movimento, come è attuato in diocesi, si riscontrano degli atteggiamenti equivoci, delle manifestazioni esagerate e delle affermazioni strane». A pagarne le conseguenze furono in particolare i sacerdoti Nello Castello e Attilio Negrisolo, che vennero sospesi a divinis per la loro fedeltà a Padre Pio e che dovettero attendere una decina d'anni prima di essere reintegrati nel ministero dalla Santa Sede.

Il 31luglio 1968 la Congregazione dei Religiosi e degli Istituti secolari affidò il coordinamento generale dei Gruppi di preghiera al padre Guardiano del convento di San Giovanni Rotondo. Comunicando tale notizia a Padre Pio, il padre Provinciale precisò che «la decisione del Sacro Dicastero vale per me come un riconoscimento pontificio alla provvida iniziativa della paternità vostra in favore della preghiera comunitaria». Poche settimane più tardi, dal 19 al 22 settembre, il secondo convegno internazionale si trasformò nell'incontro d'addio con il fondatore, un toccante momento nel quale Padre Pio stesso poté verificare che il seme da lui piantato era divenuto un rigoglioso albero.
 

giovedì 25 novembre 2010

Santa Caterina da Siena

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 24 Novembre 2010


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 24 novembre 2010
 

Santa Caterina da Siena

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlarvi di una donna che ha avuto un ruolo eminente nella storia della Chiesa. Si tratta di santa Caterina da Siena. Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento. Caterina è una di queste e ancor oggi ella ci parla e ci sospinge a camminare con coraggio verso la santità per essere in modo sempre più pieno discepoli del Signore.

Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto numerosa, morì nella sua città natale, nel 1380. All’età di 16 anni, spinta da una visione di san Domenico, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo femminile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quando era ancora un’adolescente, si dedicò alla preghiera, alla penitenza, alle opere di carità, soprattutto a beneficio degli ammalati.

Quando la fama della sua santità si diffuse, fu protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso il Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo il Venerabile Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia.

Caterina soffrì tanto, come molti Santi. Qualcuno pensò addirittura che si dovesse diffidare di lei al punto che, nel 1374, sei anni prima della morte, il capitolo generale dei Domenicani la convocò a Firenze per interrogarla. Le misero accanto un frate dotto ed umile, Raimondo da Capua, futuro Maestro Generale dell’Ordine. Divenuto suo confessore e anche suo “figlio spirituale”, scrisse una prima biografia completa della Santa. Fu canonizzata nel 1461.

La dottrina di Caterina, che apprese a leggere con fatica e imparò a scrivere quando era già adulta, è contenuta ne Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, un capolavoro della letteratura spirituale, nel suo Epistolario e nella raccolta delle Preghiere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che il Servo di Dio Paolo VI, nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiungeva a quello di Compatrona della città di Roma, per volere del Beato Pio IX, e di Patrona d’Italia, secondo la decisione del Venerabile Pio XII.

In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole: “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 115, Siena 1998). Quell’anello rimase visibile solo a lei. In questo episodio straordinario cogliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei come lo sposo, con cui vi è un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è il bene amato sopra ogni altro bene.

Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne mistica: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Capua, che trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: “Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo” (ibid.). Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, “… non vivo io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Come la santa senese, ogni credente sente il bisogno di uniformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo per amare Dio e il prossimo come Cristo stesso ama. E noi tutti possiamo lasciarci trasformare il cuore ed imparare ad amare come Cristo, in una familiarità con Lui nutrita dalla preghiera, dalla meditazione sulla Parola di Dio e dai Sacramenti, soprattutto ricevendo frequentemente e con devozione la santa Comunione. Anche Caterina appartiene a quella schiera di santi eucaristici con cui ho voluto concludere la mia Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (cfr n. 94). Cari fratelli e sorelle, l’Eucaristia è uno straordinario dono di amore che Dio ci rinnova continuamente per nutrire il nostro cammino di fede, rinvigorire la nostra speranza, infiammare la nostra carità, per renderci sempre più simili a Lui.

Attorno ad una personalità così forte e autentica si andò costituendo una vera e propria famiglia spirituale. Si trattava di persone affascinate dall’autorevolezza morale di questa giovane donna di elevatissimo livello di vita, e talvolta impressionate anche dai fenomeni mistici cui assistevano, come le frequenti estasi. Molti si misero al suo servizio e soprattutto considerarono un privilegio essere guidati spiritualmente da Caterina. La chiamavano “mamma”, poiché come figli spirituali da lei attingevano il nutrimento dello spirito.

Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate. “Figlio vi dico e vi chiamo - scrive Caterina rivolgendosi ad uno dei suoi figli spirituali, il certosino Giovanni Sabatini -, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio” (Epistolario, Lettera n. 141: A don Giovanni de’ Sabbatini). Al frate domenicano Bartolomeo de Dominici era solita indirizzarsi con queste parole: “Dilettissimo e carissimo fratello e figliolo in Cristo dolce Gesù”.

Un altro tratto della spiritualità di Caterina è legato al dono delle lacrime. Esse esprimono una sensibilità squisita e profonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinnovando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenuto e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro e al dolore di Maria e di Marta, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera n. 16: Ad uno il cui nome si tace).

Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: “Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363).

Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un ponte lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima passa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amore, l’unione dolce e affettuosa con Dio.

Cari fratelli e sorelle, impariamo da santa Caterina ad amare con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Facciamo nostre perciò le parole di santa Caterina che leggiamo nel Dialogo della Divina Provvidenza, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-ponte: “Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! (...) O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia” (cap. 30, pp. 79-80). Grazie.

[Saluti in varie lingue]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i partecipanti al convegno promosso dal Movimento Apostolico e li esorto a proseguire nel cammino della santità personale, punto di partenza di ogni evangelizzazione. Saluto i fedeli di Troina ed auspico che, sull’esempio del patrono S. Silvestro ciascuno possa aderire sempre più generosamente a Cristo e al suo Vangelo. Saluto i rappresentanti della Città di Cervia, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Giuseppe Verucchi, e li ringrazio per il tradizionale omaggio di un prodotto tipico della loro terra.

Rivolgo, infine, il mio cordiale saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Oggi, ricordando Sant'Andrea Dung-Lac e compagni, martiri vietnamiti, invito voi, cari giovani, ad essere intrepidi nel testimoniare i valori cristiani, rimanendo sempre fedeli al Signore; esorto voi, cari ammalati, a saper accogliere con sereno abbandono quanto il Signore dona in ogni situazione della vita; auguro a voi, cari sposi novelli, di formare una famiglia veramente cristiana, attingendo la forza necessaria per realizzare tale progetto dalla Parola di Dio e dall'Eucaristia.

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mercoledì 24 novembre 2010

Gesù, la Parola di Dio

Fides et Ratio - Compiti attuali per la teologia

Torna l'appuntamento settimanale con la Lettera Enciclica del Venerabile Giovanni Paolo II "Fides et Ratio", per riflettere sui rapporti tra fede e ragione:

CAPITOLO VII

ESIGENZE E COMPITI ATTUALI

Compiti attuali per la teologia

92. In quanto intelligenza della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse, con una concettualizzazione coerente, il contenuto della fede. Anche oggi un duplice compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare l'impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha affidato: rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace all'evangelizzazione. Come non pensare, in questa prospettiva, alle parole pronunciate dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli disse allora: « E necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti amano sinceramente la religione cristiana, cattolica, apostolica, questa dottrina sia più largamente e più profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più pienamente istruiti e formati; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo ». (107)

Dall'altra parte, la teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. E bene per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde « al dinamismo insito nella fede stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è « la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo ». (108) Questo compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr Ef 4, 15) sia la teologia che la filosofia.

Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce. (109) Come l'esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in vista dei compiti attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare.

93. Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall'apporto della filosofia.

94. Un primo aspetto problematico riguarda il rapporto tra il significato e la verità. Come ogni altro testo, così anche le fonti che il teologo interpreta trasmettono innanzitutto un significato, che va rilevato ed esposto. Ora, questo significato si presenta come la verità su Dio, che da Dio stesso viene comunicata mediante il testo sacro. Nel linguaggio umano, quindi, prende corpo il linguaggio di Dio, che comunica la propria verità con la mirabile « condiscendenza » che rispecchia la logica dell'Incarnazione. (110) Nell'interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è necessario che il teologo si domandi quale sia la verità profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti del linguaggio.

Quanto ai testi biblici, e in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici avvenimenti storici o alla rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista. (111) Questi testi, al contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro significato nella e per la storia della salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella lettura perenne che la Chiesa compie di tali testi nel corso dei secoli, mantenendone immutato il significato originario. E urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi sul rapporto che intercorre tra il fatto e il suo significato; rapporto che costituisce il senso specifico della storia.

95. La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili. L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti.

Con il suo linguaggio storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa.

martedì 23 novembre 2010

Benedetto XVI - L'elezione di Papa Benedetto XVI (dal TG1)

Intervista a Papa Benedetto XVI

Oggi, scopriremo qualcosa di nuovo sul nostro caro Papa Benedetto XVI, attraverso un'intervista bellissima di cui posteremo uno stralcio. Quest'intervista è opera di Avvenire e tende a raffigurare l'interiorità del Papa sin dal momento della sua ascesa al Soglio Pontificio. Vediamo, per esempio, la sua umanità, il peso che ha dovuto sopportare e, in un certo senso, una certa fragilità e paura nel momento più scioccante della sua vita, condito però da una ferma fede e fiducia nel Signore che richiama alla mente, uomini come Re Davide. Ecco le parti più importanti dell'intervista mentre il testo integrale che svela l'uomo Ratzinger lo potrete trovare all'indirizzo posto a fondo articolo:

Santo Padre, il 16 aprile 2005, nel giorno del suo settantottesimo compleanno, Lei comunicava ai suoi collaboratori quanto pregustasse il suo pensionamento. Tre giorni dopo, si ritrovò ad essere il Capo della Chiesa universale che conta 1,2 miliardi di fedeli. Non è propriamente il compito che ci si riserva per la vecchiaia.

«Veramente, avevo sperato di trovare pace e tranquillità. Il fatto di trovarmi all’improvviso di fronte a questo compito immenso è stato per me, come tutti sanno, un vero shock. La responsabilità, infatti, è enorme».

C’è stato un momento del quale più tardi Lei ha detto di avere avuto l’impressione di sentire una “mannaia” calarle addosso.

«Sì, in effetti il pensiero della ghigliottina mi è venuto: ecco, ora cade e ti colpisce. Ero sicurissimo che questo incarico non sarebbe stato destinato a me ma che Dio, dopo tanti anni faticosi, mi avrebbe concesso un po’ di pace e di tranquillità. L’unica cosa che sono riuscito a dire, a chiarire a me stesso è stata: “Evidentemente, la volontà di Dio è diversa, e per me inizia qualcosa di completamente diverso, una cosa nuova. Ma Lui sarà con me”».
Nella cosiddetta “Camera delle lacrime”, fin dall’inizio del Conclave, per il futuro Papa sono pronte tre vesti: una lunga, una corta, e una è media. Cosa ha pensato in quella stanza della quale si dice che in essa più di un Pontefice neo eletto sia crollato? È lì che al più tardi ci si chiede ancora una volta: perché io? Cosa vuole Dio da me?
«In realtà, in quei momenti si è presi da questioni molto pratiche, esteriori: innanzitutto come aggiustarsi la veste e cose simili. Sapevo che di lì a poco, dalla Loggia centrale, avrei dovuto pronunciare qualche parola, ed ho iniziato a pensare: “Cosa potrei dire?” Per il resto, fin dal momento in cui la scelta è caduta su di me, sono stato capace soltanto di dire questo: “Signore, cosa mi stai facendo? Ora la responsabilità è tua. Tu mi devi condurre! Io non ne sono capace. Se tu mi hai voluto, ora devi anche aiutarmi!”. In questo senso mi sono trovato, per così dire, in un dialogo molto stringente con il Signore, per dirgli che se faceva l’una cosa, allora doveva fare anche l’altra».

Giovanni Paolo II l’aveva voluta come successore?

«Non lo so. Credo che avesse messo tutto nelle mani di Dio».

Comunque non ha mai permesso che Lei lasciasse il suo incarico. Fatto, questo, che si potrebbe interpretare come un argumentum e silentio, un tacito consenso per il candidato preferito…
«Mi ha sempre riconfermato nel mio incarico, è noto. Mentre si avvicinava il mio settantacinquesimo compleanno, il raggiungimento del limite di età in cui si rassegnano le dimissioni, mi disse: “Non è nemmeno necessario che Lei scriva la lettera, perché io La voglio con me sino alla fine”. Questa è stata la benevolenza grande e immeritata che egli aveva avuto nel miei confronti sin dall’inizio. Aveva letto il mio libro Introduzione al Cristianesimo. Per lui, evidentemente, una lettura importante. Appena diventato Papa, si era ripromesso di farmi venire a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Aveva riposto in me una fiducia grande, affettuosa, profonda. Era in qualche modo la garanzia del fatto che in materia di fede stessimo seguendo la strada giusta».

Lei ha fatto visita a Giovanni Paolo II ancora sul suo letto di morte. Quella sera, tornò di fretta da una conferenza a Subiaco, nella quale aveva parlato de “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”. Quali sono state le ultime parole che il Papa morente Le ha rivolto?

«Era molto sofferente, eppure molto lucido. Ma non ha detto più nulla. Gli ho chiesto la benedizione, che mi ha dato. Ecco, ci siamo lasciati stringendoci le mani con affetto, nella consapevolezza che sarebbe stato il nostro ultimo incontro».

Lei non voleva diventare vescovo, non voleva diventare prefetto, non voleva diventare Papa. Non si prova forse un po’ di sgomento al pensiero delle cose che sempre ci capitano contro la nostra volontà?
«Il fatto è questo: quando al momento dell’ordinazione sacerdotale si dice “sì”, si può anche avere un’idea di quello che potrebbe essere il proprio carisma, ma si sa anche questo: “Mi sono rimesso nelle mani del vescovo e, in fin dei conti, nelle mani del Signore. Non posso scegliere quello che voglio. Alla fine, devo lasciarmi guidare”. In realtà, pensavo che il mio carisma fosse di fare il professore di teologia, e fui felice quando questo mio sogno si realizzò. Ma avevo sempre ben chiaro davanti agli occhi questa cosa: “Sono nelle mani del Signore e devo mettere nel conto la possibilità di dovere fare cose che non avrò voluto”. In questo senso, sicuramente è stata una continua sorpresa l’essere “strappato via” da dove si era e non poter più seguire la propria strada. Ma, come ho detto, in quel ‘sì’ fondamentale era anche compreso questo: “Sono a disposizione del Signore e forse un giorno dovrò fare anche cose che non vorrei fare”».


Durante un simposio svoltosi nel 1977 in occasione dell’ottantesimo compleanno di Paolo VI, Lei tenne una relazione su cosa e come dovrebbe essere un Papa. Citando il cardinale inglese Reginald Pole, disse che un Papa dovrebbe «considerarsi e comportarsi come il più piccolo degli uomini»; che dovrebbe ammettere «di non conoscere altro se non quell’unica cosa che gli è stata insegnata da Dio Padre attraverso Cristo». Vicarius Christi, diceva, significa rendere presente il potere di Cristo come contrafforte al potere del mondo. E questo non sotto forma di qualsivoglia dominio, ma piuttosto portando questo peso sovrumano sulle proprie spalle umane. In questo senso, il luogo autentico del Vicarius Christi è la Croce.
«Sì, anche oggi ritengo che questo sia vero. Il primato si è sviluppato fin dall’inizio come primato del martirio. Nei primi tre secoli, Roma è stata fulcro e capitale delle persecuzioni dei cristiani. Tenere testa a queste persecuzioni e rendere testimonianza a Cristo fu il compito particolare della sede episcopale di Roma. Possiamo considerare provvidenziale il fatto che, nel momento stesso in cui il Cristianesimo si riappacificò con lo Stato, l’impero si trasferisse a Costantinopoli, sul Bosforo. Roma, per così dire, era divenuta provincia. Così fu più facile per il Vescovo di Roma evidenziare l’indipendenza della Chiesa, la sua distinzione dallo Stato. Non è necessario cercare sempre lo scontro, è chiaro, quanto piuttosto mirare al consenso, all’accordo. Ma sempre la Chiesa, il cristiano, e soprattutto il Papa deve essere cosciente del fatto che la testimonianza che deve rendere possa divenire scandalo, che non venga accettata e che quindi egli si trovi costretto nella condizione del testimone, di Cristo sofferente. Il fatto che i primi Papi siano stati tutti martiri, ha il suo significato. Essere Papa non significa porsi come un sovrano colmo di gloria, quanto piuttosto rendere testimonianza a Colui che è stato crocifisso, ed essere disposto ad esercitare il proprio ministero anche in questa forma, in unione a Lui».

La sua fede è cambiata da quando, come Supremo Pastore, Le è affidato il gregge di Cristo? A volte si ha l’impressione che la Sua fede in qualche modo sia diventata più misteriosa, più mistica.
«Non sono un mistico. Ma è sicuramente vero che, da Papa, ci sono molte ragioni in più per pregare e per affidarsi completamente a Dio. Infatti mi rendo conto che quasi tutto quello che devo fare non potrei farlo da solo. E già solo per questo sono costretto a mettermi nelle mani del Signore e a dirgli: “Fallo tu, se lo vuoi!” In questo senso la preghiera ed il contatto con Dio ora sono ancora più necessari, ma anche più naturali e spontanei di prima». [...]

E Papa Benedetto, come prega?

«Per quel che riguarda il Papa, anche lui è un povero mendicante davanti a Dio, ancora più degli altri uomini. Naturalmente prego innanzitutto sempre il Signore, al quale sono legato, per così dire, da antica amicizia. Ma invoco anche i santi. Sono molto amico di Agostino, di Bonaventura e di Tommaso d’Aquino. A loro quindi dico: “Aiutatemi”! La Madre di Dio, poi, è sempre e comunque un grande punto di riferimento. In questo senso, mi inserisco nella Comunione dei Santi. Insieme a loro, rafforzato da loro, parlo poi anche

Peter Seewald

lunedì 22 novembre 2010

Riflessione Vangelo: Festa Cristo Re

Angelus di Papa Benedetto XVI - 21 Novembre 2010


BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo
Domenica, 21 novembre 2010

 

Cari fratelli e sorelle!

Si è appena conclusa, nella Basilica Vaticana, la Liturgia di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, concelebrata anche dai 24 nuovi Cardinali, creati nel Concistoro di ieri. La solennità di Cristo Re venne istituita dal Papa Pio XI nel 1925 e, in seguito, dopo il Concilio Vaticano II, venne collocata a conclusione dell’anno liturgico. Il Vangelo di san Luca presenta, come in un grande quadro, la regalità di Gesù nel momento della crocifissione. I capi del popolo e i soldati deridono “il primogenito di tutta la creazione” (Col 1,15) e lo mettono alla prova per vedere se Egli ha il potere di salvare se stesso dalla morte (cfr Lc 23,35-37). Eppure, proprio “sulla croce Gesù è all’«altezza» di Dio, che è Amore. Lì si può «conoscerlo». […] Gesù ci dà la «vita» perché ci dà Dio. Ce lo può dare perché è Egli stesso una cosa sola con Dio” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano 2007, 399.404). Infatti, mentre il Signore sembra confondersi tra due malfattori, uno di essi, consapevole dei propri peccati, si apre alla verità, giunge alla fede e prega “il re dei Giudei”: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Da Colui che “è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono” (Col 1,17) il cosiddetto “buon ladrone” riceve immediatamente il perdono e la gioia di entrare nel Regno dei Cieli. “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Con queste parole, Gesù, dal trono della croce, accoglie ogni uomo con infinita misericordia. Sant’Ambrogio commenta che questo “è un bell’esempio della conversione a cui bisogna aspirare: ben presto al ladrone viene concesso il perdono, e la grazia è più abbondante della richiesta; il Signore, infatti – dice Ambrogio – accorda sempre di più di quello che si chiede […] La vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo là c’è il Regno” (Expositio Ev. sec. Lucam X, 121: CCL 14, 379).

Cari amici, la via dell’amore, che il Signore ci rivela e che ci invita a percorrere, la possiamo contemplare anche nell’arte cristiana. Infatti, anticamente, “nella conformazione degli edifici sacri […] diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re - l’immagine della speranza - [e …] sul lato occidentale […] il Giudizio finale come immagine della responsabilità per la nostra vita” (Enc. Spe salvi, 41): speranza nell’amore infinito di Dio e impegno di ordinare la nostra vita secondo l’amore di Dio. Quando contempliamo le raffigurazioni di Gesù ispirate al Nuovo Testamento – come insegna un antico Concilio – siamo condotti a “comprendere […] la sublimità dell’umiliazione del Verbo di Dio e […] a ricordare la sua vita nella carne, la sua passione e morte salvifica, e la redenzione che di lì è derivata al mondo” (Concilio in Trullo [anno 691 o 692], can. 82). “Sì, ne abbiamo bisogno, proprio per […] diventare capaci di riconoscere nel cuore trafitto del Crocifisso il mistero di Dio” (J. Ratzinger, Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana, LEV 2010, 69).

Alla Vergine Maria, nell’odierna ricorrenza della sua Presentazione al Tempio, affidiamo i neo-Porporati del Collegio Cardinalizio e il nostro pellegrinaggio terreno verso l’eternità.

Dopo l'Angelus

Oggi, in Italia, su invito dei Vescovi, le comunità ecclesiali pregano per i cristiani che soffrono persecuzioni e discriminazioni, specialmente in Iraq. Mi unisco a questa corale invocazione al Dio della vita e della pace, affinché in ogni parte del mondo sia assicurata a tutti la libertà religiosa. Sono vicino a questi fratelli e sorelle per l’alta testimonianza di fede che rendono a Dio.

Nell’odierna memoria della Presentazione al Tempio della Beata Vergine Maria, la Chiesa si stringe con particolare affetto alle monache e ai monaci di clausura: è la “Giornata pro Orantibus”, che rinnova anche l’invito a sostenere concretamente queste comunità. Ad esse imparto di cuore la mia benedizione.

Oggi ricorre anche la “Giornata delle vittime della strada”. Mentre assicuro il mio ricordo nella preghiera, incoraggio a proseguire nell’impegno della prevenzione, che sta dando buoni risultati, ricordando sempre che la prudenza e il rispetto delle norme sono la prima forma di tutela di sé e degli altri.

[Saluti in varie lingue]

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, specialmente a quelli venuti per rendere omaggio ai nuovi Cardinali. Sono lieto di salutare la qualificata rappresentanza dell’Arma dei Carabinieri, guidata dal Comandante Generale e dall’Ordinario Militare, in occasione della festa di Maria Santissima, venerata quale Patrona col titolo di Virgo Fidelis. Saluto i volontari del “Banco Alimentare”, presenti per chiedere la benedizione prima della colletta nazionale che avrà luogo sabato prossimo; come pure il gruppo parrocchiale da Cagliari.

A tutti auguro una buona domenica.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 21 novembre 2010

Video Vangelo: Cristo Re

Ma come hai fatto a capire?

Cristo Re

Siamo giunti ancora una volta alla fine dell’anno –anno liturgico– e lo concludiamo con la solenne e bellissima festa di Cristo Re, Signore dell’Universo e della storia.

• 1) Un re: ma dove sono il trono e la corona e il regno?

Quel titolo di Re, gli era stato attribuito da Pilato, procuratore romano pagano, che gli disse: ”Dunque Tu sei re?” E Gesù rispose: “Tu lo dici, Io lo sono”. Un re dunque. E un re che è in procinto di salire sul trono e di essere incoronato! Ma il suo trono è una Croce; la sua corona, una corona di spine e il suo regno non è di questo mondo. Non si era mai visto un re che avesse rovesciato in modo così radicale, ogni concetto di sovranità! Ma è così, sconvolgendo ogni schema di regalità e potenza umana, che ha vinto la più grande battaglia, e ha sconfitto il più grande e temibile nemico del genere umano: la morte eterna. E solo dopo -contrariamente ad ogni logica umana- avverrà la solenne ed eterna intronizzazione, quando, all’Ascensione, Gesù salirà per sempre alla destra del Padre. La logica umana infatti, prima fa i re e poi fa le battaglie, mentre qui, Gesù, ha dovuto prima sconfiggere, con la morte di Croce, il tremendo e mortale nemico, e poi essere intronizzato.
Ma ora è veramente il Sovrano assoluto, lo splendore della gloria del Padre, “esaltato al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù, ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra, ed ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre”.
E poi sarà la fine “quando -dopo aver ridotto al nulla ogni principato, potestà e potenza- egli consegnerà il regno a Dio Padre”.

• 2) Regno dell’altro mondo…

Allora, in quel misteriosissimo ultimo giorno che Lui solo conosce, non solo l’uomo, ma tutta la creazione sarà di Cristo. Egli farà l’ingresso nella nuova Gerusalemme, regnerà sui nuovi cieli e la nuova terra, e “consegnerà il regno a Dio Padre, affinché Egli sia tutto in tutti”.
Sarà l’inaugurazione del Regno di Dio in tutto il suo splendore, con tutti i beati, miriadi di angeli e arcangeli, gli eletti con a capo Maria Santissima e avremo i cieli nuovi e la terra nuova definitivamente liberati dal nemico mortale che sarà precipitato in fondo agli abissi e sarà un Regno dove non ci sarà più traccia di male, pena o colpa.
Da quando Gesù è salito alla destra del Padre, siamo già entrati in un regime nuovo: quello dei cieli aperti e della destinazione alla gloria. Prima della morte di Croce, tutta l’umanità era nel regime dei cieli chiusi. Anche i giusti dell’Antico Testamento, dovettero aspettare il sabato santo, per poter salire in cielo. Solo dopo la morte di Gesù in Croce -unico trono che ha avuto sulla terra- le porte del paradiso si riaprirono e l’uomo riacquistò il suo destino di gloria, perso col peccato. Il primo a sperimentare questa realtà dei cieli aperti, fu il buon ladrone. Alla sua domanda: “Signore ricordati di me, quando sarai nel tuo regno” si sentì rispondere. “Oggi sarai con me in Paradiso”.

• 3) “Ma come hai fatto a capire?”

In questa frase c’è una parola che compare per la prima volta nel vangelo, sapete qual è? PARADISO. Solo qui si parla di paradiso perché ormai le porte sono riaperte, prima erano chiuse: E Gesù può dire al buon ladro “oggi sarai...” ieri non avrei potuto dirtelo, essendo le porte ancora chiuse”. Ma non gli dice solo “oggi sarai...” ma “Sarai CON ME”. Il paradiso è Lui. Il Regno dei cieli o paradiso si identifica con Dio stesso. Ma come ha fatto Disma (così si chiama il buon ladrone) a capire che un crocifisso, suo compagno di supplizio, era Dio in persona? Sant’Agostino lo interroga suppergiù così: ”Ma da dove ti venne quella scienza e sapienza? Forse che tra due “brigandate” trovavi il tempo di leggere il vangelo?” E Disma gli risponde: ”Ho incontrato il SUO sguardo e ho capito tutto?” San Disma prega per noi!
Ecco il segreto: incontrare il Suo sguardo! Ma come fare? Dobbiamo tenere il nostro sguardo fisso su di Lui non su altre cose. Allora diventeremo sempre più somiglianti all’immagine divina scolpita in noi .
Il Regno di Dio dunque, non è solo un regno che viene, ma è anche un regno che c’è già, perché è indivisibile dalla persona di Gesù: è la comunione con Lui e “Nessuno dirà eccolo qui, eccolo là, perché è già tra di voi” (Lc 17).
Se Gesù sarà veramente il Re del nostro cuore, sperimenteremo fin da quaggiù, questo regno di verità e di grazia, di luce ,di amore e di pace.

Wilma Chasseur

***

LA VIGNA RICORDA CHE OGGI:  Domenica 21 novembre, in tutte le diocesi e le parrocchie italiane si pregherà per i cristiani perseguitati in ogni parte del mondo e per i loro persecutori. "Tutte le comunità ecclesiali - si legge in un comunicato della Cei - sono invitate a pregare nella Solennità di Cristo Re, per i cristiani che soffrono la tremenda prova della testimonianza cruenta della fede".

"Un posto speciale hanno nel nostro cuore i cristiani dell'Iraq - ha ribadito il cardinale Angelo Bagnasco,
arcivescovo di Genova e presidente della Cei - bersaglio continuo di attentati sanguinosi, forieri di lutti e di
dolore". A questo proposito, la Cei ricorda l'attentato alla Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, con decine di morti e feriti, fra i quali due sacerdoti e un gruppo di fedeli riuniti per la Messa. Cita anche la vicenda di Asia Bibi, cristiana, condannata a morte in Pakistan per blasfemia.

"Seguiamo con grande preoccupazione la difficoltosa situazione dei cristiani in Pakistan - aggiunge il cardinale Bagnasco -. I vescovi italiani, vicini nella preghiera a lei e alla sua famiglia, si uniscono all'appello del Santo Padre affinchè sia restituita alla piena libertà".

sabato 20 novembre 2010

Il miracolo della vita ... Si alla vita, no all'aborto!

Non farlo (Storia di un aborto) - Quarta parte

Continuiamo a leggere la testimonianza anonima di un aborto che invita alla riflessione all'esortazione più importante: "non farlo!". Oggi vediamo i pensieri autodistruttivi della protagonista che si rende conto di essersi annientata dinanzi alla prepotenza del suo uomo:

Oramai avevo ceduto. Mi sentivo completamente sua, nel corpo e nell’anima. Non avevo più una mia personalità, un’indipendenza, una dignità. Nella mia testa percepivo spesso l’eco di quelle parole: “Scappa, finché sei in tempo…”. Parole che, piano piano, stavano acquistando un significato sinistro…
Trascorrevamo moltissimo tempo insieme. Io non riuscivo più a fare a meno della sua presenza. Mi sentivo persa senza la sua “guida”, come avessi perduto la capacità di gestire anche la mia quotidianità. Ma stare assieme a lui significava litigare continuamente, per ragioni tanto ridicole, che il giorno dopo facevo fatica a ricordare quali fossero. Ogni volta che ero assieme a lui mi sentivo nervosa, come se fossi sotto esame: mi controllava il cellulare, pretendeva che gli raccontassi cosa avessi fatto in sua assenza, e puntualmente
finiva per fare insinuazioni assurde, convincendosi ad esempio della ricezione da parte mia di chiamate misteriose, in seguito cancellate, o roba di questo genere. Era paranoico.
Spesso io restavo in casa, quando non ci vedevamo, per paura di uscire anche a fare la spesa e dover sentire i suoi rimproveri inverosimili. O peggio ancora, nel dubbio che potessi incontrare qualcuno con cui dovermi fermare a scambiare cortesemente due parole. La mia vita somigliava sempre più ad un incubo.
D’altra parte quando non eravamo insieme anch’io avevo cominciato a fare strani pensieri. Mi ripetevo che se era così diffidente nei miei confronti, evidentemente sapeva di non essere molto corretto lui stesso; ma ero già fin troppo stressata per mettermi a pensare anch’io queste cose e rischiare di diventare ossessionante e odiosa come lui. Provavo un sentimento ambivalente nei suoi confronti: una parte di me lo detestava, un’altra lo idolatrava quasi!
A volte mi fermavo a riflettere sul suo modo di pensare e di agire nei miei confronti. Mi colpevolizzavo perché giungevo alla conclusione che fossi io a spingerlo a trattarmi con tale diffidenza e prepotenza… Cercavo di rivedere il mio comportamento, ma lui non cambiava, rimanendo sempre la persona fredda e possessiva che avevo conosciuto…
Allora cominciavo a chiedermi perché, io, a mia volta, fossi così idiota da accettare simili, quotidiane umiliazioni da una persona che non aveva alcun rispetto di me. La mia autostima aveva subito, inavvertitamente, un colpo
estremamente duro. In realtà tuttora non capisco come abbia potuto accettare tanta prepotenza. L’unica spiegazione plausibile era che i miei sentimenti, evidentemente profondi, avevano annullato la mia capacità di discernere il bene dal male, l’amore dalla gelosia morbosa, il rispetto dall’ossessività…
Ripensando al circolo vizioso nel quale ero precipitata, mi rendo conto di quanto tutto fosse squallido: tutto ora è così chiaro… Così come tutto allora mi appariva paradossalmente ovvio, persino giusto… Ma il tempo e il dolore mi hanno restituito una spietata lucidità: mi hanno bruscamente rivelato il carattere illusorio di una sensazione, il devastante senso di miseria e abiezione che circondava le mie giornate di allora, e improvvisamente mi sembra fin troppo chiaro. “Come ho fatto a non capire… come ho fatto?”, continuo a domandare a me stessa. Non c’è risposta razionale che si possa trovare a una domanda così banale e al contempo così profonda. Soprattutto se chiudo gli occhi e ripenso al dolore che mi procurava la sua
freddezza, persino nei momenti d’intimità…Un’intimità pretesa, esplicitamente richiesta, spesso senza alcun tatto. Dolore, rabbia, frustrazione, senso d’impotenza è quello che mi resta nel cuore dopo un’esperienza così brutale. Non avrei dovuto permettere né a lui né a nessun altro di trattarmi in questo modo, di strapparmi ogni spontaneità, ogni tenerezza dall’anima, ogni desiderio di amore puro e platonico, come avevo sempre sognato. Sentivo di aver perduto, ormai per sempre, la gioia di vivere e la possibilità di provare un amore pulito, un sentimento delicato. Il mio mondo interiore, così ricco di colori fino ad allora, di colpo era diventato buio e tetro. Avevo perso la chiave che conduceva al mio cuore, alla mia essenza, alla freschezza dei miei gesti più consueti. Non avevo più nulla dentro, ero profondamente inaridita dalla sua impressionante brutalità.
Ma lo giustificavo, pur senza trovare motivazioni reali. Continuavo a ripetermi che non siamo tutti uguali, che non aveva importanza il fatto che non fosse tenero con me, perché ognuno dimostra i propri sentimenti a suo modo, e quindi, tutto sommato, non c’era niente di male.
Mi rimproveravo persino di essere sempre la solita romantica fuori dal mondo, che doveva crescere e diventare realista. Tutti questi pensieri autodistruttivi venivano elaborati dalla mia mente per assecondare i suoi istinti più bassi, senza minimamente pensare alle conseguenze che mi avrebbe procurato il suo atteggiamento, e soprattutto la mia preoccupante reazione.

venerdì 19 novembre 2010

Padre Pio nel suo quotidiano

Padre Pio - Sulla soglia del Paradiso - Diciassetesimo appuntamento

Torna l'appuntamento con la biografia che tratteggia un'inedita "storia di Padre Pio raccontata dai suoi amici: "Sulla Soglia del Paradiso" di Gaeta Saverio. Oggi guardiamo i piccoli problemi che sorgevano all'interno della "famiglia" di Padre Pio, derivanti soprattutto dalla gelosia e la risposta pacata e indifferente di Padre Pio:

 VI
Figli spirituali e Gruppi di preghiera


Tutto per salvare le anime

La famiglia spirituale di Padre Pio aveva cominciato a formarsi subito dopo il suo arrivo a San Giovanni Rotondo. Una delle prime figlie fu Nina Campanile, che ha ricordato così quel periodo: «Il Padre cominciò a tenerci conferenze il giovedì e la domenica. Ci spiegò dapprima i principali mezzi di perfezione cristiana, e cioè: la scelta di un santo e dotto direttore, la frequenza dei santi sacramenti, la meditazione, la lettura spirituale. Spiegava l'argomento e l'avvalorava sempre con esempi tratti dalla Sacra Scrittura, dalla vita dei santi. Conferenze speciali le tenne sulla mortificazione.

E infine ci spiegò molte parabole evangeliche».

Dopo qualche tempo, Padre Pio sentenziò: «Il materiale è pronto, ora incominciate a costruire», e sciolse le adunanze, cominciando la guida personale. Alle lamentele e alle critiche, Padre Pio rispose: «So io come devo guidare le anime; c'è chi deve venire ogni otto giorni, chi ogni quattro o tre e chi ogni giorno». Che tale decisione avesse addolorato molte devote lo conferma la signora Francesca Fini: «Seguendo Padre Pio si soffriva fortemente: le sue prove, le sue sgridate, il trattamento diverso delle anime...».

Proprio il rancore di una delle prime figlie spirituali, Elvira Serritelli, fu all'origine delle accuse contro Padre Pio a riguardo della sua castità, che in seguito ebbero ripercussioni notevoli sulla Visita apostolica del 1960. Secondo il biografo padre Alessandro da Ripabottoni, «la "stella" di Elvira cominciò ad eclissarsi intorno al 1930 ed ella passò in secondo piano rispetto a Cleonice Morcaldi. Esplosero allora l'ira e la gelosia e la sua reazione si espletò in una duplice direzione».

L'analisi di padre Alessandro va nel dettaglio:

«In primo luogo ella doveva dimostrare che, almeno nel periodo 1922-30, Padre Pio era stato "tutto suo". Affermò perciò che in quegli anni ella aveva avuto rapporti intimi con lui. In secondo luogo, Elvira doveva distruggere l'avversaria. Con una lunga serie di lettere anonime cercò di ingenerare nell'animo del Superiore del convento il sospetto che Padre Pio se la intendesse con una donna. Per im­pedire i presunti incontri notturni, da una parte legava il cancelletto antistante la casa di Cleonice, affinché questa non potesse uscire, e dall'altra metteva del brecciolino nella serratura della porta della chiesa, perché Padre Pio non potesse aprire».

Per calmare il risentimento di Elvira, il Superiore del convento di San Giovanni Rotondo, padre Carmelo Durante, le affidò il compito di provvedere ai fiori della chiesetta. In quel tempo, padre Alberto D'Apolito la vide spesso «guardare morbosamente Padre Pio che pregava nel coro della chiesetta mentre lei era in chiesa per preparare i fiori dell'altare. Vedendosi non corrisposta nello sguardo, dava in escandescenze». Anche per questi motivi, nell'ottobre 1959 il nuovo Superiore, padre Emilio da Matrice, la sollevò dall’incarico.

Pochi mesi dopo, dapprima con monsignor Terenzi, incaricato dal Sant'Offizio di un sopralluogo a San Giovanni Rotondo, e successivamente con il visitatore apostolico monsignor Maccari, la donna rilanciò le sue accuse. Padre Pio ne era a conoscenza e la sua reazione fu come sempre intonata in chiave soprannaturale, come ha testimoniato la signorina Maria Grazia Massa che gliene parlò in confessione: «Figlia mia, so tutto! Ma che cosa importa a me se hanno buttato fango sulla mia povera persona in vita e, conseguentemente, dopo la mia morte? A me basta salvare le anime e certe anime».

giovedì 18 novembre 2010

Benedetto XVI: siamo in una primavera eucaristica

Udienza Generale Papa Benedetto XVI - 17 Novembre 2010


BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 17 novembre 2010


Santa Giuliana di Cornillon

Cari fratelli e care sorelle,

anche questa mattina vorrei presentarvi una figura femminile, poco nota, a cui la Chiesa però deve una grande riconoscenza, non solo per la sua santità di vita, ma anche perché, con il suo grande fervore, ha contribuito all’istituzione di una delle solennità liturgiche più importanti dell’anno, quella del Corpus Domini. Si tratta di santa Giuliana di Cornillon, nota anche come santa Giuliana di Liegi. Possediamo alcuni dati sulla sua vita soprattutto attraverso una biografia, scritta probabilmente da un ecclesiastico suo contemporaneo, in cui vengono raccolte varie testimonianze di persone che conobbero direttamente la Santa.

Giuliana nacque tra il 1191 e il 1192 nei pressi di Liegi, in Belgio. E’ importante sottolineare questo luogo, perché a quel tempo la Diocesi di Liegi era, per così dire, un vero “cenacolo eucaristico”. Prima di Giuliana, insigni teologi vi avevano illustrato il valore supremo del Sacramento dell’Eucaristia e, sempre a Liegi, c’erano gruppi femminili generosamente dediti al culto eucaristico e alla comunione fervente. Guidate da sacerdoti esemplari, esse vivevano insieme, dedicandosi alla preghiera e alle opere caritative.

Rimasta orfana a 5 anni, Giuliana con la sorella Agnese fu affidata alle cure delle monache agostiniane del convento-lebbrosario di Mont-Cornillon. Fu educata soprattutto da una suora, di nome Sapienza, che ne seguì la maturazione spirituale, fino a quando Giuliana stessa ricevette l’abito religioso e divenne anche lei monaca agostiniana. Acquisì una notevole cultura, al punto che leggeva le opere dei Padri della Chiesa in lingua latina, in particolare sant’Agostino, e san Bernardo. Oltre ad una vivace intelligenza, Giuliana mostrava, fin dall’inizio, una propensione particolare per la contemplazione; aveva un senso profondo della presenza di Cristo, che sperimentava vivendo in modo particolarmente intenso il Sacramento dell’Eucaristia e soffermandosi spesso a meditare sulle parole di Gesù: “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

A sedici anni ebbe una prima visione, che poi si ripeté più volte nelle sue adorazioni eucaristiche. La visione presentava la luna nel suo pieno splendore, con una striscia scura che la attraversava diametralmente. Il Signore le fece comprendere il significato di ciò che le era apparso. La luna simboleggiava la vita della Chiesa sulla terra, la linea opaca rappresentava invece l’assenza di una festa liturgica, per l’istituzione della quale era chiesto a Giuliana di adoperarsi in modo efficace: una festa, cioè, nella quale i credenti avrebbero potuto adorare l’Eucaristia per aumentare la fede, avanzare nella pratica delle virtù e riparare le offese al Santissimo Sacramento.

Per circa vent’anni Giuliana, che nel frattempo era diventata la priora del convento, conservò nel segreto questa rivelazione, che aveva riempito di gioia il suo cuore. Poi si confidò con altre due ferventi adoratrici dell’Eucaristia, la beata Eva, che conduceva una vita eremitica, e Isabella, che l’aveva raggiunta nel monastero di Mont-Cornillon. Le tre donne stabilirono una specie di “alleanza spirituale”, con il proposito di glorificare il Santissimo Sacramento. Vollero coinvolgere anche un sacerdote molto stimato, Giovanni di Losanna, canonico nella chiesa di San Martino a Liegi, pregandolo di interpellare teologi ed ecclesiastici su quanto stava loro a cuore. Le risposte furono positive e incoraggianti.

Quello che avvenne a Giuliana di Cornillon si ripete frequentemente nella vita dei Santi: per avere la conferma che un’ispirazione viene da Dio, occorre sempre immergersi nella preghiera, saper attendere con pazienza, cercare l’amicizia e il confronto con altre anime buone, e sottomettere tutto al giudizio dei Pastori della Chiesa. Fu proprio il Vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte, che, dopo iniziali esitazioni, accolse la proposta di Giuliana e delle sue compagne, e istituì, per la prima volta, la solennità del Corpus Domini nella sua Diocesi. Più tardi, altri Vescovi lo imitarono, stabilendo la medesima festa nei territori affidati alle loro cure pastorali.

Ai Santi, tuttavia, il Signore chiede spesso di superare delle prove, perché la loro fede venga incrementata. Accadde anche a Giuliana, che dovette subire la dura opposizione di alcuni membri del clero e dello stesso superiore da cui dipendeva il suo monastero. Allora, di sua volontà, Giuliana lasciò il convento di Mont-Cornillon con alcune compagne, e per dieci anni, dal 1248 al 1258, fu ospite di vari monasteri di suore cistercensi. Edificava tutti con la sua umiltà, non aveva mai parole di critica o di rimprovero per i suoi avversari, ma continuava a diffondere con zelo il culto eucaristico. Si spense nel 1258 a Fosses-La-Ville, in Belgio. Nella cella dove giaceva fu esposto il Santissimo Sacramento e, secondo le parole del biografo, Giuliana morì contemplando con un ultimo slancio d’amore Gesù Eucaristia, che aveva sempre amato, onorato e adorato.

Alla buona causa della festa del Corpus Domini fu conquistato anche Giacomo Pantaléon di Troyes, che aveva conosciuto la Santa durante il suo ministero di arcidiacono a Liegi. Fu proprio lui che, divenuto Papa con il nome di Urbano IV, nel 1264, istituì la solennità del Corpus Domini come festa di precetto per la Chiesa universale, il giovedì successivo alla Pentecoste. Nella Bolla di istituzione, intitolata Transiturus de hoc mundo (11 agosto 1264) Papa Urbano rievoca con discrezione anche le esperienze mistiche di Giuliana, avvalorandone l’autenticità, e scrive: “Sebbene l’Eucaristia ogni giorno venga solennemente celebrata, riteniamo giusto che, almeno una volta l’anno, se ne faccia più onorata e solenne memoria. Le altre cose infatti di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione del Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza. Mentre stava infatti per ascendere al cielo disse: «Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20)”.

Il Pontefice stesso volle dare l’esempio, celebrando la solennità del Corpus Domini a Orvieto, città in cui allora dimorava. Proprio per suo ordine nel Duomo della Città si conservava – e si conserva tuttora – il celebre corporale con le tracce del miracolo eucaristico avvenuto l’anno prima, nel 1263, a Bolsena. Un sacerdote, mentre consacrava il pane e il vino, era stato preso da forti dubbi sulla presenza reale del Corpo e del Sangue di Cristo nel Sacramento dell’Eucaristia. Miracolosamente alcune gocce di sangue cominciarono a sgorgare dall’Ostia consacrata, confermando in quel modo ciò che la nostra fede professa. Urbano IV chiese a uno dei più grandi teologi della storia, san Tommaso d’Aquino – che in quel tempo accompagnava il Papa e si trovava a Orvieto –, di comporre i testi dell’ufficio liturgico di questa grande festa. Essi, ancor oggi in uso nella Chiesa, sono dei capolavori, in cui si fondono teologia e poesia. Sono testi che fanno vibrare le corde del cuore per esprimere lode e gratitudine al Santissimo Sacramento, mentre l’intelligenza, addentrandosi con stupore nel mistero, riconosce nell’Eucaristia la presenza viva e vera di Gesù, del suo Sacrificio di amore che ci riconcilia con il Padre, e ci dona la salvezza.

Anche se dopo la morte di Urbano IV la celebrazione della festa del Corpus Domini venne limitata ad alcune regioni della Francia, della Germania, dell’Ungheria e dell’Italia settentrionale, fu ancora un Pontefice, Giovanni XXII, che nel 1317 la ripristinò per tutta la Chiesa. Da allora in poi, la festa conobbe uno sviluppo meraviglioso, ed è ancora molto sentita dal popolo cristiano.

Vorrei affermare con gioia che oggi nella Chiesa c’è una “primavera eucaristica”: quante persone sostano silenziose dinanzi al Tabernacolo, per intrattenersi in colloquio d’amore con Gesù! È consolante sapere che non pochi gruppi di giovani hanno riscoperto la bellezza di pregare in adorazione davanti al Santissimo Sacramento. Penso, ad esempio, alla nostra adorazione eucaristica in Hyde Park, a Londra. Prego perché questa “primavera” eucaristica si diffonda sempre più in tutte le parrocchie, in particolare in Belgio, la patria di santa Giuliana. Il Venerabile Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, constatava che “in tanti luoghi […] l'adorazione del santissimo Sacramento trova ampio spazio quotidiano e diventa sorgente inesauribile di santità. La devota partecipazione dei fedeli alla processione eucaristica nella solennità del Corpo e Sangue di Cristo è una grazia del Signore, che ogni anno riempie di gioia chi vi partecipa. Altri segni positivi di fede e di amore eucaristici si potrebbero menzionare” (n. 10).

Ricordando santa Giuliana di Cornillon rinnoviamo anche noi la fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Come ci insegna il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, “Gesù Cristo è presente nell'Eucaristia in modo unico e incomparabile. È presente infatti in modo vero, reale, sostanziale: con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua Anima e la sua Divinità. In essa è quindi presente in modo sacramentale, e cioè sotto le specie eucaristiche del pane e del vino, Cristo tutto intero: Dio e uomo” (n. 282).

Cari amici, la fedeltà all’incontro con il Cristo Eucaristico nella Santa Messa domenicale è essenziale per il cammino di fede, ma cerchiamo anche di andare frequentemente a visitare il Signore presente nel Tabernacolo! Guardando in adorazione l’Ostia consacrata, noi incontriamo il dono dell’amore di Dio, incontriamo la Passione e la Croce di Gesù, come pure la sua Risurrezione. Proprio attraverso il nostro guardare in adorazione, il Signore ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per trasformarci come trasforma il pane e il vino. I Santi hanno sempre trovato forza, consolazione e gioia nell’incontro eucaristico. Con le parole dell’Inno eucaristico Adoro te devote ripetiamo davanti al Signore, presente nel Santissimo Sacramento: “Fammi credere sempre più in Te, che in Te io abbia speranza, che io Ti ami!”. Grazie.

[Saluti in varie lingue]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della Basilicata, qui convenuti con i loro Vescovi, i sacerdoti e le Autorità civili e militari, in occasione del trentesimo anniversario del devastante sisma che colpì la Regione. In quel drammatico evento, le cui ferite sono ancora profonde e vive nella mente e nel cuore di queste care popolazioni, da tante parti d’Italia sono giunti aiuti generosi. A livello locale, ciascuno si è impegnato, per parte sua, in quegli interventi necessari; vorrei sottolineare in particolare l’opera della Chiesa, che ha saputo offrire, oltre al soccorso materiale, la luce della speranza del Cristo Risorto, in un momento di sconforto e di buio. Auspico che l’odierno incontro, anche nel ricordo della visita paterna compiuta in quei giorni dal Servo di Dio Giovanni Paolo II, ravvivi nel popolo cristiano il dono della fede e la gioia di condividerla nella grande famiglia della Chiesa.

Saluto i partecipanti al pellegrinaggio promosso dalle Suore Discepole di Gesù Eucaristico, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del loro Fondatore, il Servo di Dio Raffaello Delle Nocche, Vescovo di Tricarico, la cui vita è stata interamente guidata dall’incontro con Gesù Eucaristia, anima del suo fecondo apostolato. Questa provvida ricorrenza susciti il fervido desiderio di imitare il luminoso esempio di così zelante Pastore.

Saluto i fedeli di S. Miniato, accompagnati dal Vescovo Mons. Fausto Tardelli e qui convenuti in rappresentanza delle diverse realtà istituzionali, sociali ed ecclesiali della Città e della diocesi. Nel ringraziarli per la loro presenza, li esorto a diffondere in ogni ambiente quei valori umani e cristiani, che rendono feconda ogni iniziativa di bene.

Rivolgo, infine, il mio cordiale pensiero ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Voi, cari giovani, guardate a Gesù come al centro della vostra esistenza, per diventare costruttori di un mondo di autentica pace e di solidale speranza; a voi, cari malati, che state sperimentando la fatica e la sofferenza, auguro di sentire accanto a voi Cristo, e di cooperare con lui alla salvezza del mondo intero; esorto voi, cari sposi novelli, che da poco avete ricevuto nel sacramento del matrimonio l'effusione dello Spirito dell'amore, a trovare quotidianamente forza e coraggio in Dio, per vivere così in pienezza la vostra vocazione.

APPELLO

In questi giorni la comunità internazionale segue con grande preoccupazione la difficile situazione dei cristiani in Pakistan, che spesso sono vittime di violenze o di discriminazione. In modo particolare oggi esprimo la mia vicinanza spirituale alla Sig.ra Asia Bibi e ai suoi familiari, mentre chiedo che, al più presto, le sia restituita la piena libertà. Inoltre prego per quanti si trovano in situazioni analoghe, affinché anche la loro dignità umana ed i loro diritti fondamentali siano pienamente rispettati.

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