Pages

sabato 27 novembre 2010

Non farlo (Storia di un aborto) - Quinta parte

Continuiamo a leggere la testimonianza anonima di un aborto che invita alla riflessione all'esortazione più importante: "non farlo!". Oggi vediamo come il dono della vita si possa trasformare in un incubo mentre dovrebbe essere la gioia più grande di questo mondo. Verso la fine del testo, troverete una frase agghiacciante di una dottoressa, una frase che dimostra il livello di insensibilità raggiunto dall'uomo "moderno":


Aldilà di alcuni bei momenti isolati, le giornate erano lunghe e spesso difficili accanto a lui… Ma entrambi desideravamo trovare una soluzione illuminante e definitiva ai nostri problemi, che non fosse quella di troncare la nostra storia. Eravamo, infatti, convinti (certamente in modi diversi) di voler stare insieme e di salvare il nostro rapporto…
Una sera lui mi fece un discorso particolare. Mi disse che mi voleva bene sul serio, aldilà delle nostre “incomprensioni”. Mi disse che saremmo comunque rimasti insieme, che non ci saremmo lasciati in nessun caso, e che sentiva l’esigenza di trovare un modo che ci garantisse di restare uniti, nonostante le liti, perché non voleva perdermi. Mi chiese di provare ad avere un figlio.

Ero felice, mi sembrava la soluzione ai nostri problemi. Mi sembrava la via di salvezza, il miracolo che ci avrebbe unito per sempre. Non capivo quanto fosse pericoloso tutto questo. Non capivo e non vedevo il
male che avrei potuto procurare a me stessa, a Marco e soprattutto a quella creatura che il nostro "io" aveva pensato di chiamare in causa, come se potesse, in qualche modo, risolvere dei problemi in realtà senza via d’uscita. Decidemmo quindi di smettere di prendere precauzioni.
Per un brevissimo periodo, quella nuova complicità ci avvicinò, regalandoci sensazioni profonde e molto dolci; delle vive speranze per un futuro certamente migliore…sereno, felice, che ci avrebbe fatto dimenticare il periodo burrascoso che stavamo attraversando.
Continuammo a vederci per altri due mesi circa, avanzando faticosamente tra alti e bassi. Sperando entrambi che da un momento all’altro sarebbe arrivato dal cielo un segno: una benedizione "divina" al nostro amore.
Ma in realtà nulla era cambiato. Eravamo stufi della situazione, stremati. L’uno dalla rabbia mista a malinconia e l’altra, dalle liti violente seguite dagli opprimenti silenzi senza fine.
Ricordo con disgusto serate, all’origine quasi piacevoli, che poi si trasformavano inspiegabilmente in un incubo. Momenti di allegria tramutati, chissà come, anche solo per una banalissima frase equivocata, in ore drammatiche in cui si litigava violentemente. Si degenerava poi con offese verbali da parte di entrambi, e purtroppo talvolta anche fisiche da parte di Marco, quando nei suoi occhi scorgevo una luce iraconda che non trovava via d’uscita se non attraverso scatti di aggressività fuori controllo.
Una volta mi è capitato di ricevere un ceffone da lui, di essere strattonata e gettata per terra. In quel momento l'ho odiato profondamente, ma in quegli istanti capivo anche che razza di mostro avessi al mio fianco, che persona insensibile e manesca fosse in realtà.
Disprezzavo lui e anche me stessa attraverso il suo vile comportamento. Mi ripetevo che se gli permettevo di trattarmi così, era perché sapevo di non meritare di meglio… La già delicata stima che avevo di me, mi abbandonava lentamente.
Qualche volta ricevevo delle scuse, e qualche volta mi sentivo ancora più umiliata quando mi sentivo biasimare per giunta. Mi intimava di non perdermi in inutili piagnistei, di non farla troppo lunga, perché <>, che io stavo ingigantendo senza motivazioni valide.
Ricordo perfettamente l’episodio squallido che non riuscirò mai a dimenticare, in cui, durante “un’accesa discussione”, mi diede uno spintone così forte da farmi cadere per terra. Ricordo il suo sguardo glaciale che mi fissava, e la sua voce che quasi mi scherniva, accusandomi di non essere in grado neppure di reggermi in piedi.
Adorto - Movimento nazionale per la famiglia e la vita
Ma che razza di amore era mai questo? Dov’era la felicità che avevo sognato da sempre, come qualunque adolescente che poi si ritrova inaspettatamente donna?
Mi fu fin troppo chiaro, a quel punto, quanto fosse stato pericoloso idealizzarlo. Marco non assomigliava affatto all’uomo dolce e premuroso che avevo sempre desiderato, e avevo sognato di trovare in lui, guardandolo negli occhi per la prima volta.

Arrivò purtroppo il giorno in cui una delle nostre numerose liti ci portò alla rottura. Parole troppo offensive erano state pronunciate, accuse troppo pesanti e ingiuste erano state lanciate, senza alcun rispetto da parte di
entrambi…
Ci lasciammo.
Ero arrabbiatissima con Marco, non potevo perdonarlo per tutto il dolore che mi aveva causato, e certamente anche lui provava la mia stessa sensazione di tradimento, di abbandono, di delusione per una storia alla quale in fondo tenevamo entrambi…
Sconvolta com’ero, nelle settimane a seguire non mi resi neppure conto di aver avuto un ritardo. E ogni volta che mi balenava un pensiero per la mente, lo rifiutavo, lo scacciavo, o semplicemente lo sottovalutavo; come se, attraverso il mio atteggiamento, avessi potuto ricacciare indietro la realtà che si presentava davanti ai miei occhi, o avessi potuto cancellare ogni sorta di dubbio e timore.
Trascorsero alcune settimane, durante le quali non feci altro che piangere e soffrire tremendamente a causa di Marco e della sua indifferenza. L’orgoglio ferito di entrambi ci teneva rigorosamente lontani, come non ci fossimo mai conosciuti. Lui non mi cercava e io non lo cercavo. Da parte mia ricordo solo un fortissimo desiderio di vendetta nei suoi confronti. Non volevo vederlo mai più, a costo di soffrire per chissà quanto tempo. Non mi importava di lui, perché lui non mi meritava, o meglio: io meritavo una persona migliore, che mi
rispettasse e che mi sapesse dare amore e tenerezza. Non una persona insensibile e cinica che mi procurasse rabbia e dolore infiniti. Un brutto giorno mi svegliai con un pensiero che mi ridestò improvvisamente.
Mi scosse così tanto da farmi balzare giù dal letto e farmi correre in farmacia.
Tutti quegli strani sintomi che avevo deliberatamente sottovalutato, d’improvviso formavano a chiare lettere la parola “angoscia”. La sensazione di rigurgito che provavo sempre più spesso, la stanchezza persistente che
avvertivo durante la giornata, e quello strano tipo di mal di testa, che non avevo mai provato prima, mi indussero a preoccuparmi seriamente. Alla preoccupazione seguì la disperazione più grande: l’obbligo di scegliere, di prendere una decisione così importante in così poco tempo, se le mie preoccupazioni fossero state fondate. E poi il senso di solitudine che mi annebbiava la mente…mi sentivo sola e abbandonata ad un destino
incredibilmente spietato. Mi vergognavo della situazione in cui mi ero ritrovata, avevo bisogno di parlare con qualcuno, ma non ne avevo il coraggio. Non potevo parlarne con mia madre, né tantomeno con le amiche, delle quali sapevo che non mi sarei potuta fidare. Ero completamente sola. L’idea di parlare con Marco, prima di essere certa di ciò che stava accadendo, non mi passava neppure per la mente. Se il nostro sogno era diventato il mio privato incubo, era soltanto per colpa sua.
Tormentata dall’angoscia di non sapere, terrorizzata all’idea di sapere che ero realmente incinta di questa persona spregevole, presi la macchina, decisi di andare in un paese vicino al mio, e cercare una farmacia. Quando vi entrai chiesi quale fosse il modo più sicuro per sapere se fosse in corso una gravidanza: mi dissero che la certezza assoluta avrei potuto averla solo attraverso le analisi del sangue. Ringraziai con la voce tremante e andai a cercare un laboratorio di analisi, dove mi fu detto di presentarmi la mattina successiva, a stomaco vuoto per poter fare il prelievo. Uscii trattenendo a fatica le lacrime. Dovevo attendere ancora, e logorarmi all’idea che avrei dovuto decidere tutto troppo in fretta, e soprattutto senza poter chiedere aiuto a
nessuno.

Il pomeriggio andai in Chiesa, mi inginocchiai davanti alla statua di Gesù Cristo, e pregai tanto, affinché tutto quello spavento si fosse miracolosamente rivelato un falso timore, una grande paura e niente di più.
Perché se non fosse stato così, come avrei potuto avere un figlio da un uomo così squallido? Così bugiardo, disonesto, violento… non poteva essere vero, la vita non poteva avermi giocato uno scherzo così crudele…
La sera mi misi a letto. Sfinita dal dolore e dalla stanchezza, provai a dormire, ad essere ottimista, ad evitare pensieri angoscianti, distruttivi, ma non ci riuscii. Dormii complessivamente per un’ora, forse anche meno. Di Marco non c’era alcuna traccia.
Il mattino seguente, con un nodo alla gola, mi alzai, mi vestii e mi diressi nuovamente al laboratorio di analisi. La dottoressa cercò di tranquillizzarmi, mi disse che “in un modo o nell’altro” tutto si sarebbe sistemato. Quella fu una delle frasi più spietate, che mi sia mai stata detta. Non la dimenticherò mai. Mi fece il prelievo e poi mi congedò, dicendomi che avrei potuto ritirare l’esito delle analisi già il pomeriggio del giorno dopo.
Quelle ore durarono un’eternità, ma quando arrivò il momento di sapere, mi sembrò che fossero volate.
Le ritirai, ma non ero lucida al punto di capire cosa significassero quelle cifre: chiesi un chiarimento.
La dottoressa mi disse che l’esito era positivo: ero incinta di sei settimane.

0 commenti:

Posta un commento