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mercoledì 4 agosto 2010

Fides et ratio - La sapienza tutto conosce e tutto comprende

Torna l'appuntamento settimanale con la Lettera Enciclica del Venerabile Giovanni Paolo II "Fides et Ratio", per riflettere sui rapporti tra fede e ragione:


CAPITOLO II

CREDO UT INTELLEGAM


« La sapienza tutto conosce e tutto comprende » (Sap 9, 11)

16. Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare, l'Egitto e la Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle culture dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di intuizioni singolarmente profonde.

Non è un caso che, nel momento in cui l'autore sacro vuole descrivere l'uomo saggio, lo dipinga come colui che ama e ricerca la verità: « Beato l'uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l'intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all'ombra della sua gloria » (Sir 14, 20-27).

Per l'autore ispirato, come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Grazie all'intelligenza è data a tutti, sia credenti che non credenti, la possibilità di « attingere alle acque profonde » della conoscenza (cfr Pro 20, 5). Certo, nell'antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i parametri propri dell'epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale.

Quale? La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi è significativa in proposito: « La mente dell'uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio.

17. Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l'una è nell'altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione. E sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: « E gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2). Dio e l'uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio risiede l'origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e questo costituisce la sua gloria; all'uomo spetta il compito di investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà. Un'ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega dicendo: « Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora » (139 [138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell'uomo, pur nell'esperienza del limite invalicabile, sospira verso l'infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta.

18. Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell'uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l'orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel « timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.

Quando s'allontana da queste regole, l'uomo s'espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello « stolto ». Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell'ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino.

19. Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l'Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con la sua intelligenza l'uomo è in grado di « comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap 7, 17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l'Autore afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: « Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l'autore » (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso « libro della natura », leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se l'uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto all'impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.

20. La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede: « Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo comprendere la propria via? » (Pro 20, 24). Per l'Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto acquista senso. In una parola, l'uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria esistenza. Giustamente, dunque, l'autore sacro pone l'inizio della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il principio della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir 1, 14).


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