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sabato 15 gennaio 2011

Non farlo (Storia di un aborto) - Decima parte

Continuiamo, dopo le festività natalizie, a leggere la testimonianza anonima di un aborto che invita alla riflessione all'esortazione più importante: "non farlo!". Oggi vediamo compiersi lo scempio, tra la mancanza di forza della protagonista e l'incredibile indifferenza dei medici e soprattutto della madre, incapace di rendersi conto dell'orrore che si stava compiendo grazie alla sua mancanza di supporto e di amore:


Dovevo trovarmi in clinica alle sette del mattino, per fare alcuni accertamenti, un’ecografia veloce, e firmare una sorta di liberatoria per svincolare la struttura da ogni responsabilità. Nessuno mi chiese perché avessi
preso tale orribile decisione. Nessuno se ne dispiacque. Erano maledettamente abituati a quella ignobile routine… Durante l'ecografia non riuscii a dire neppure una parola, tanto meno a chiedere spiegazioni sull’immagine che stavo vedendo. Istintivamente avrei voluto informarmi sullo stato di salute di quella creatura innocente, ma non lo feci poiché mi sembrava profondamente cinico da parte mia.
Dopo questo esame fui accompagnata in una stanza, nella quale trovai anche un’altra ragazza, che aveva un paio d’anni più di me, e con cui iniziai a parlare, per cercare di non pensare al momento che stavo vivendo.
Ci confidammo un po’ sulle ragioni che ci avevano spinto ad arrivare in quella camera. Lei mi disse che era venuta insieme al suo ragazzo, perché avevano deciso, di comune accordo, che era troppo presto per avere un bambino, e che non avrebbero potuto trascorrere molto tempo con lui, perché troppo impegnati nel lavoro. Disse che le dispiaceva che quel bambino crescesse con i nonni, e che quindi preferiva “non tenerlo” e rimandare la sua maternità…

Era amareggiata, ma paradossalmente serena che anche il suo fidanzato fosse d’accordo con lei. Si vantava addirittura del fatto che lui le fosse vicino in quel momento, non si aspettava tanto calore da parte sua.
Io ero stravolta, non parlavo più. Provavo vergogna per il fatto di essere lì da sola, con mia madre in sala d’attesa, e il padre del mio bambino chissà dove. Allo stesso tempo, pur non essendo affatto nelle condizioni di criticare quella ragazza, trovavo profondamente ingiusto e immotivato il suo gesto. Pensavo che se fossi stata io al suo posto, se avessi avuto ancora accanto il mio ragazzo, non avrei certo deciso di interrompere la gravidanza per delle banalissime, insignificanti questioni “pratiche”. Sono certa che anche lei si sia pentita
amaramente della sua decisione, forse anche più di me… Un’infermiera ci fece spogliare ed indossare un camice verde, ci disse di togliere gli ori e di attendere.
Dopo circa un quarto d’ora ci portarono, una alla volta, in sala pre-operatoria, dove io scoppiai in lacrime, finché arrivò l’altra ragazza, e mi chiese, con una voce triste, se mi stessi pentendo di quella decisione. Non riesco a pensare a quel momento senza ricominciare a piangere…
Non le risposi in quel momento, non riuscivo a parlare, ma sentivo che non potevo tornare indietro.
E’ questo il momento in cui i ricordi mi portano ad odiare mia madre. Era l’unica persona che sapeva, l’unica che avrebbe potuto fermarmi, l’unica che aveva acconsentito ad accompagnarmi in quell’inferno, e ad aspettarmi quasi con disinvoltura, come se stessi facendo un banale esame del sangue. Mia madre è stata un mostro, e non lo ha mai capito. Quando fu il mio turno mi trasportarono con una barella in sala operatoria.
Ricordo le facce sorridenti, persino dolci, benevole, di quei mostri dei medici, che mi spiegarono quale posizione avrei dovuto assumere e poi, avvicinandomi una maschera con dentro dell’anestetico, mi chiesero di inspirare e contare fino a dieci.
Mi addormentai all’istante, in quell’istante in cui avrei dovuto fermare tutto, scendere da quel lettino maledetto, e scappare via. Avrei dovuto … ma non lo feci. In quel momento stavo distruggendo due vite, senza riuscire a rendermene conto.

Quando mi svegliai provai un forte dolore al ventre, non riuscivo quasi a muovermi, e perdevo sangue. Nel mio cuore ero infinitamente triste, disperata, azzittita dal dolore fisico e morale che stavo provando, mentre il mondo lì fuori non si accorgeva di nulla. Mi riportarono nella camera in cui avevo atteso il mio turno. Lì trovai l’altra ragazza al telefono con il fidanzato che l’aspettava al piano di sotto. Gli spiegava che stava bene, che era tutto a posto, che era andato tutto bene, che aveva un po’ di dolore, niente di grave, e che poco dopo sarebbe scesa. Io non parlavo con nessuno, non avevo nessuno a cui poter dire come mi sentivo, anche perché ero così sconvolta che non sarei riuscita a parlare in ogni caso, tanto era grande il mio dolore, e il mio senso di colpa.
Stavo zitta, e cercavo di non pensare a quello che era accaduto. Provai a non pensare a niente e a nessuno. Tentavo di dimenticare quella sensazione orrenda, quel vuoto incolmabile che provavo dentro, e che in realtà non mi hai MAI abbandonato. Mi accompagna tuttora.

Quando ripresi un po’ di energie, l’infermiera mi accompagnò giù, dove c’era mia madre, che si preoccupava solo del mio stato fisico. Mi chiese se avessi la forza di camminare o meno, se riuscivo ad arrivare alla
macchina, e nient’altro. Il ritorno a casa fu di un silenzio assordante, che mi scoppia tuttora nelle
orecchie, silenzio in cui cercavo di sfuggire al ricordo, così terribilmente vicino di quell’esperienza, misto al torpore dell’anestetico. Arrivammo a casa. Mi misi a letto perché non avevo la forza di restare in piedi.
Era ora di pranzo, mio padre arrivò dal lavoro, chiese di me, e mia madre disse che avevo rimesso e non mi sentivo bene, per cui stavo cercando di riposare un po’.

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