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sabato 8 gennaio 2011

Non farlo (Storia di un aborto) - Nona parte

Continuiamo, dopo le festività natalizie, a leggere la testimonianza anonima di un aborto che invita alla riflessione all'esortazione più importante: "non farlo!". Ci eravamo lasciati tre settimane fa con la narratrice che aveva preso appuntamento per l'aborto, dietro consiglio incredibile della madre. Oggi leggiamo i pensieri concepiti nelle due settimane antecedenti il momento dell'intervento:


Trascorsi quelle due settimane in totale stato di shock. Alternavo momenti di rancore spietato nei confronti di Marco e delle sue ultime parole, ad altri di dolore profondo. Provavo disprezzo e pena per me stessa, dispiacere e cordoglio immenso per quel piccolo essere innocente. Avevo stabilito che doveva tornare indietro lì, da dove era venuto, perché senz’altro lì sarebbe stato più felice che con me, visto l’inferno in cui stavo vivendo, e da cui credevo non sarei mai più uscita.
Spesso gli parlavo, di notte, piangendo. Gli dicevo, avendo una nitida sensazione che fosse un maschietto: “Amore mio, perdonami, so che puoi comprendere le ragioni del mio gesto, perché tu sei ancora in cielo, e lì resterai per sempre. Da lì potrai vedere e capire molte più cose di quanto non potresti mai fare qui, tra noi poveri esseri umani, infimi e disperati. Non pensare mai che io non ti ami, perché io ti adoro e ti porterò sempre nel mio cuore. Se faccio questo è solo per proteggerti, per evitarti mille sofferenze atroci, quelle sensazioni di rifiuto che proveresti se venissi al mondo in una situazione disastrosa come questa… Sono certa che proveresti un enorme senso di colpa, che ti sentiresti responsabile della mia infelicità. Forse mi odieresti
profondamente, e ti chiederesti ogni giorno perché la tua mamma ti ha fatto nascere… Per farti stare male? Per umiliarti? Per colpevolizzarti dei suoi fallimenti? Perdonami, ti prego, e cerca di capirmi, se puoi, amore mio…”.
Andavo avanti così tutta la notte, ogni notte per quelle due atroci, incancellabili settimane. Di giorno non parlavo con mia madre. Ero troppo amareggiata e disincantata, e poi mi vergognavo di ciò che stavo per fare, malgrado non fossi del tutto cosciente della gravità della mia decisione.
Se uscivo per fare delle commissioni o per andare a lavoro, indossavo una maschera, un sorriso disperato che tentava di nascondere la tragedia che stavo vivendo, ma non riuscivo mai a smettere di pensarci…
In quei giorni Marco mi cercò spesso, mi telefonava ogni giorno, ma io non gli risposi più, neppure una volta. Oramai avevo deciso. Ci avevo riflettuto abbastanza, ed ero così arrabbiata, lacerata dal dolore, mi sentivo talmente umiliata che qualunque cosa mi avesse detto, io non avrei mai cambiato idea.
Perlomeno era ciò che pensavo in quei momenti, quando leggevo il suo nome che appariva intermittente sul display del mio cellulare… La sensazione più atroce che mi è rimasta dentro è l’incertezza sui macabri pensieri di quei giorni: è il dubbio su come le cose sarebbero potute andare, se solo avessi calpestato per un attimo il mio orgoglio, la mia dignità, e lo avessi ascoltato… perdonato.
Ora ammetto che mi sarebbe di grande aiuto poter scaricare ogni mio senso di colpa su di lui, su mia madre, sul “destino”… ma non posso sfuggire alle mie schiaccianti responsabilità in tutta la vicenda.
Avrei dovuto ascoltare Marco, rispondere alle sue innumerevoli chiamate, magari sentirmi ulteriormente umiliata dalle sue cattiverie, e avrei dovuto scegliere di sacrificare la MIA vita, e non quella del mio angelo.
Non è giusto neppure dar la colpa al destino… cos’è? Chi è il destino? In fondo credo che l’unico essere che potrebbe dipingere l’essenza del destino sia Dio, e certamente non è stato Lui a spingermi a compiere un gesto così atroce…
La verità è che la colpa è solo mia. Arrivò purtroppo il giorno in cui la mia decisione doveva concretizzarsi.
Quelle due settimane erano volate via, e io non potevo più rimandare. Avevo deciso. Ed ero anche convinta che avrei dovuto farlo il prima possibile, perché così anche il mio piccolo avrebbe sofferto di meno. Era un feto di otto settimane, non potevo attendere che crescesse ancora.
Dovevo trovarmi in clinica alle sette del mattino, per fare degli accertamenti, e per aspettare il mio turno. Purtroppo non ero l’unica ragazza che aveva deciso di interrompere la propria gravidanza. Ci andai con mia madre, mio padre non venne mai a conoscenza di nulla (almeno questo mi consola: non avergli dato questo dolore). Avevo un incredibile vuoto nella mente. Rifiutavo di pensare, di capire, di credere che quello che stavo per fare era un gigantesco errore, un peccato imperdonabile.
Non ero lucida, non ero io. Desideravo solo che tutto avvenisse in fretta, perché prima sarebbe finita e prima avrei potuto cercare di dimenticare.
Pensare questo fu un altro madornale errore: finché avrò vita non dimenticherò. Non ricordo bene la successione cronologica degli eventi, i miei ricordi sono confusi, oscurati dal dolore, e indicibilmente strazianti.

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